“Sono troppo ricco, devo pagare più tasse” – ha detto Bill Gates nel suo ‘mea culpa’ di inizio 2020. Ed ha aggiunto: “Bisogna trasferire il carico fiscale più sul capitale e meno sul lavoro”. Dunque – non è mai troppo tardi – anche Bill Gates ha capito che questo tecno-capitalismo, che pure ha potentemente contribuito a creare, non funziona e soprattutto è deliberatamente ingiusto e fautore di disuguaglianze. Ha un precedente altrettanto famoso, quello del finanziere Warren Buffet che già dieci anni fa aveva detto: “Ma vi pare giusto che io paghi meno della mia segretaria o della donna delle pulizie?” – dove ‘meno’, significava ovviamente ‘in proporzione al reddito’. Un altro degli uomini più ricchi del mondo si preoccupava quindi di giustizia sociale e redistributiva… cosa che le sinistre non fanno più da tempo.
Crescita delle diseguaglianze, il rapporto Oxfam e lo studio Agcom
In più: l’annuale Rapporto Oxfam ‘Time to care’ – presentato in questi giorni al World Economic Forum, come l’anno scorso – ha evidenziato di nuovo un aumento delle disuguaglianze nel mondo. Ha sintetizzato perfettamente la situazione, Roberto Ciccarelli: “Quando guarderemo indietro al 2020 ricorderemo il mondo organizzato come una piramide. Alla base c’erano 3,8 miliardi di persone poverissime, il cui reddito non superava l’1% della ricchezza planetaria.
Il vertice era stato occupato da un ‘commando’ di 2.153 super-miliardari che detenevano la stessa ricchezza posseduta da 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione mondiale. Era il tempo in cui il 46% di persone viveva con meno di 5,50 dollari al giorno, mentre chi continuava a lavorare nei paesi del capitalismo occidentale diventava sempre più povero. C’è un’immagine della ‘miniera inferno’ scattata da Sebastião Salgado a Serra Pelada in Amazzonia che può dare un’idea più precisa. Migliaia di minatori lottano contro il fango per risalire il cratere della miseria in cui sono sprofondati. Una moltitudine di miserabili che cercano di risalire dal fango arrampicando scale di fortuna, mentre la vetta si allontana sempre di più. Ricordiamo questa immagine: è il capitalismo del XXI secolo”. Digitale e non digitale, aggiungiamo noi. E se il vertice di Davos si è ispirato alla ‘sostenibilità’, dovremmo sempre ricordare – perché lo dimentichiamo sempre, ma i fatti ce lo dimostrano ogni giorno di più – che il ‘tecno-capitalismo’ (basato su accrescimento infinito e incontrollato dell’apparato tecnico e insieme del profitto capitalista), è ‘insostenibile’ (oltre che ‘irresponsabile’ e ‘nichilista’ verso la biosfera e le future generazioni), per sua ‘essenza e natura e scopo’.
Ancora: a fine 2019, l’Autorità italiana per le comunicazioni (AGCom) ha calcolato che i ricavi complessivi dei giganti della rete ammontavano a 692 miliardi di euro a livello globale. Scomponendo i ricavi pubblicitari, in testa alla classifica vi è Google con 37 euro ricavati da ogni singolo ‘navigatore’, cioè da ciascuno di noi; a cui si aggiungono i 10 euro estratti da YouTube (che appartiene sempre a Google), arrivando così a un ricavo complessivo, generato dal nostro ‘lavoro’ (gratuito) di ‘proletari produttori di dati’, di circa 50 euro. Facebook ricava invece 21 euro, cui vanno sommati gli 11 via Instagram (controllata da Facebook). Ovviamente i colossi del web ricavano più soldi negli Usa: 150 euro per persona grazie alle ricerche in rete e 90 grazie alle attività sui ‘social’ (che – ricordiamolo ancora, visto che lo dimentichiamo sempre – a dispetto del nome accattivante ma del tutto fuorviante sono imprese private capitalistiche tra le più spietate quanto a sfruttamento del lavoro e del ‘pluslavoro’, imprese per le quali obiettivo primario è il profitto proprio e non certo la ‘socializzazione’ delle persone o la loro ‘amicizia’).
Restringendo il campo alla sola Italia, l’AGCom ha stimato in 23 euro per persona il ricavo da pubblicità generato dall’insieme delle piattaforme internet. Poco, tanto? Certamente aumenterà ancora, tale è la nostra ‘dipendenza’ ormai patologica dalla rete.
A sua volta Antonello Soro, Garante italiano per la privacy ha detto a ‘la Repubblica’ (del 28/12/2019): “Si calcola che il numero delle app che ‘tracciano’ le abitudini degli utenti, compresa la posizione, siano circa ottanta. Ottanta per ogni persona che ha uno smartphone nel mondo”. Che tracciano, cioè che ‘spiano’ – perché questo è il termine corretto che dovremmo usare se non fossimo circuiti dalla neolingua digitale – ogni individuo. Neppure i devastanti totalitarismi del ‘900 erano arrivati a tanto, ma allora qualcuno si è ribellato, oggi nessuno si ribella più ed essere spiati – e non da uno Stato, ma da imprese commerciali che lo fanno, di nuovo, per profitto – è diventata la ‘normalità’ del nostro ‘essere in rete’. Soro ha aggiunto: “Se su base quotidiana sai cosa fanno i cittadini, dove vanno e cosa comprano, hai il quadro della vita di un paese. Un vantaggio geopolitico e tecnologico immenso, grazie all’intelligenza artificiale che viene infatti addestrata su grandi quantità di dati. Dovremmo avere uno scudo digitale, perché non abbiamo né tutele né difese. Il Gdpr europeo offre molte tutele che altrove non esistono. Ma non basta ancora”.
È un mondo più iniquo nell’era digitale: il punto sugli studi
Tecnica e/o democrazia
E allora, continuiamo la riflessione su un tema che abbiamo già affrontato nei nostri contributi precedenti usciti su agendadigitale.eu, ovvero quello del rapporto tra tecnica/tecnologia e democrazia. Soro ne parla anche nel suo libro: ‘Democrazia e potere dei dati’ (Baldini+Castoldi). Con sopra-titolo: ‘Libertà, algoritmi, umanesimo digitale’. Sì, perché il tema del rapporto – sempre più conflittuale – tra democrazia e tecnica non è certo nuovo, ma è divenuto centrale, scrive Soro, nell’era digitale, perché questa nuova ‘forma’ della tecnologia ha avuto ed ha un impatto tale sulla vita individuale, sociale e democratica, che deve essere portato alla luce e quindi introdotto nel dibattito pubblico della ‘polis’ – dimostrando che esiste un problema – e poi affrontato con il massimo grado di consapevolezza e di responsabilità.
Invece, tendiamo a fuggire da questo problema (troppo bella e fascinosa è la tecnologia…), così però alienandoci appunto dalla consapevolezza e dalla responsabilità per gli effetti che questa tecnologia digitale sta producendo e ancora produrrà se non governata democraticamente, finalizzandola quindi all’uomo e non al profitto privato. Un problema che va affrontato con spirito critico, proprio per evitare di alienarci/auto-escluderci dalla capacità e dalla possibilità di progettazione e di costruzione di un mondo umano: volontà che era tipica della modernità, dell’illuminismo, ma che stiamo invece perdendo ‘lasciando fare’ alle macchine – come abbiamo scritto nel 2018 nel nostro ‘La grande alienazione’.
Una tecnologia che ha acquisito un ‘potere ingiuntivo’; una ‘tecnologia dell’integrale’; della ‘amministrazione automatizzata delle condotte umane’ come ha scritto anche Éric Sadin nel suo bellissimo ‘Critica della ragione artificiale’ (Luiss, 2019) e richiamato anche da Soro quando scrive – come noi scriviamo da anni, come Ippolita scrive da anni – che “è in atto un vero e proprio mutamento strutturale della tecnica, che – lo rileva bene Sadin – da protesica (volta a compensare i deficit naturali dell’uomo) diviene mimetica, capace cioè di replicare, fino a sostituire, gli aspetti più qualificanti dell’uomo, come la razionalità; marginalizzando, in molte circostanze, il contributo dell’uomo nel processo decisionale. Ciò che – come l’algoritmo – avrebbe dovuto supportare la decisione, diviene esso stesso organo decisionale e la mera esattezza (l’episteme greca) rischia oggi di essere confusa con la verità in sé. E se questo, in fondo, è il principale mutamento antropologico, simbolico e culturale indotto dall’intelligenza artificiale, esso va considerato in combinazione con gli effetti, non certo trascurabili, del potere predittivo degli algoritmi”. E con altro ancora.
Un nuovo umanesimo contro l’ideologia globale della macchina: la proposta
Potere predittivo degli algoritmi – sia detto in parentesi – che si basa appunto sullo spionaggio incessante della vita degli individui per creare il Big Data, ma va poi a smentire tutte le retoriche dominanti (la ‘propaganda’ del tecno-capitalismo) sulla ‘personalizzazione’ dei consumi e delle scelte di vita grazie alla rete, posto che portare/indurre il consumatore ad acquistare beni o servizi ‘vicini’ a quelli consumati/utilizzati in precedenza significa standardizzarne i consumi, omologarne e conformarne i comportamenti rendendoli prevedibili (e quindi meglio gestibili e organizzabili in termini di produzione e di vendita da parte delle imprese, cioè – di nuovo – di profitto privato). Tutto diverso da una vera personalizzazione della propria vita… semmai, è un modo diverso di conformare i comportamenti umani, di ‘ingegnerizzarli’ secondo le esigenze del sistema tecno-capitalista, spogliando il consumatore di ogni libertà e di ogni autonomia nella scelta. Se Marcuse aveva scritto di ‘falsi bisogni’ – quelli sovraimposti all’uomo dal sistema produttivo e di consumo per la propria riproducibilità/accrescimento – oggi dovremmo scrivere di ‘false personalizzazioni’ dei consumi e degli stili di vita, per garantire nuovamente la riproducibilità/riproduzione/accrescimento del sistema, arrivando appunto a quella ‘amministrazione automatizzata delle condotte umane’ ricordata sopra, che riprende la ‘società amministrata’ temuta già mezzo secolo fa dalla Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer…).
Per aggiungere ulteriori elementi alla discussione e alla riflessione sul rapporto appunto nuovamente conflittuale/oppositivo tra tecnica come apparato convergente/integrato di macchine-uomini e democrazia – ma anche, tra impresa (digitale/4.0/piattaforma) e democrazia economica e politica – diventa utile leggere altri due testi, anch’essi usciti da poco: il ‘Report 2019’ di AINOW e ‘La trappola di internet’ (Einaudi), di Matthew Hindman.
Algoritmi, le raccomandazioni di AINOW
Il Report di AINOW Institute della New York University pone l’attenzione su quegli algoritmi che consentono alle macchine di prendere decisioni (ancora il tema della decisione visto sopra), sul governo algoritmico della forza lavoro, sul welfare in epoca digitale, sulla giustizia sociale ed ambientale, sulla sorveglianza e sul monitoraggio degli immigrati e dei rifugiati. Report che si apre con una serie di ‘Recommendations’, dodici in totale, tra le quali ci piace ricordare quelle che hanno per noi la maggiore rilevanza in termini di minacce alla libertà degli individui e alla democrazia/’stato di diritto e di diritti’:
- i governi e le imprese devono cessare l’uso delle tecnologie di riconoscimento facciale fino a quando i rischi del loro utilizzo non siano stati pienamente studiati e non siano state approntate adeguate regolamentazioni per il loro uso;
- i lavoratori devono avere il diritto di opporsi ad un uso estrattivo e invasivo dell’AI e i sindacati devono aiutarli in questa opposizione;
- i lavoratori delle nuove tecnologie devono avere il diritto di sapere – di nuovo, il tema della consapevolezza dei processi in cui si è inseriti – cosa stanno producendo/generando, eventualmente contestando/opponendosi a un loro uso non-etico o dannoso;
- i governi devono valutare l’impatto ambientale/climatico delle industrie legate all’AI;
- sempre i governi devono estendere le leggi a tutela della privacy biometrica;
- occorre regolamentare e restringere l’ambito della sorveglianza pubblica e privata.
La tecnica/tecnologia è antidemocratica per essenza
Obiettivi tutti condivisibili. Ma ‘come’ realizzarli è infinitamente più difficile, posto che appunto la tecnica tende a prescindere (in sé e per sé) dalla democrazia, dalle libertà dell’uomo e dai suoi diritti politici, civili e sociali. E non accetta, come la scienza, nessuna ‘democratizzazione’ di se stessa, vivendo semmai questa sola possibilità come minaccia alla sua libertà; cioè, la tecnica è autoreferenziale e autocratica per essenza e tendenza e proprio questo pone alla democrazia – cioè a tutti noi – il problema (serissimo e drammatico, ma soprattutto sempre più urgente da risolvere), di quanta libertà riconoscere a tecnici e scienziati qualora la ‘loro’ libertà di ricerca e innovazione minacci poi la ‘nostra’ libertà di uomini e la stessa democrazia. Avendo noi accettato da tempo e senza riflettere il ‘dispositivo’ di farci/lasciarci profilare/spiare/controllare (‘tanto non ho nulla da nascondere…’), ha ancora un senso proporre la democratizzazione della tecnica con cui ormai ‘felicemente ma irresponsabilmente’ ci integriamo e identifichiamo?
Non abbiamo forse già rinunciato da tempo alla democrazia e non ricerchiamo forse sempre più qualcuno-qualcosa a cui delegare le scelte e le decisioni, che sia un algoritmo o l’uomo forte desiderato dal 48% degli italiani secondo l’ultimo Rapporto del Censis?
Ci interessano ancora i diritti sociali, civili e politici – diritti individuali ma anche collettivi – se il tecno-capitalismo ci ha trasformato da cittadini con diritti in ‘competitors’ gli uni degli altri, in egoisti/egotisti-solipsisti/narcisisti? Non stiamo forse realizzando noi stessi il dogma neoliberale – oltre che di una tecnica come apparato/sistema che vive di organizzazione/amministrazione, di ‘ingegnerizzazione’ eteronoma dei comportamenti – per cui: ‘la società non esiste’ (e soprattutto ‘non deve più esistere’); oppure ‘deve’ trasformarsi in ‘mercato o rete’ – importante è produrre sempre di più, consumare sempre di più, competere sempre più convintamente, generare sempre più dati e farci controllare/spiare sempre di più?
La trappola (o la ragnatela) di internet. E il palloncino da gonfiare
E veniamo al libro di Hindman. Che vorrebbe essere un testo di ‘economia politica digitale’, ma che in realtà banalizza concetti e processi/tecniche di modificazione comportamentale rintracciabili in un manuale di organizzazione del lavoro o di marketing oppure, ma in senso però critico, in un testo come ‘Persuasori occulti ‘ (Einaudi) di Vance Packard (un libro del 1957, ma ancora attualissimo).
Tuttavia – e nonostante questi limiti – è comunque un libro utile. Innanzi tutto, Hindman ci ricorda come internet (o diciamo meglio: i suoi retori, i suoi ideologi, i suoi propagandisti) – che pure aveva promesso di allargare e segmentare il mercato per la gioia dei consumatori, ampliando la scelta e rendendo impossibile l’idea stessa di monopolio o di oligopolio – abbia invece prodotto proprio monopoli e oligopoli, con i colossi del web che controllano e amministrano e sfruttano per sé e per i propri profitti il tempo che passiamo online, generando quella che si chiama ‘economia dell’attenzione’. Internet non ha infatti ridotto i costi per raggiungere il pubblico, né ha cancellato le ‘barriere all’entrata’ nel mercato di nuove imprese; e i piccoli produttori/venditori restano piccoli; mentre i consumatori sono comunque attratti dai grandi player digitali. E quello che doveva diventare un mercato orizzontale si è trasformato in un mercato ancora più verticalizzato e concentrato e non certo decentrato.
Perché questo? Perché, scrive Hindman, “nel mercato digitale la sopravvivenza dipende dalla ‘stickiness’ (cioè dalla ‘appiccicosità’), dalla capacità delle imprese di attrarre utenti, di farli rimanere più a lungo e di farli tornare più e più volte” – nessuna novità, perché sono le ‘vecchie’ tecniche di fidelizzazione/comunitarizzazione dei clienti-consumatori, cosa nota e praticata da tempo nel marketing e non solo nel mercato digitale. E se agli inizi – secondo Berners-Lee – nel web “non c’è qualcosa di superiore al resto”, cioè vi sarebbe massima uguaglianza e massima assenza di gerarchie, oggi invece ve ne sono e sono sempre più grandi, smentendo appunto le retoriche di Berners-Lee e di molti altri che hanno dimenticato e sempre dimenticano che la ‘concentrazione’ è nell’essenza non solo del capitalismo (ne parlava già Marx; e Hindman ci ricorda che oggi, grazie ai dispositivi mobili, Google e Facebook hanno il 75% della pubblicità digitale), ma (aggiungiamo) della stessa tecnica come apparato, come ben evidente nella logica della ‘fabbrica integrata’. Eppure, ancora molti, scrive Hindman, come Vladimir ed Estragon in ‘Aspettando Godot’ di Beckett, “continuano a sperare che arrivi la rete internet che speravano”, incapaci di guardare la realtà e provare a modificarla.
‘Economia dell’attenzione’, che però è sempre economia capitalistica e consumistica; ovvero, come riconosce anche Hindman – ma senza approfondire, come dovrebbe e potrebbe – “l’economia digitale non è poi così diversa dall’economia analogica”. E ‘accumulare’ un pubblico online e soprattutto tenerlo e fidelizzarlo, “è come pompare aria in un palloncino con però una piccola perdita”, bisogna quindi continuare a pompare, cioè attrarre pubblico “per mantenere un livello costante di investimento”. Analogamente nel mondo dell’informazione, dove (anche qui!) molti speravano “che il web avrebbe reso le notizie e il dibattito politico meno centralizzati…Il numero delle fonti sarà oggi anche aumentato, ma la sfera pubblica rimane altamente concentrata. L’economia dell’attenzione ha ucciso la maggior parte delle nostre speranze civiche per il web”. E ovunque gli ‘experience goods’ – ciò che genera una esperienza piacevole e produce/attiva nel consumatore (appositamente ‘addestrato’ dal marketing) una familiarità con il brand – “tendono a produrre spiccati effetti di inerzia, in cui i consumatori sviluppano una forte fedeltà al marchio”, senza dimenticare l’azione ‘formativa’ dell’abitudine e della routine.
Regolamentare o uscire dal tecno-capitalismo?
E allora come risolvere il conflitto tra tecnica e democrazia/libertà? Sempre Hindman ci ricorda che “se anche potessimo riportare la rete alla sua architettura originaria, questo non basterebbe per eliminare la concentrazione del potere in pochi grandi e sempre più grandi siti”. Per garantire una rete davvero ‘aperta’, serve altro. Ad esempio: “applicare in modo aggressivo le leggi antitrust esistenti”. Ma è sufficiente? No; e semmai diventa ancora più difficile se è vera la tesi di Hindman secondo cui cercare di limitare la sorveglianza e il Big Data andrebbe a collidere con l’imperativo della crescita delle imprese del web; impedendo la sorveglianza/profilazione/spionaggio – scrive Hindman – si limiterebbe e rallenterebbe la crescita delle imprese: “Una crescita più lenta in una rete evolutiva è semplicemente un suicidio al rallentatore. Ai difensori della privacy, la cui unica proposta è ‘non tracciateci’, sfugge il ruolo chiave della ‘stickiness’ e del pubblico accumulato”. Basta allora dire, come Hindman: “Una forte regolamentazione è l’unica via d’uscita”? Secondo noi, no. Al bivio tra democrazia-libertà e tecnica-impresa, dobbiamo scegliere la democrazia e la libertà (e la privacy, che ne è fondamento; senza privacy, niente libertà dell’individuo), impedendo ab initio ogni e qualsiasi forma di profilazione.
Che allora la soluzione – per salvare libertà individuale e democrazia – sia quella e solo quella di uscire da un tecno-capitalismo intrinsecamente e strutturalmente antidemocratico e illiberale?
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Questo contributo, nel suo piccolo, è dedicato a Benedetto Vecchi – che ci ha lasciato lo scorso 6 gennaio. Intellettuale, giornalista del ‘manifesto’, amico. Attentissimo indagatore del mondo delle nuove tecnologie e dei loro effetti sociali. Ci lascia i suoi libri e i suoi articoli. Assolutamente da leggere e da rileggere.