La riflessione

Steve Jobs, il film: il messia della cultura digitale?

Abbiamo visto in anteprima JOBS, il film diretto da Joshua Michael Stern. Un’agiografia che esalta il carisma messianico del tecnocrate di Cupertino. Ma che il cambiamento individuale e sociale rappresentino l’inevitabile risultato dell’innovazione tecnica è un evidente paralogismo e un esempio paradigmatico di determinismo tecnologico. Una favola perniciosa che occulta deliberatamente i reali effetti, come la creazione di nuove disuguaglianze sociali, economiche e culturali

Pubblicato il 02 Set 2013

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La “cultura digitale” è, soprattutto, un culto pagano.

In tutto il mondo, milioni di adepti venerano la tecnologia. WIRED, il vangelo della Silicon Valley, i sermoni del TED e i tweet dei digerati neoliberali sono componenti essenziali dell’integralismo religioso high tech. Il feticismo narcistico per il gadget elettronico osannato nelle nuove cattedrali del consumo ha trovato in Apple il suo zenith e in Steve Jobs (1955-2011) il suo massimo profeta. Una nuova agiografia cinematografica, JOBS, arriva oggi nelle sale americane dopo il debutto al festival di Sundance nel gennaio 2013. In centoventidue minuti, Joshua Michael Stern narra l’ascesa del messia di Cupertino.

JOBS si apre in media res: nell’ottobre del 2001, Steve Jobs (Ashton Kutcher) pontifica nel quartier generale californiano. Il santone promette una rivoluzione nell’ambito della musica portatile. Prima ancora di mostrare il miracoloso feticcio creato dal suo team di discepoli, i fedeli estasiati esplodono in un applauso interminabile, travolgente, isterico. Il primo di una lunga serie. In JOBS, gli applausi svolgono la medesima funzione del laugh-track, le risate pre-registrate delle sit-com: il pubblico ride – o, in questo caso, applaude – in nostra vece.

Basato su una sceneggiatura del marketing executive Matt Whiteley, il film si concentra sul trentennio compreso tra il 1974 e il 2001. JOBS segue la mitologia istituzionale, ripercorrendo luoghi, personaggi ed episodi entrati nell’immaginario collettivo. Dalla mitopoiesi – il garage di Los Altos, oggi meta di pellegrinaggi geek – al “tradimento” di Giuda-Sculley (Matthew Modine), dallo stupefacente esilio indiano alla resurrezione del “brand” nel 1997 dopo un lungo calvario. Il climax coincide con il summenzionato lancio dell’iPod. Non sono citate, neppure en passant, le invenzioni di Xerox PARC “prese a prestito” da Jobs, una su tutte, l’interfaccia grafica. La mitologia Apple è incompatibile con l’accuratezza storiografica. La storia è scritta dai vincitori. Il catechismo non ammette obiezioni.

Racconto esplicitamente autocelebrativo, JOBS consacra l’immagine del guru attraverso escamotage stilistici come il ricorso a filtri morbidi, specie nella prima parte del film. Il modello di riferimento è la celebre “discesa in campo” catodica di Silvio Berlusconi nel 1994, con i collant sopra la telecamera per “scaldare” l’immagine. In questo senso, l’accorato “bentornato” di Jonathan Ive (Giles Matthey) al figliol prodigo Jobs ricorda le cose migliori di Emilio Fede.

Come il superuomo nietzscheano, Jobs si colloca al di sopra del bene e del male. Troppo cool per rispettare le regole, Jobs parcheggia la sua auto nei posti per disabili, licenzia d’amblée chiunque osi mettere in discussione il suo dogma, sfrutta gli amici più intimi, come Steve Wozniak (Josh Gad) e il compagno di viaggi Daniel Kottke (Lucas Haas), manifesta un patologico risentimento nei confronti dell’ex fidanzata Chris-Ann Brennan (Ahna O’Reilly) e, in generale, delle donne, presenza marginale, se non irrilevante, in una storia impregnata del medesimo omoerotismo delle narrazioni belliche o sportive. Nel mondo creato dal “visionario”, i personaggi femminili rappresentano una distrazione, un fardello, un onere. Una marginalizzazione che riflette l’analoga esclusione delle donne dai ruoli che contano nella Silicon Valley. La nuova società digitale conferma le medesime aberrazioni di quelle “reali”.

La canonizzazione del nostro è narrata attraverso una serie di episodi che elevano ogni gesto di Jobs-Kutcher allo statuto di miracolo. Il neo-messia produce performance straordinarie, convertendo le masse al credo della macchina. Jobs-Kutcher vede e provvede. Osteggiato da legioni di filistei – gli scettici e i conservatori, incapaci di comprendere la portata del suo genio – Jobs-Kutcher non conosce il significato del termine “dubbio”. Mancano, in altre parole, momenti alla Eloi, Eloi, lema sabactàni? Jobs-Kutcher èinfallibile. Fallimenti storici – per esempio, il lancio del computer Lisa – sono attribuiti alla miopia dei suoi collaboratori. Jobs-Kutcher è onnipresente: la sua presenza schermica rasenta la totalità delle scene. Jobs-Kutcher c’è, anche quando non appare. I suoi discorsi sono spesso accompagnati da una turgida moviola, la marca di stile che eleva il marketing a filosofia pop.

Il culto dell’individuo e il culto della tecnologia convergono nella persona di Jobs, modello paradigmatico del tecnocrate. Il verbo del profeta a piedi scalzi si fonda su una premessa/promessa tanto semplice quanto fallace: l’idea che la tecnologia – nello specifico, la tecnologia Apple – reinventa l’individuo. I prodotti Apple attualizzano il potenziale creativo degli esseri umani, realizzandoli in senso esistenziale.

Che il cambiamento individuale e sociale rappresentino l’inevitabile risultato dell’innovazione tecnica è un evidente paralogismo e un esempio paradigmatico di determinismo tecnologico. Una favola perniciosa, infarcita di infografiche, che occulta deliberatamente i reali effetti, come la creazione di nuove disuguaglianze sociali, economiche e culturali. L’idea che sessismo, razzismo, povertà, ignoranza e corruzione siano istanze essenzialmente tecniche, risolvibili con un’app, è una delle innumerevoli menzogne dei digerati. I new media, specie quelli digitali, hanno semmai segnato profonde fratture, rotture, interruzioni spesso tutt’altro che positive. I danni prodotti da questa cultura dirompente –disruptive, come amano ripetere i VC e i media guru – sono placidamente ignorati dalle narrazioni dominanti. Il biopic pseudo-televisivo di Stern non fa eccezione: le aporie del Job-pensiero vengono deliberatemente ignorate. Non c’è spazio per le contraddizioni in un contesto ideologico neoliberale che incensa il self-made man e la logica meritocratica del sogno americano. La trascendenza dell’inorganico è un mito.

A questo proposito, consiglio caldamente la lettura del nuovo saggio di Brett T. Robinson, professore di Marketing presso l’Università di Notre Dame, Appletopia. Media Technology and the Religious Imagination of Steve Jobs. Robinson illustra le tecniche usate dal martire di Cupertino per fondare un culto post-moderno in grado di riconciliare il buddismo Zen con il tardo capitalismo, il cristianesimo con la Californian Ideology, la filosofia gnostica con il marketing avanzato: “Nella tecnologia, come nella religione, fisica e metafisica confluiscono” (4), scrive Robinson. Da parte sua, “la comunicazione religiosa utilizza un linguaggio metaforico in quanto allude a realtà che non possono essere afferrate in modo diretto” (7). Tutt’altro che sorprendentemente, il linguaggio promozionale usato da Apple applica si ispira esplicitamente alla retorica del sacro. Dagli spot televisivi ai manifesti paretali, dagli interventi del Santone ai “reportage” di testate in cui la tradizionale separazione tra promozione e informazione è venuta meno. Il modello giornalistico della Silicon Valley, esportato con successo anche in Italia.

L’iconografia di Apple, la pubblicità, e le schermate dei dispositivi del Macintosh, iPod, iPhone e iPad sono espressioni visive di Jobs e rappresentano un fantasioso connubio tra la scienza spirituale e la tecnologia moderna. Gli spot tecnologici offrono parabole e proverbi per navigare le complessità del nuovo ordine tecnologico. Indicano al consumatore come comportarsi per conseguire “la felicità” nell’era tecnologica. Come tutte le pubblicità, gli annunci di Apple svolgono una fondamentale funzione didattica nella società dei consumi. Gli annunci hanno una natura allegorica, esercizi di retorica che consistono nel rendere familiari concetti e nozioni astratti o estranei, rendendoli accessibili e attraenti a un pubblico di massa […] La tecnologia dei media ha acquisito uno statuto morale perché è diventata parte integrante dell’ordine naturale delle cose. I luddisti, coloro che hanno giurato di rinunciare nuove tecnologie, sono considerati eretici e analfabeti. La tecnologia rappresenta un valore assoluto. Non è possibile fare passi indietro o immaginare un ordine sociale differente. La sfida è lecita solo nella misura in cui rimane all’interno di una cornice essenzialmente tecnologica. Apple può sfidare Microsoft. Samsung può sfidare Apple. Ma l’ordine delle cose non può essere messo in discussione. L’impatto della cultura digitale è epistemico, ma impone un sistema morale basato su una propria logica interna. (Robinson, 141)

Lungi dal mettere in discussione tale logica, l’evangelista Stern la presenta come benchmark etico. JOBSesalta l’avvento di una religione globale che venera i valori del tecno-capitalismo sopra tutto e sopra tutti: produttività, efficienza e consumo cospicuo. I mass media hanno bevuto il kool-aid. Il colpo da maestro di Jobs consiste nell’aver rivenduto al consumatore occidentale un guazzabuglio di idee, massime buddiste e slogan di varia provenienza per vendere macchine:

Per molti, Steve Jobs è una figura originale, ma coloro che lo hanno studiato più da vicino riconoscono che si tratta del classico imitatore. Jobs amava ripetere la celebre affermazione di Picasso per cui i buoni artisti prendono in prestito mentre i grandi artisti rubano. Jobs è stato un grande artista. Ha saccheggiato tutto, dal buddismo al Bauhaus. Il genio Jobs non risiede nel suo talento di ingegnere, ma in qualcosa di molto più radicale. L’uomo del Rinascimento di Los Altos ha trovato un modo per imitare Dio donando un’anima a uno sterile ammasso di circuiti integrati. (Robinson, 153)

Erroneamente paragonata al perfezionismo degli artisti e degli artigiani, l’ossessione patologica dell’inventore-imprenditore per la merce (in originale, “great products”, ripetuto ossessivamente, come un mantra), si fonda su un principio tanto semplice quanto spietato: la mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza, come conferma la celebre campagna pubblicitaria “Think Different” (TBWA\Chiat\Day, 1997), che co-opta e nel contempo svuota di qualsiasi significato valori come libertà, uguaglianza e democrazia per vendere il brand Apple. Jobs si appropria dell’immagine e del pensiero di Martin Luther King, Albert Einstein, John Lennon e il Dalai Lama per smerciare sogni di silicio e di plastica alle masse devote. “Think Different” – l’apoteosi patemica del film – rappresenta la massima espressione di una retorica pubblicitaria che subordina l’umano al feticcio, reificandolo. Non stupisce che “Pensa differente” sia venerata dai “creativi” di ogni agenzia.

Questa ideologia disumanizzante è ribadita dall’ultima campagna pubblicitaria, Designed by Apple in California, che celebra, senza alcuna remora, il solipsismo tecnologico, a conferma che l’ethos di Jobs persiste anche dopo il suo trapasso. Nello spot, l’interazione sociale è (implicitamente) svalutata, rimpiazzata da un’esplicita venerazione per il gadget adornato con il logo del “frutto proibito”. Nel mondo creato ad immagine e somiglianza di Apple, la massima aspirazione di un individuo consiste nell’interagire con uno smartphone, un tablet, un laptop – con una macchina. ”Intimità” vuol dire nel carezzare uno schermo, ignorando le persone che ci stanno attorno. “Saggezza” è un abbandono estatico alla solitudine tecnologica. “La storia di Apple proposta da Jobs è mitica nella misura in cui presenta la tecnologia non come un fattore disumanizzante, bensì come un agente di liberazione, elemento naturale” (13, enfasi aggiunta).

Aggiunge Robinson:

Marshall McLuhan direbbe che queste estensioni tecnologiche ci narcotizzano dato che espandono le nostre abilità e simultaneamente le atrofizzano. Così come l’automobile paralizza le azioni delle gambe trasportando il corpo umano da un luogo all’altro senza alcuno sforzo, allo stesso modo, il computer esternalizza la memoria, l’immaginazione e la comunicazione. (Robinson, 34)

Un esempio classico è l’iPod:

Per molti utenti, lo strumento ha acquisito valori sacrali. L’iPod è stato definito un “oggetto di devozione” capace di ispirare un “culto”. […] Gli utenti hanno descritto l’esperienza trascendente di un apparecchio che consente loro di essere fisicamente presenti, ma mentalmente altrove […] Il carattere religioso dell’iPod deriva in parte dalla qualità elusiva della sinestesia musicale, del piacere estetico prodotto dall’unione tra sensi e intelletto, che, non a caso, svolge un ruolo essenziale nel contesto liturgico [… ] I manifesti pubblicitari dell’iPod possono essere interpretati come icone tecno-religiose.(Robison, 111-113)

E poi:

Jobs e Apple rappresentano un’ulteriore conferma che le trasformazioni sociali della religione che si verificano nel corso della storia sono spesso accompagnate da trasformazioni tecniche. La tecnologia digitale ci rende onniscienti, onnipresenti e onnipotenti. (Robinson, 151)

Un messaggio ancora più destabilizzante di quello promosso da Mark Zuckerberg, il cui verbo (“le tecnologie uniscono gli individui”), è stato brillantemente smascherato da Aaron Sorkin e David Fincher inThe Social Network (Sorkin, com’è noto, ha sceneggiato un’altra pellicola basata su Steve Jobs, di prossima uscita). Scrive Robinson:

La tecnologia mediale presenta innesca un paradosso: l’assenza della presenza. L’era dei media elettrici è l’era dell’uomo disincarnato – le persone comunicano senza corpi. Dalla voce scorporata del telefono al messaggio senza volto dell’email, la comunicazione elettronica rimpiazza la presenza umana con la pretesa dell’efficienza. Per convincere le masse ad accettare una simile logica, era indipensabile un visionario come Jobs, un personaggio dotato di una sensibilità tecnica e umanistica. Una persona in grado di assicurare ai fedeli tecnologici che questo drastico cambiamento nei rapporti umani rappresenta un passo in avanti. (Robinson, 140)

Nel mondo creato da Apple, la smaterializzazione dei corpi e la svalutazione dell’umano non sono metaforiche, ma letterali. JOBS, in inglese, significa “occupazioni”, “posti di lavoro”. Il titolo del film di Stern è involontariamente ironico per un’azienda che ha sistematicamente eliminato migliaia di “jobs” statunitensi, ovvero la forza lavoro locale (“These jobs aren’t coming back,” aveva dichiarato il guru a Barack Obama qualche anno fa) perseguendo la logica dell’outsourcing selvaggio e del sistematico sfruttamento di lavoratori cinesi. Il film non mostra la progressiva chiusura di tutti gli stabilimenti Apple negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta. Meri dettagli.

JOBS, il lungo spot pubblicitario di Stern, arriva nelle sale giusto in tempo per la prossima infornata di gadget “Designed by Apple in California”. I credenti sono già in coda per ricevere l’eucaristia digitale.

AMEN.

Testi citati

JOBS, diretto da Joshua Michael Stern, 2012, 122 minuti

Appletopia. Media Technology and the Religious Imagination of Steve Jobs di Brett T. Robinson, Baylor Academic Press, 2013, 160 pagine.

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