L’ecosistema di Apple Inc., già oggetto di numerosi reclami sostenuti da sviluppatori software indipendenti – a partire dagli Stati Uniti con Epic Games, a Spotify nell’Unione Europea fino alla Russia con la denuncia (e conseguente condanna da parte della Russian Federal Anti-monopoly Service-FAS) presentata da Kaspersky Lab – è uno dei punti centrali del corposo Report condotto dalla Sottocommissione della magistratura della Camera degli Stati Uniti sulle quattro big tech.
Agendadigitale.eu ha già analizzato le principali accuse su Amazon, Apple, Google e Facebook presenti nel report, ma Apple merita ora un focus particolare. Quest’azienda solo negli ultimi mesi, del resto, è finita sotto i riflettori delle autorità; forse perché la sua supremazia oligopolistica è emersa più di recente (con gli iPhone), quando Google e Amazon erano già leader indiscussi nei rispettivi ambiti; e non ha subito i grandi scandali privacy e politici di Facebook (dalle elezioni di Donald Trump in poi). Anzi, c’è stato un periodo in cui si è presentata come una good company, “perché non usiamo i tuoi dati”, rispetto al rivale Google.
Ma nel rapporto ce n’è anche per Apple.
Ricordiamo che questo report, dopo 16 mesi, ha inteso rendere il conto sulle pratiche competitive attuate da Apple, Amazon, Facebook e Google. Oltre un milione tra documenti e interviste esaminate e valutate, tra cui l’ audizione tenutasi a luglio con gli amministratori delegati Jeff Bezos, Tim Cook, Sundar Pichai e Mark Zuckerberg.
I riflettori su Apple: le accuse
“Apple”, afferma l’atto d’accusa della Sottocomissione, esercita un autentico “potere di monopolio” sulla distribuzione del software tramite i suoi device iPhone, Mac, e Ipad.
L’ampia quota di entrate dell’ecosistema Apple in termini di transazioni in app, effetti di blocco e influenze comportamentali delle scelte e delle funzionalità a disposizione dei consumatori, conferisce al produttore di iPhone e alla sua piattaforma App Store un potere di mercato talmente ampio da prestarsi facilmente ad abusi rilevanti in materia antitrust. Oltre che condizionare pesantemente il libero gioco della concorenza a fronte di indebiti vantaggi economici, tra cui l’imposizione di un’imposta, senza uguali, dal 15% al 30% sulle commissioni di vendita delle app di terze parti e il favor riservato invece alle applicazioni native su IOS rispetto a quelle dei rivali esclusi dallo Store (molti ricorderanno la vicenda legata a Basecamp e alla sua nuova app di posta elettronica Hey rifiutata dall’App Store di Apple).
Per la Sottocommissione, Apple sfrutta chiaramente l’App Store per ottenere guadagni da “rendite monopolistiche”.
E dunque queste le specifiche critiche avanzate:
- I costi di commutazione elevati. “Il potere di mercato di Apple è durevole grazie agli elevati costi di commutazione, al blocco dell’ecosistema e alla fedeltà al marchio”, afferma il rapporto. ″È improbabile che ci sarà un ingresso di mercato di successo per contestare il dominio di iOS e Android”.
- Il ruolo di “gateway” e il potere di esclusione dei rivali dall’App Store. Apple applica una stretta mortale in qualità di “depositario” di ciò che può essere installato o meno sui suoi telefoni. Le regole introdotte nell’App Store intenzionalmente limiterebbero la scelta e ostacolerebbero l’innovazione a spese dell’esperienza utente, consentendo ad Apple di agire di fatto sia da operatore che da arbitro a scapito degli altri sviluppatori di app.
- I profitti sovra-normali e la tassa esorbitante fino al 30% applicata sugli acquisti in-app effettuati su un iPhone. “Il potere monopolistico di Apple sulla distribuzione delle app sugli iPhone consente all’App Store di generare profitti straordinari. Questi profitti derivano dall’estrazione di rendite dagli sviluppatori, che trasferiscono aumenti di prezzo ai consumatori o riducono gli investimenti in nuovi servizi innovativi”
- Le ricorrenti pratiche di Sherlocking. Un questo termine coniato appositamente per Apple e riconducibile in origine alla sua funzione di ricerca incorporata originariamente chiamata Sherlock, dal nome del detective immaginario. Quando Karelia Software poco tempo dopo sviluppò un’interfaccia di ricerca nativa per Mac alternativa chiamata Watson, Apple attratta dalle nuove funzionalità della stessa, rilasciò Mac OS X 10.2 con Sherlock 3. Una versione “dupe” di Watson che ne sancì definitivamente la scomparsa. Da qui Sherlocking: offrire funzionalità che rendono superflua l’installazione di strumenti di terze parti.
Apple vs Epic
Tutte pratiche anticoncorrenziali che, già al centro di numerose controversie di cui famosa è quella con Epic Games – creatore del popolarissimo gioco battle royale “Fortnite” – non solo hanno aumentato i prezzi delle app per smartphone ma, per molti versi, anche contribuito a frenare l’innovazione, ostacolando l’emergere di piattaforme future concorrenti.
Non a caso proprio Epic, insieme a Basecamp, Blix, Blockchain.com, Deezer, European Publishers Council, Match Group, News Media Europe, Prepear, Protonmail, SkyDemon, Spotify e Tile, hanno costituito una Coalition for App Fairness – CAF, un’organizzazione senza scopo di lucro indipendente per promuovere la concorrenza e proteggere l’innovazione sulle piattaforme digitali.
“Apple sta mostrando il suo enorme potere per imporre restrizioni irragionevoli e mantenere illegalmente il suo monopolio al 100% sul mercato dell’elaborazione dei pagamenti in-app iOS”, ha affermato Epic nella causa in corso contro Apple.
Una controversia complessa che comunque sembrerebbe aver visto convergere entrambe le parti nella dichiarazione congiunta presenta al giudice distrettuale degli Stati Uniti, Yvonne Gonzalez Rogers, di Oakland, in California affinché il caso possa essere trattato da un solo giudice anziché rimesso al verdetto di una giuria (il giudizio di una giuria molto più difficilmente rispetto a quello di un giudice singolo potrebbe essere rivisto in fase di appello).
È fissato per il 3 maggio 2021 il bench trial tra le parti. E certo la posta in gioco è molto alta per entrambi i contendenti.
Nel frattempo Epic si è dilettata in una parodia del suo avversario che i fan di Fortnite non potranno non apprezzare.
Ma non è tutto per Apple.
Apple e la pratica delle “acquisizioni killer”
La stessa è stata altresì accusata dalla Sottocommissione di assorbire società più piccole al fine di creare app e servizi di supporto e in abbonamento, che le avrebbero assicurato ancora più potere di mercato.
Il Report cita come esempi Texture, il servizio di abbonamento ai magazine digitali di Next Issue Media LLC, che offre agli utenti accesso illimitato alle loro riviste preferite tramite un unico abbonamento mensile e Beats, la società che produce cuffie per ascoltare musica ma che soprattutto gestisce un servizio per ascoltare canzoni in streaming.
“Di conseguenza, la posizione di Apple come unico app store su dispositivi iOS è inattaccabile. Apple controlla completamente come il software può essere installato sui dispositivi iOS e il CEO Tim Cook ha spiegato che la società non ha in programma di consentire un app store alternativo. Il primo Il direttore del team di revisione delle app per l’App Store ha osservato che Apple “non è soggetta a vincoli competitivi significativi da canali di distribuzione alternativi” rileva l’analisi della Sottocommissione.
Le raccomandazioni dei commissari
Tredici, tra proposte e raccomandazioni, che hanno potuto beneficiare anche dei contributi esterni delle autorità antitrust e altri esperti internazionali di spicco, tra cui Margrethe Vestager e Rod Sims, presidente della Australian Competition and Consumer Commission.
Dalla riformulazione della legislazione antitrust al breakup dei colossi tecnologici, dal divieto della cosiddette killer acquisition regolamentate ai sensi della legge Hart-Scott-Rodino (HSR) ai maggiori poteri da affidare alle authority federali FTC e Divisione Antitrust del Dipartimento di Giustizia in modo specifico – “per meglio combattere abusi e ovviare a decenni di “fallimenti istituzionali” quando di tratta di antitrust tech”, dai divieti per alcune piattaforme dominanti circa l’operatività in linee di attività adiacenti ai requisiti di interoperabilità e portabilità dei dati, dall’imposizione di requisiti di non discriminazione all’adozione di separazioni strutturali.
La visione dei democratici e del repubblicani prossimi alle presidenziali
Un piano tanto ambizioso quanto audace, portato avanti convintamente dai democratici capitanati dai deputati Jerrold Nadler e David Cicilline, sostenitori di Joe Biden, prossimo alle elezioni per la Casa Bianca, ma meno energicamente dai repubblicani che hanno contestato le proposte più audaci del Report espressione dell’approccio Glass-Steagall: il riferimento è alla riforma adottata durante la Grande Depressione – la legge bancaria del 1933 – che istituì la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) negli Stati Uniti e in più introdusse la netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Le due attività non potevano essere esercitate dallo stesso intermediario.
Il partito della destra conservatrice del comitato giudiziario della Camera, infatti – pur condividendo le misure di incremento dei budget e delle capacità di intervento delle authority antitrust, considerate decisamente inadeguate a fronte della enorme crescita dei protagonisti – guidato dal rappresentante del Colorado Ken Buck e dall’ex membro della magistratura Doug Collins della Georgia, ha rilasciato delle dichiarazioni di minoranza separate in risposta a quelle dei democratici.
“Sono d’accordo con circa 330 pagine del rapporto della maggioranza, che queste società tecnologiche hanno agito in modo anti-competitivo”, ha detto Ken Buck “È molto comune per repubblicani e democratici concordare un problema e offrire soluzioni diverse per risolvere un problema”.
Va da sé che per chiunque vinca la corsa presidenziale, l’universo Big Tech e i suoi squilibri in termini di monopolio e abuso di potere continueranno ad essere un obiettivo cruciale tanto per i repubblicani di Donald Trump quanto per i democratici di Joe Biden. Ma certamente qualora quest’ultimo dovesse rivelarsi vincitore alla Casa Bianca a novembre, la linea d’azione sancita nel rapporto della Camera dovrebbe segnare la direzione della risposta allo strapotere dei Big del digitale.
David Cicilline ne è certo: il rapporto è “solo l’inizio”. “Ora dobbiamo iniziare il difficile lavoro di attuazione delle raccomandazioni”, ha esordito durante una Conferenza. “Penso che vedrete alcune leggi introdotte negli ultimi giorni di questo Congresso”.
E a chi “accusa” Joe Biden di criticare il potere dei monopoli digitali per poi “accogliere” nel suo staff e nei gruppi politici le stesse persone che hanno lavorato con i giganti della Silicon Valley (tra questi ci sono il Anant Raut, e Matt Perault, rispettivamente direttore della politica di concorrenza globale di Facebook e direttore delle politiche pubbliche), temendo il ritorno all’atteggiamento del laissez faire e amichevole dell’era Obama, risponde Matt Hill, un portavoce della campagna del vice-Presidente: “Molti giganti della tecnologia e i loro dirigenti non solo hanno abusato del loro potere, ma hanno ingannato il popolo americano, danneggiato la nostra democrazia ed eluso qualsiasi forma di responsabilità”. “Chiunque pensi che i volontari o i consulenti della campagna cambieranno l’impegno fondamentale di Joe Biden per fermare l’abuso di potere e farsi avanti per la classe media non conosce Joe Biden”.
A questo replica Samantha Zager, vicesegretario stampa nazionale per la campagna di rielezione di Trump, che tuona: “le Big Tech hanno dimostrato più volte la volontà di censurare i conservatori chiudendo un occhio sui democratici”. “Non è un segreto che Joe Biden e Kamala Harris abbiano le Big Tech nelle loro tasche”, riferisce Zager a The Epoch Times il 17 settembre.
“Attraverso le piattaforme dei social media, le regole arbitrarie create da queste aziende non si applicano allo stesso modo a tutti gli account e vengono invece utilizzate per mettere a tacere qualsiasi punto di vista in opposizione a quelli delle élite costiere liberali nella Silicon Valley”, ha aggiunto.
La scheda: il Report di House Democrats
Nate come “startup scrappy”, Apple come Amazon Google Facebook si sono trasformate in monopoli che devono essere limitati e regolamentati.
“Così come esistono oggi, Apple, Amazon, Google e Facebook possiedono ciascuna un significativo potere di mercato su ampie aree della nostra economia. Negli ultimi anni, ciascuna azienda ha esteso e sfruttato il proprio potere sul mercato in modi anticoncorrenziali. La nostra indagine non lascia dubbi sul fatto che c’è una chiara e impellente necessità per il Congresso e per le agenzie antitrust di intraprendere azioni per il ripristino della concorrenza, il miglioramento dell’innovazione e la salvaguardia della nostra democrazia.”
Sotto la lente degli “inquisitori”, oltre all’App Store di Apple, anche il Marketplace di Amazon, Facebook e Google (nei confronti del quale il Dipartimento di Giustizia americano ha già avviato un’inchiesta accusandolo di aver abusato del suo monopolio nella ricerca online) e l’attuale stato di potere che gli stessi esercitano nel mercato digitale spesso con buona pace delle prerogative richieste dalla salvaguardia del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali come del principio della libera concorrenza.
Tanto, malgrado le strategie a contrasto attuate dal Congresso i cui sforzi si sono però, troppo spesso, rivelati deboli e irrimediabilmente esposti alla feroce pressione attuata dai “grandi del web”, sia che fossero seduti sul banco degli imputati o meno.
“Un modello allarmante di pratiche commerciali che degradano la concorrenza e soffocano l’innovazione”, tuona l’atto d’accusa, che rilancia: “adotteremo le misure necessarie per rendere responsabili i trasgressori”.
“Le quattro grandi aziende da coraggiose startup si sono ormai trasformate nel genere di monopoli che per l’ultima volta abbiamo visto nell’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie”. “Sebbene queste aziende abbiamo portato chiari benefici sociali, il loro dominio ha avuto un costo”.
Un prezzo che se da una parte ha consentito alle stesse di consolidare le proprie posizioni dominanti nel settore del commercio, della ricerca on line, della pubblicità, dell’informazione e dell’editoria, dall’altra li ha resi autentici gatekeeper in grado di porsi al di sopra della legge in nome del business.
E le conseguenti pressioni, in numerose occasioni hanno colto nel segno condizionando e vanificando l’operato delle Istituzioni americane e delle loro Autorità di sorveglianza e regolamentazione e che ora sembrerebbero aver risvegliato l’attenzione e l’impegno verso una road map legislativa tesa alla revisione in senso rafforzativo della normativa Antitrust idonea a ripristinare la concorrenza nell’economia digitale, bloccando le grandi fusioni, promuovendo lo spin off o la separazione di parti delle attività dei giganti del settore tecnologico (così come già proposto in passato dalla senatrice democratica Elizabeth Warren) ad oggi operanti sia come piattaforme digitali de-responsabilizzate, sia come venditori diretti di servizi.
La risposta a caldo di Apple e degli altri Big Tech
Se Amazon, in un post sul blog, risponde alle accuse di abuso di posizione dominante, ritenendo le conclusioni del rapporto “nozioni marginali” e “spitballing normativo”, foriere di “interventi sbagliati” dei legislatori e causa della sofferenza di molte società, su altri fronti, Facebook si ribella all’addebito di concorrenza sleale sancito dall’acquisto dell’app Instagram dichiarando che la sua strategia di acquisizioni mira a favorire la spinta verso “l’innovazione e le nuove tecnologie per offrire più valore alle persone” nel contesto di un “panorama fortemente competitivo”. Mentre Google, tacciato di porsi quale ecosistema di monopoli interconnessi sul mercato globale della pubblicità digitale da 162 miliardi di dollari, ribadisce di competere “in modo equo in un settore in rapida evoluzione e altamente competitivo” rimarcando il proprio disaccordo con le risultanze della Sottocommissione, che contengono a suo dire “accuse obsolete e imprecise di concorrenti commerciali sulla ricerca e altri servizi “.
Apple, dal canto suo, affida il suo riscontro a TechCrunch, al quale invia una dichiarazione tesa ad evidenziare il “veementemente” disaccordo con le raccomandazioni del Sottocomitato e rimarcare la sua capacità di esaminare le app e curare l’accesso degli utenti a software di terze parti come baluardi contro potenziali violazioni della privacy.
Ecco il resto della dichiarazione riportata da TechCrunch: “La nostra azienda non ha una quota di mercato dominante in nessuna categoria in cui operiamo. Dai suoi inizi 12 anni fa con solo 500 app, abbiamo creato l’App Store per essere un luogo sicuro e affidabile per gli utenti per scoprire e scaricare app e un modo di supporto per gli sviluppatori per creare e vendere app a livello globale. Ospitando quasi due milioni di app oggi, l’App Store ha mantenuto questa promessa e ha soddisfatto i più alti standard di privacy, sicurezza e qualità. L’App Store ha abilitato nuovi mercati, nuovi servizi e nuovi prodotti che erano inimmaginabili una dozzina di anni fa e gli sviluppatori sono stati i principali beneficiari di questo ecosistema. L’anno scorso, solo negli Stati Uniti, l’App Store ha facilitato il commercio di 138 miliardi di dollari con oltre l’85% di tale importo maturato esclusivamente per sviluppatori di terze parti. Le tariffe di commissione di Apple sono saldamente in linea con quelle addebitate da altri app store e marketplace di giochi. La concorrenza guida l’innovazione e l’innovazione ci ha sempre definito in Apple. Lavoriamo instancabilmente per fornire i migliori prodotti ai nostri clienti, mettendo al centro la sicurezza e la privacy, e continueremo a farlo.”
E Microsoft?
Perché Microsoft, una delle aziende più ricche e potenti del mondo del valore di 1.630 miliardi di dollari, pur essendo citato come precedente nel Report, è clamorosamente esonerato dalle indagini antitrust della Camera dei rappresentanti? Il colosso che è attualmente guidato dall’amministratore delegato Satya Nadella, sembrerebbe non rivestire in alcun mercato, neppure fronte cloud, una posizione tale da poter essere definita dominate. Un po’ come i giocatori di calcio durante una competizione, quando si dispongono in modo tale da evitare il “fuorigioco” ma rimangono in grado di accogliere l’assist e mandare a segno il tiro. Eppure, Office, in tutte le sue sfumature, Teams ad esempio, è una delle applicazioni più pervasive in tutte le organizzazioni pubbliche e private.
Bill Gates il suo fondatore, memore degli errori del passato, esprimendosi durante il GeekWire Summit, sull’indagine della Sottocommissione, avrebbe evidenziato come Facebook, Apple, Amazon e Google (e dunque Microsoft), essendo aziende diverse, richiedono indagini diverse, in grado di intercettare problematiche diverse e soluzioni specifiche.
“Ogni volta che diventi un’azienda di grande valore, influenzando il modo in cui le persone comunicano e persino il discorso politico viene mediato attraverso il tuo sistema e una percentuale più alta di commercio – attraverso il tuo sistema – ti aspetterai molta attenzione da parte del governo” sostiene Gates in un’intervista” Squawk Box.
Da qui il suo suggerimento per le Big tech: “Penso che l’errore principale che ho commesso, ovvero non rendermi conto di quanto sarebbe stato importante sviluppare relazioni a Washington, essere coinvolti lì – queste aziende non stanno facendo lo stesso errore che ho fatto io. Hanno molte persone”, ha detto Gates. “Jeff ha anche una bella casa a Washington, DC. Potrebbero anche commettere altri errori. Ma tutti hanno visto quello che ho fatto e ora lo sanno meglio”.
E quello per le Istituzioni: “Le conversazioni dovrebbero concentrarsi su come i consumatori possono trarre vantaggio dalla concorrenza e su come promuovere l’innovazione (…) concentrandosi un po’ meno sulla demonizzazione delle specifiche persone coinvolte. Ma forse è la mia opinione personale che gli altri non condividono”.
Una visione certamente aderente alle policy attualmente perseguite da Microsoft, condivise anche dalla Coalition for App Fairness, per il futuro degli app store: il vicepresidente Microsoft Rima Alaily in un post sul blog ne promuove chiaramente l’implementazione e chiaro emerge il riferimento allo store competitor Apple.
“Gli app store sono diventati un gateway critico e Microsoft sta lavorando per mettere in pratica ciò che predichiamo; quindi, oggi stiamo adottando 10 principi – basandoci sulle idee e sul lavoro della Coalition for App Fairness (CAF) – per promuovere la scelta, garantire l’equità e promuovere l’innovazione su Windows 10, la nostra piattaforma più popolare e il nostro Microsoft Store su Windows 10″.
Conclusioni
The Onion è un sito satirico statunitense che pubblica false notizie di scala internazionale, nazionale o locale. Il suo post è esilarante e coglie nel segno. La dimensione del potere si pone su un piano orizzontale. Poteri pubblici e poteri privati.
Il dibattito sulla necessaria regolamentazione specifica per le piattaforme digitali e per l’uso della rete richiama un termine emerso per la prima volta durante la conferenza sulla cyberlaw del 1996 presentata dal giudice Frank H. Easterbrook della Corte d’Appello degli Stati Uniti: Law of the Horse.
“…The best way to learn the law applicable to specialized endeavors is to study general rules. Lots of cases deal with sales of horses; others deal with people kicked by horses; still more deal with the licensing and racing of horses, or with the care veterinarians give to horses, or with prizes at horse shows. Any effort to collect these strands into a course on ‘The Law of the Horse’ is doomed to be shallow and to miss unifying principles”.
In altri termini, l’insorgere di un nuovo fenomeno economico non significa che questo si esplichi al di fuori dell’alveo del diritto positivo.
E dunque ben vengano i miglioramenti che cominciano dalla corretta interpretazione dell’esistente.
Le peculiarità e le problematiche insite nella data economy caratterizzata dalla valorizzazione dei dati e dai modelli di business necessariamente legati alla disponibilità degli stessi e alla loro analisi si lega a filo doppio al potere di mercato delle realtà tecnologiche dominanti e al corrispondente abuso delle rispettive posizioni come all’alterazione del libero gioco della concorrenza.
Per poter affrontare una tale complessità dal punto di vista regolatorio, in uno Stato di diritto, si potrebbe partire proprio da un input di natura etimologica orientato al pragmatismo: dal concetto di cibernetica, ovvero dalla tecnica e dall’arte di dirigere, di governare, una nave. E conseguentemente, come sostenuto da pregevoli costituzionalisti, orientare la costruzione della strategia regolamentare della revisione e dell’aggiornamento degli impianti normativi esistenti, compreso il diritto antitrust, partendo dall’efficace governo del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e tra questi certamente la libertà d’impresa, di espressione, di protezione dei propri dati.
Un percorso multilivello, nazionale, internazionale e auspicabilmente anche globale, che in Europa sembrerebbe poter prendere presto forma attraverso il Digital Services Act e la strategia volta a promuovere l’innovazione e la competitività dell’ambiente online europeo.
Ovunque, questo richiederà capacità di pensiero fluido e possibilità di interventi da parte delle varie Autorità preposte tempestivi e rapidi.
La dinamicità dei mercati in parola e le istanze della digital and data economy non consentono risposte tardive e neppure uno scarso grado di coordinazione tra Autorità a livello sovranazionale, poiché proprio l’evolversi delle relazioni, in uno spazio che non è fisico bensì digitale, rende inadeguata una visione non armonica delle condotte attuate in violazione delle norme poste a tutela della concorrenza sui mercati economici, della protezione dei dati e dei diritti e delle libertà fondamentali, e necessaria una sostanziale immanenza delle varie tutele giuridiche nell’era della rivoluzione tecnologica.
Il potere politico in tutto questo, negli Usa come in Europa e ovunque, riveste il ruolo più cruciale.
È certamente una questione di alta politica e quindi di persone il successo che certe scelte di natura regolamentare saranno di in grado di determinare rispetto alle evoluzioni sociali in corso e alla dimensione orizzontale dei poteri privati forti.