Da gattara non potevo lasciarmi scappare Stray, un indie molto speciale, tra il platform, l’avventura e il puzzle game, sviluppato da Blue Twelve Studio e pubblicato da Annapurna Interactive, editore già noto per titoli straordinari come Kentucky Route Zero, What Remains of Edith Finch o Outer Wilds.
Il gioco si finisce in meno di dieci ore e devo dire che la valutazione estremamente positiva degli utenti online per ogni aspetto del gioco (storia, game play, grafica, musiche e personaggi) è pienamente confermata anche dalla sottoscritta.
Stray: una bella storia e una grafica eccellente
Il contesto è post-apocalittico, sono rimasti solo robot e, oltre ai gatti, gli unici viventi sembrano essere degli orsetti d’acqua che impediscono l’uscita dalla città (in effetti chi oltre ai gatti e ai tardigradi potrebbe sopravvivere?). Insomma, nulla di nuovo fino a qui, tranne che il punto di vista questa volta è quello di un gatto. Capirete che da “cat mom” non avrei potuto attendere oltre: dovevo giocare e testare l’accuratezza della personalità del felino. A maggior ragione che la mia amica olandese, gattara quanto me e nerd, mi aveva mandato un messaggio in cui mi faceva sapere che aveva comprato il gioco (con biasimo) mi diceva, poi, che avrei dovuto spicciarmi a fare altrettanto, altrimenti lo spoiler sarebbe stato inevitabile.
Incomincio la partita e da subito apprezzo la prima scelta degli sviluppatori. Insomma, non poteva essere più appropriato il fatto che, per proseguire oltre, il gatto non dovesse “fare cose”, come esplorare o trovare meccanismi particolari, ma addormentarsi tra gli altri compagni della colonia, in quello che per ora sembra un contesto verdeggiante e salubre. Una volta svegli ci si muove tra tubi, cascate, saltando qui e là come in un platform. Attenzione, non aspettatevi una meccanica complessa come quella di un videogioco costruito intorno a questo unico scopo. L’obiettivo in questo caso è integrare una bella storia e una grafica eccellente con sfide che non siano esageratamente complicate. Anche i puzzle hanno il giusto grado di difficoltà per non costringere il gamer a convogliare tutta l’attenzione su queste challenge, alterando il bilanciamento complessivo dell’avventura. Spesso ci verrà chiesto di pensare altrimenti, senza mai trasformare il percorso in tappe costruite attorno a rompicapi tanto difficili da poterci bloccare.
Gli sviluppatori sanno bene di non essere una tripla A: il budget e le risorse tecniche sono da indie; perciò, la decisione di non proporre un open world e di non includere meccaniche che sarebbero risultate eccessive e forse piene di bug è apprezzabile. Si sono mantenuti in una sorta di comfort zone e il risultato finale è purrfetto: divertimento ed emozione garantiti.
La storia dopo pochi minuti prosegue nei bassifondi di una città di cui non si conosce il passato. Il gatto, difatti, dopo essere capitombolato giù nelle fogne, riemerge, zoppicante (lo ammetto, ho dovuto dare dei bacini consolatori alla zampa della mia Vaniglia), in un’ambientazione completamente diversa, scura e fluorescente, piena di tetti da scalare e robot sulle cui facce compaiono, a pixel, una serie di emoji, per dare quella vena di umanità e cartoon alle macchine, come l’ergonomia cognitiva suggerisce.
Si incontrano personaggi curiosi nel proprio cammino, tra cui un drone dotato di intelligenza artificiale e altri optional con cui fare squadra durante il viaggio. Il suo nome è B-12 e devo ammettere che capitolo dopo capitolo si finisce per affezionarcisi. La memoria del robottino è stata resettata, perciò tra gli obiettivi collaterali c’è anche quello di recuperare i ricordi perduti. Il drone ci seguirà da una cintura zainetto allacciata attorno alla pancia del micio. Ci aiuterà ad aprire porte, a tradurre i gorgoglii meccanici dei robot, a decifrare le scritte che riempiono gli anfratti di questa strana città.
Per dare l’idea di robotico e futuristico di solito vengono feticizzati elementi dell’estremo oriente e infatti anche in questo caso le scritte richiamano i disegni dell’alfabeto coreano hangul. Questo stratagemma permette di far calare immantinente il gamer nell’idea di cyberpunk costruita dalla cultura pop: novelle, film, videogiochi, anime. Pensateci, anche per rendere l’idea di Medioevo quasi mai viene utilizzata la storia, al contrario si pesca a piene mani dal concetto di Medioevo che è stato edificato durante i secoli successivi e soprattutto ultimamente con GDR e pellicole. A maggior ragione per descrivere un futuro tecnologico, dove non c’è modo di appellarsi alle fonti, l’unico modo è richiamarsi alle attese degli utenti: non sarebbe credibile un ambiente che sembrasse totalmente il nostro, non trovate?
Nulla è lasciato al caso
So che le scritte in simil-hangul di Stray sono state decifrate da Josh Wirtanen, quindi ottimo lavoro anche per la cura dei dettagli: nulla è lasciato al caso, perfino una stringa di simboli su un distributore random qui significa qualcosa.
Nei bassifondi troveremo robot che sferruzzano o annegati nell’alcol, robot guardiani in tenuta da monaco, con il kasa tradizionale giapponese. Troveremo un’azienda chiamata Neco, il cui suono si rifà chiaramente al nipponico Neko, gatto. Tra l’altro, qui e là nelle abitazioni in cui ci toccherà entrare e nelle botteghe da perlustrare troveremo tante statuette dorate di Maneki Neko: il gatto giapponese della fortuna intento a lavarsi dietro all’orecchio per attirare clienti (la tradizione popolare narra che quando un micio si passa la zampa in quel modo significa che fuori sta per piovere e allora le persone a spasso entreranno nei negozi per ripararsi e magari comprare qualcosa).
Tutto è perfettamente calibrato al fine di condurre il gamer verso un’esperienza di gioco carica di emozione, divertente, che farà diventare gattaro anche chi (azz!) non lo è ancora.
I ragazzi di Blue Twelve sono necessariamente cat people, altrimenti non si spiega una conoscenza così precisa (e amorevole) degli amici felini. Stray salta nelle scatole e nei secchi a mezz’aria, si arricciola intorno alle gambe dei robot, si fa le unghie su tappezzerie, tappeti, porte, ama buttare giù barattoli e oggetti, si accoccola per dormire su divanetti e cuscini e vibra di fusa. A volte farlo è solo un passatempo (si capisce perché il gatto si comporti così: anche noi, ammettiamolo, non abbiamo potuto fare a meno di fare dispetti senza finalità narrativa durante tutta l’avventura!), più spesso fa parte delle strategie del gioco ed è un modo per ottenere trofei. Ci sono “Il migliore amico del gatto” quando il gatto fa tanti “gobbolini” tra le gambe degli automi; “Giornata produttiva” se lasci dormire Stray per un’ora; “La curiosità uccise il gatto” se ti infili in una busta difficile da toglierti di dosso. Insomma, le chicche sono molte e se uno volesse platinare il gioco il divertimento sarebbe garantito.
L’obiettivo del gioco
Ad ogni modo l’obiettivo non è quello di proporre un walking simulator dentro una città buia, piuttosto la storia ci chiederà di aiutare un gruppo di robot che stanno provando a evadere dai bassifondi per raggiungere il fantomatico Oltre. C’è un gruppo, gli Oltraggiosi, che forse c’è riuscito. Questa sfida per il nostro amico rosso significherà tornare a casa, ricongiungendosi con gli altri fratelli.
Ci sarà da scappare dagli Zurk, specie di tardigradi capaci di appiccicarsi come sanguisughe e succhiare la vita di chi, troppo lento, non riesce a sfuggire dalla loro fame. Devo dire che durante il gioco più volte ho imprecato contro quelle bestiacce e i loro suoni e, finalmente, quando ho ricevuto lo strumento per farli esplodere per me è stato molto gratificante! Soprattutto, poi, dovremo confrontarci con le sentinelle e con strani droni che controlleranno maniacalmente i livelli superiori della città impedendo la fuga a chi ci stesse provando. Perfetta la scelta di usare un gatto per portare a termine questi obiettivi anti-sistema: non poteva che essere un felis catus l’anarchico difensore della libertà, colui che ama farsi beffe della sorveglianza, con i suoi gommini silenziosi e il disprezzo per ogni regola, domesticazione e logica da branco. Di nuovo sento che dietro agli sviluppatori ci sono autentici cat people!
Conclusioni
Insomma, il gioco è proprio bello da ogni punto di vista e sicuramente resterà un caposaldo intramontabile. Il finale mi ha lasciato un velo di tristezza, proprio perché nei vari capitoli è stato inevitabile affezionarsi ai personaggi, tutti caratterizzati in modo magistrale. Chiaramente avere oltre alla quarta parete dei gatti veri, che rispondevano ai vocalizzi del computer, è stato un valore aggiunto che mi ha garantito un’immedesimazione maggiore.
Stray ha saputo davvero toccare il cuore di tutti: molti fan hanno aiutato i rifugi felini con donazioni in denaro e Annapurna stessa ha contribuito a sostegno dei randagi. Questo ci aiuta di nuovo a capire che videogiocare non è una perdita di tempo diseducativa, una mera simulazione che finisce lì dove inizia, al contrario coinvolge la società su più livelli e seguendo modalità a volte impensabili.
Concludo l’articolo con il pulsante “B”, “Meow!”.