CULTURA DIGITALE

Sul lettino con i social: la pratica psicoanalitica nell’era digitale

La diffusione di dispositivi e piattaforme elettroniche impatta anche sul rapporto del paziente con il mondo della psicoanalisi. Non solo trasformando la scelta del professionista e il suo approccio. Ma anche disseminando il “setting” di nuovi segnali significativi. Vediamo perché

Pubblicato il 22 Ott 2020

Roberto Pozzetti

Psicoanalista, Professore a contratto LUDeS Campus Lugano, Professore a contratto Università dell'Insubria, autore del libro 'Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali', già referente per la provincia di Como dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia

intelligart

“Il medium è il messaggio”, scriveva Marshall McLuhan riferendosi al “villaggio globale” della comunicazione. Ma è vero ancora oggi?

Secondo McLuhan, nel mondo occidentale si presta erroneamente troppa attenzione al contenuto di un messaggio, a scapito dell’involucro formale attraverso il quale viene espresso. Questo pregiudizio della percezione che ci ossessiona nella ricerca del contenuto ci distoglie in modo ingannevole dalle forme e dai parametri dei mezzi di comunicazione. In effetti, invece, i nuovi media alterano radicalmente le nostre esperienze. Fra i nuovi media, notiamo oggi come i social network rivestono un ruolo saliente che condiziona con veemenza soprattutto le generazioni più giovani.

Analizziamo, allora, alla luce delle teorie del sociologo canadese, come il digitale stia trasformando anche un settore apparentemente “a parte”: la psicoanalisi.

Digital transformation e media

McLuhan dice sicuramente del vero con la propria definizione. Incontrovertibile appare l’influsso dei media e del propagarsi di mezzi di comunicazione e di scambio sempre nuovi sulle relazioni interpersonali umane. Da anni, in effetti, pullulano gli incontri affettivi ed erotici nel mondo del web. Già all’inizio del nuovo millennio, non era affatto raro utilizzare Internet non soltanto per motivi di lavoro o di studio, non soltanto per svariate ricerche ma anche per selezionare i contatti affettivi.

Dal mondo dei forum in rete a quello delle chat, dal confezionare dei blog personali all’appartenere a dei gruppi, a delle gilde volte a giocare online nelle varie consolle: tutti questi contesti della rete divenivano e divengono ancor più oggi occasione per mettersi in contatto, dialogare, instaurare amicizie, passare dalla relazione in rete a quella telefonica fino all’incontro dei corpi nelle più svariate occasioni.

La posizione passiva tipica degli spettatori della televisione diviene progressivamente desueta; oggi prevale l’azione interattiva, specifica delle tecnologie digitali. Gli amori sbocciano spesso su Tinder, su Grindr, su Gaydar, su Planet Romeo, su Ok Cupid o su Lovoo. Del resto, la connotazione di degradazione che veniva tempo addietro affibbiata ai siti di incontri, si viene affievolendo. Frequentano Tinder medici, professoresse di università, educatori. Una recente indagine relativa agli Stati Uniti, a cura dei sociologi Rosenfeld e Hausen, descriveva come il primo contatto sui siti di incontri caratterizzi il 39% delle coppie etero di recente formazione e il 60% di quelle gay.

Se il (giovane) paziente non è su Facebook

In effetti, in questi ultimi tempi, quando riceviamo un giovane paziente che non è posizionato su nessun social network, che non ha un profilo né su Instagram né su TikTok né su Snapchat, vi scorgiamo un dato clinico sorprendente, un elemento di inconsueta stranezza. Dunque, soprattutto se questo giovane paziente ha pochi contatti affettivi anche offline, siamo portati a ipotizzare l’assenza di una rete nel web come un indice del suo non potersi strutturalmente avvalere delle competenze relazionali che permettono di costruire un legame sociale e affettivo. Ben diverso è il cancellarsi da un social, anzitutto per sottrarsi allo sguardo di genitori o ex partner, restando presenti su altri social più riservati.

Secondo diversi studiosi siamo nell’epoca di una quarta rivoluzione della comunicazione, la rivoluzione digitale. Ci accorgiamo tutti della digitalizzazione del mondo. Evidentemente, l’influsso della digitalizzazione sulla pratica della psicoanalisi si staglia nitidamente soprattutto quando sono degli adolescenti o comunque dei giovani a venire in contatto con un analista. Essendo nativi digitali, presentano un’inclinazione verso tali dispositivi cui fanno spesso affidamento nelle loro giornate. Hanno dimestichezza con il web, sono avvezzi alla navigazione online.

Ormai da anni, non appena viene consigliato a qualcuno di venirci a parlare, secondo il meccanismo centrato sulla fiducia e ancora funzionante, denominato “passa parola”, questi si va a informare su di noi in rete. Vi era una linea tradizionale della psicoanalisi volta all’opacità della vita privata dell’analista per lasciar interrogare l’analizzante sul proprio desiderio, anche attraverso tutta una serie di fantasie che egli aveva modo di immaginare circa il supposto desiderio dell’Altro.

Attualmente i pazienti ci scelgono dopo aver visto le nostre foto su Google o sui social, vedendo i luoghi delle nostre vacanze, sapendo l’età approssimativa dei nostri figli, dopo aver letto stralci di nostri articoli su Internet. In effetti, considerando le debite proporzioni relative ai tempi moderni, quest’ultimo punto non sembra poi strutturalmente così diverso da ciò che orientò l’Uomo dei Topi verso Freud ovvero l’aver sfogliato il libro Psicopatologia della vita quotidiana trovandovi certi strani nessi verbali che gli avevano ricordato qualcosa di affine al proprio ossessivo lavorio mentale. Vi è, tuttavia, maggior visibilità e trasparenza quanto alla persona dell’analista.

Digitale e pratica della psicoanalisi

Consideriamo ora la tesi di McLuhan nella sua applicazione alla clinica psicoanalitica. Attenendoci al suo aforisma, se “il medium è il messaggio” dovremmo ipotizzare di ricevere delle domande di appuntamento da parte delle varie persone, caratterizzate in base al tipo di canale comunicativo utilizzato? Vi sarebbe, dunque, la giovane paziente del messaggio Instagram, il paziente del messaggio di posta elettronica e la paziente di mezz’età che ci contatta al telefono? Questa massima di McLuhan, se riportata alla psicoanalisi, attribuirebbe molta rilevanza al tipo di mezzo di comunicazione a scapito di quello che si dice in seduta.

Credo, al contrario, sia importante l’articolarsi del discorso, il dipanarsi della catena associativa nel corso degli appuntamenti, a cominciare dal primo colloquio. In effetti, non è impossibile che un iniziale contatto scritto sia meno coinvolgente a livello affettivo del prendere la parola nel corso di una telefonata, che riduca l’imbarazzo o l’inquietudine oppure ancora l’affetto d’angoscia. Talvolta denota una quota di incertezza e un non sentirsi ancora del tutto convinti di procedere verso l’atto dell’iniziare un cammino analitico. Molto semplicemente, però, diverse persone riferiscono di prediligere lo scritto per evitare di disturbare l’analista nello svolgimento delle sedute. Altri ancora, specialmente se in giovane età, hanno l’abitudine di contattare via chat sia i genitori sia gli amici sia i docenti e trovano spontaneo questo metodo di comunicazione pure nel contesto clinico.

Lacan, Winnicott e la tecnologia

Forse, nella prassi della psicoanalisi, la posizione di McLuhan va ridimensionata e relativizzata: non sempre il medium è il messaggio. Probabilmente, il medium non è tutto il messaggio.

Focalizzandoci sul mezzo di contatto utilizzato, ci occupiamo molto del setting, per dirla con Winnicott. Rischiamo di tralasciare il procedimento stesso, il contenuto di quello che si dice in seduta. Lacan pone la comunicazione al centro del suo insegnamento ma sovverte il modo in cui viene illusoriamente intesa. Il soggetto, anziché parlare sulla scorta delle proprie intenzioni, risulta sovvertito in quanto riceve il proprio messaggio dall’Altro in forma invertita. La struttura stessa del desiderio si centra sulla comunicazione, ma una comunicazione in cui l’Altro precede il soggetto, in cui l’Altro offre un senso al vagito del neonato, in cui la madre interpreta il bisogno del bambino con una dose di arbitrarietà.

La forma più evidente di quest’altra scena che si distingue dall’intenzione di dialogare sta nel lapsus in cui un dire imprevisto e a volte inedito irrompe nelle labbra di chi parla facendo affiorare un campo inaudito, non senza margini per ulteriori concatenazioni. Il soggetto riceve, dunque, il proprio messaggio dall’Altro, ovvero dal luogo del codice. Il messaggio ricevuto sarà allora sempre singolare anziché universale. Sarà diverso per ogni essere umano, indipendentemente dal tipo di medium utilizzato. L’intenzione di parlare oppure di scrivere a un analista, circa una qualsiasi tematica, si troverà non di rado sovvertita da un lapsus linguae oppure da un lapsus calami. Emergeranno dei sogni specifici per ciascun paziente, delle associazioni singolari, una storia irriducibile a quella di altri che pure scrivono attraverso lo stesso modulo di contatto.

Le 4 rivoluzioni della comunicazione

Una prima rivoluzione fu quella relativa all’introduzione della scrittura. Sul passaggio dall’oralità alla scrittura, oltre ai lavori di Ong, allievo e poi collaboratore di McLuhan, sottolineiamo come Derrida estrae dal Fedro di Platone la funzione della scrittura nelle specie di un farmaco, con le due note valenze di rimedio e veleno: ciò che rimane scritto è un farmaco per la memoria, un aiuto per la memoria. Quello che non riusciamo a ricordare, ce lo annotiamo, ce lo scriviamo, per averne traccia.

La seconda rivoluzione della comunicazione fu indotta dalla stampa, con l’invenzione della tipografia nel Quattrocento. McLuhan scrive, a questo proposito, appunto di effetto Gutenberg. La famiglia Gutenberg fu la prima, in Europa, a utilizzare la stampa a caratteri tipografici mobili che determinarono un incremento delle opportunità di diffusione dei libri e della carta stampata.

La terza rivoluzione venne offerta dagli strumenti elettrici di comunicazione: il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione. Tutti li abbiamo conosciuti e siamo cresciuti con la novità dell’avere nelle nostre case telefono e televisione, qualcosa che abbatteva le distanze. Ricordo a questo proposito nella mia infanzia lo stesso passaggio dalla televisione in bianco e nero, che emetteva trasmissioni soltanto nelle ore pomeridiane e serali e sulla Rai alla televisione a colori, diffusa da emittenti commerciali nel corso di tutte le ventiquattro ore.

Lacan svolse una conferenza sulla cibernetica, all’ospedale Sainte Anne di Parigi, negli anni Cinquanta, pubblicata nel suo seminario II. Vi fece riferimento all’invenzione della cibernetica, avvenuta nel decennio precedente, a opera del prodigioso genio Norbert Wiener, un matematico statunitense. La tesi di Lacan è che la psicoanalisi e la cibernetica sono entrambe situate sull’asse del linguaggio; la cibernetica si fonda sul codice binario che alterna 0 e 1: come la batteria dei significanti, già per il linguista Saussure, è fondata su una serie di opposizioni in una dimensione discreta anziché continua, anche il digitale funziona in una prospettiva discreta a differenza dell’analogico. In effetti, lo stesso termine digitale deriva dall’inglese digit che vuol dire cifra e proviene a sua volta dal latino digitus, dito. Si digita con il touch screen. Con le dita si contano i numeri, i numeri cardinali intesi in modo discreto. Infatti, in francese, digitale si dice numérique.

La quarta rivoluzione: il digitale

La quarta rivoluzione della comunicazione è quella indotta dal digitale. Interessante, a questo proposito, la posizione del filosofo francese Bernard Stiegler, purtroppo scomparso in estate; egli ricalca la linea di Derrida e del suo già citato modo di leggere la scrittura come farmaco, ovvero potenzialmente sia rimedio sia veleno. Il digitale stesso avrebbe entrambe le caratteristiche, rischiando di risultare un veleno ma possedendo le risorse per divenire un rimedio efficace.

Altri autori, come il sociologo Marco Gui, affermano non vi sia alcuna rivoluzione digitale e che i dispositivi inediti vengono proposte come novità soltanto per incuriosire e favorire le vendite, secondo una modalità tipica del capitalismo avanzato. E’ una posizione da prendere in considerazione ma che troviamo troppo estrema.

Svariati recenti studi di orientamento psicoanalitico focalizzano la propria lettura delle dinamiche attivate dalla diffusione dei dispositivi digitali intorno a due punti nodali, apparentemente diversi: il primo è il rapporto fra l’utente che si troverebbe nella posizione di soggetto e la rete che costituirebbe l’oggetto; il secondo concerne il narcisismo – termine peraltro spesso inflazionato – a loro avviso implicato nel selfie scattato dal proprio smartphone e nella ricerca dei “like” sui social network.

Il selfie, lo specchio di Narciso

Si vedano a questo proposito i recentissimi lavori di Ronco e Spaccarotella in Nello smartphone di Narciso (Mimesis, 2020), a cura di Angelo Pennella e Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro (Feltrinelli, 2020) di Giovanni Stanghellini. Si tratta, in effetti, di cogliere bene lo statuto di questo sguardo e di questo valore attribuito all’immagine differenziando una serie di caratteristiche del tanto diffuso termine narcisismo o narcisismo patologico oppure ancora del termine narcisismo perverso. Lo sguardo è esso stesso un oggetto, un oggetto pulsionale.

Abbiamo a che fare con oggetti di cui il soggetto si serve in modo analogo a quello che avviene con la fruizione dei vari beni di consumo il cui apice è costituito dall’oggetto feticcio oppure l’oggetto è davvero funzionale a rafforzare una propria identità immaginaria oppure ancora l’oggetto, in modo affine a quanto avviene con le droghe, ricade sull’io schiacciandolo e sovvertendo l’illusione di essere consumatori rendendo invece gli esseri umani essi stessi oggetti, oggetti consumati dalla rete nella quale si rimane imbrigliati, intrappolati in un’inquietante costrizione, in un’opprimente ragnatela da cui risulta arduo staccarsi?

Ronco e Spaccarotella pongono in risalto la dimensione dell’angoscia di separazione, attraverso una lettura accostabile alla psicologia dell’Io e soprattutto all’impostazione teorica di Margaret Mahler centrata sul processo di separazione-individuazione. Sarebbe difficile separarsi e, dunque, anche trovare una propria individuazione per gli adolescenti e i giovani perennemente connessi online ma, più estesamente, per tutti coloro che utilizzano molto il mondo del web per ragioni lavorativi ma anche per svago e divertimento.

Psicoanalisti alla sfida tech

Gli psicoanalisti si sono ormai accorti della quarta rivoluzione della comunicazione, della digitalizzazione del mondo e anche della loro pratica, in occasione della pandemia di coronavirus. Nessuno può fare del tutto a meno di modalità di contatto con i propri pazienti che risultavano inedite non più tardi di pochissimi anni or sono. Nei momenti drammatici dell’epidemia, quando eravamo timorosi per la sorte dei cari anziani, ci siamo trovati tutti a modificare in pochi giorni la nostra prassi compiendo un’accelerazione nell’utilizzo dei dispositivi digitali.

Essi sarebbero comunque entrati maggiormente nella nostra azione clinica ma, senza dubbio, più lentamente. Nei mesi della primavera 2020, i medici di base lavoravano con la telemedicina, gli psichiatri prescrivevano farmaci nel corso di videochiamate, gli psicoterapeuti svolgevano le loro sedute da remoto con adulti, con adolescenti e a volte con bambini.

In effetti, la telepsichiatria era già divenuta fondamentale pochi anni or sono, in occasione dell’emergenza umanitaria in Siria, quando milioni di siriani sono sfollati nei campi profughi della Turchia, della Giordania e del Libano. Di fronte alla loro sofferenza psichica e alla scarsità di personale formato sul versante psichiatrico o psicoterapeutico e in grado di intendersi a livello linguistico, molti si sono rivolti a clinici siriani attraverso le videochiamate. Questa situazione viene riportata da Muhammad Aadil e dai suoi collaboratori nell’articolo A call for emergency action: telepsychiatry for trauma treatment among syrian refugees, pubblicato in Cureus.

A questo proposito, quattro anni or sono, arrivarono centinaia di profughi a Como, i quali rimasero bloccati alla stazione ferroviaria non potendo varcare la frontiera con la Svizzera: ricordo l’enorme problema di portare loro un aiuto dinanzi all’estrema carenza di mediatori linguistici e culturali, dal momento che i migranti non conoscevano né l’italiano né altre lingue occidentali così come quasi tutti gli operatori non conoscevano nulla di dialetti africani.

Oltre che per lo svolgimento di sedute online, vi è tutta un’ampia fetta della nostra pratica quotidiana in cui entra in gioco il digitale. Ormai da una quindicina di anni, vi è stato un incremento di modi di contatto nuovi. Followers del mio profilo Facebook che chiedono appuntamenti non sono affatto rari, persone che hanno il mio contatto su Whatsapp mi scrivono in attesa della famosa spunta blu, alcuni ci seguono su Linkedin o su Instagram – peraltro social network che si rivolgono a target molto diversi fra loro – per valutare se sia o meno il caso di domandarci un appuntamento conoscitivo.

Sedute online e piattaforme di messaggistica

L’utilizzo della rete per prendere appuntamento e per svolgere delle sedute online risulta particolarmente diffuso negli Stati Uniti e, ancor più, in Australia anzitutto a causa del consistente spazio fra le varie città di queste nazioni che rende quasi impossibile spostarsi per raggiungere un certo clinico in una parte del paese lontana svariate ore d’aereo, a differenza di quanto avviene in Europa dove molte città sono raggiungibili in un’ora di volo oppure spostandosi in treno o in automobile.

In alcune situazioni, pur senza le enormi distanze degli Stati australiani e nordamericani, per soggetti con importanti disabilità fisiche o donne alle ultime settimane di gravidanza, l’unica alternativa ai contatti con la messaggistica digitale e alle sedute online sarebbero le visite domiciliari, non prive di controindicazioni dinanzi all’evidente ribaltamento delle posizioni fra analista e paziente nel momento in cui è l’analista a recarsi dal proprio paziente anziché viceversa, come accade di solito.

Vi sono differenze qualitativamente significative fra coloro che chiedono un appuntamento dopo una conferenza, che vengono con il passaparola oppure dopo aver letto un nostro libro e coloro che ci trovano tramite ricerche su Internet, che ci scrivono su Instagram o su Linkedin?

Quando ho iniziato la mia pratica clinica, negli anni Novanta, era frequente che il percorso preliminare venisse svolto nelle istituzioni, pubbliche o private; nel momento in cui si verificavano determinate condizioni che rendevano auspicabile il passaggio a una fase della cura più decisamente orientata dalla psicoanalisi, lo studio privato diventava il luogo in cui proseguire il percorso. Fra le motivazioni dei clinici che lavoravano nelle istituzioni, vi era anche quella innegabile di farsi conoscere, di far apprezzare il proprio operato procacciandosi pazienti per avviare l’attività nel proprio studio o per rimpinguare di casi uno studio a rischio di dismissione e chiusura.

Come cambia il percorso preliminare

Oggigiorno, il trattamento preliminare svolto in un’istituzione cui fa seguito un prosieguo nel proprio studio dopo un ciclo di alcuni incontri è certamente ancora consueto ma meno frequente. Si scorgono peraltro le criticità di tali passaggi dal ricevere il paziente nell’istituzione al riceverlo in studio, nelle presentazioni dei casi e nelle supervisioni.

Credo che il percorso preliminare si svolga ormai spesso con modalità nuove, nelle quali hanno un ruolo cruciale i contatti intrapresi dopo aver ascoltato il futuro analista su YouTube, dopo aver trovato interessante quello che pubblica sul suo profilo Facebook e magari averlo commentato argomentando e ponendo interrogativi. La domanda, sia quale domanda di cura sia quale domanda di saperne di più sul proprio inconscio, si apre spesso attraverso Internet senza caratterizzarsi come diversa da quella giunta tramite vie di contatto più tradizionali.

Il digitale disinibisce l’immaginario?

Diversi autori, fra i quali John Suler, riscontrano una disinibizione nei contesti online. Gli argomenti sono infatti spesso più spinti, molte volte erotizzati; altre volte, scatta il flaming aggressivo. Sembra vi sia meno pudore, da remoto. Dietro uno schermo, scrivendo su una tastiera, senza la vicinanza dei corpi, ci si sente rassicurati, più tranquilli, meno timidi, meno imbarazzati. Si allentano i freni nel parlare della propria vita intima, delle proprie fantasie. Credo ci troviamo dinanzi al versante esibizionistico dell’immaginario che non è senza nessi con una sollecitazione dello sguardo altrui. Inviare un messaggio scritto o un messaggio vocale, procedendo in parte verso l’atto del chiedere un appuntamento, mettendo alla prova la reazione altrui. Questo avanzare verso l’atto sgorgherà a volte in un’analisi mentre altre volte rimarrà nel limbo, senza configurarsi in una cura analitica.

Un utilizzo nuovo dei social è proprio quello dei messaggi vocali, analoghi a quanto avveniva quando si incideva un messaggio in segreteria telefonica. Qui possiamo cogliere qualcosa della voce come oggetto staccabile. Incidere un vocale diventa un modo per staccare l’oggetto-voce dal proprio corpo. Interessante è pure il fatto che arrivino ragazze a farci ascoltare in seduta i messaggi vocali dei loro fidanzati, in quanto si interrogano sulla sincerità del loro amore, sulla qualità della relazione instaurata, sull’intensità dell’affetto provato. Evidentemente, i messaggi vocali sono vari, a prescindere dal tipo di medium usato per inviarli.

Funzione delle nuove forme di scrittura

Se per ora abbiamo parlato del percorso che porta a fissare un incontro tramite i messaggi digitali, le sedute stesse vengono oggi spesso affiancate dalla scrittura. Gli appuntamenti online si basano su un funzionamento sincronico, la messaggistica su asincronia e diacronia che implica un lasso di tempo per la risposta.

Succedeva anche anni or sono questo utilizzo dello scritto in riferimento agli appuntamenti, con ragazze che redigevano il diario della propria analisi, conservando il quaderno dei propri sogni, appunti e annotazioni in guisa di commenti stesi al termine delle sedute. Ora, frequentemente prima dell’incontro, giungono lunghi testi che ci informano su varie novità oppure, dopo l’appuntamento, ci scrivono mail o brani su Messenger che costituiscono dei feedback sulla seduta appena svolta spronandoci a riflessioni ed elaborazioni.

Sembra vi sia una generale diffusione della scrittura. Oggi moltissime persone scrivono spesso; anzitutto, scrivono sui social. Quali le peculiarità di questa scrittura?

Innanzitutto, questa forma di scrittura si caratterizza per assumere le specie di uno slang; ecco, dunque, parole scritte in forma contratta come xò, xké, sn, pz, tvb. Scrivendo in questo modo, non ci si attiene alle leggi del linguaggio che vengono invece trasformate, modernizzate, aggiornate secondo forme speciali ma riconoscibili e di fatto comprensibili.

In seconda istanza, il tempo della scrittura è accorciato: il messaggio viene inviato e, dopo pochi secondi, inizia “la guerra delle spunte blu” – per citare una frase del brano “Pensare male”, cantato dalla band The Kolors e da Elodie. Ha visualizzato o non ha visualizzato? Mi risponde o non mi risponde? Sono questi i tipici dilemmi che si accendono. Ora i tempi sono molto rapidi e rispondere o procrastinare il feedback dopo la visualizzazione acclarata dalla spunta blu viene vissuto come dirimente. Dirimente rispetto al coinvolgimento del partner ma pure quanto al transfert indirizzato all’analista, nelle sue connotazioni amorose oppure ostili. Il tempo dell’attesa si comprime su un tutto e subito che fatica a tollerare il differimento, che stenta a far crescere il desiderio.

In terzo luogo, la comunicazione epistolare si basava sulla singolarità del tratto grafico di ciascuna penna, sullo stile unico dell’autore; implicava un tempo ampio, in cui si preparava la busta, si redigeva il testo, si imbucava una lettera, la si spediva, il postino la conduceva al destinatario che poi l’apriva e la leggeva. In quell’intervallo il desiderio si innalzava; nel momento della ricezione, lo stile unico ed eccezionale del mittente veniva stimato nella propria peculiarità. I caratteri uniformi di un messaggio scritto in digitale, sebbene selezionabili fra una vasta gamma di scelte, tendono invece maggiormente verso un’uniformità universale e ostacolano l’apprezzamento dell’unicità del tratto dell’autore.

In generale, lo scritto, la funzione ritrovabile in un “è scritto”, punta a stabilizzare un rapporto. Non esiste rapporto sessuale ma l’amore vi fa supplenza – è questa una famosa tesi del Lacan degli anni Settanta. Interrogarsi sul valore di quanto viene scritto risulta affine al porsi delle questioni sull’amore. Ecco una delle dinamiche che spingono molti a leggerci il messaggio ricevuto dal fidanzato, come stessero consultando un oracolo sulle vicissitudini dei loro connubi affettivi; credo sia anche una delle ragioni per le quali leggono e rileggono quanto scriviamo noi clinici in risposta ai messaggi che ci hanno inviato. La funzione dello scritto, anche in digitale, viene inclusa a pieno titolo nel transfert in forme senza dubbio singolari. Il medium non è tutto il messaggio: vanno considerate anche le caratteristiche specifiche del contenuto di un messaggio, per analizzarle.

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