Un grande dilemma attanaglia i rapporti tra i social e la politica. Il dibattito è scoppiato negli Usa, per via della campagna per le elezioni 2020, ma vale anche per noi. Facebook e Twitter hanno deciso che i post dei politici, compresi quelli pubblicitari, sono diversi da quelli dei normali utenti. Possono mentire, persino, ma non saranno cancellati. Facebook – nelle parole di Mark Zuckerberg – dice che la libertà di espressione è più importante. E solo dopo tante pressioni ha deciso di attivare in questi giorni strumenti che limitano le fake news politiche.
I social l’hanno detto chiaramente in più salse: non vogliono avere questa responsabilità “politica” di gestire il dibattito elettorale. Sarebbe troppo grande, li esporrebbe a pressioni troppo forti, pari a quelle di un media tradizionale. L’equiparazione a un’azienda tradizionale di media – come sempre più spesso ipotizzato da diverse proposte legislative negli Usa – sarebbe la fine del modello che ha retto finora questo business.
Ma il dibattito americano ci dice anche che la soluzione ideale non è stata ancora trovata, tra i due estremi della (quasi) deregolamentazione (di cui storicamente questi attori hanno goduto) e una sorveglianza preventiva sui contenuti (evocata già da una recente sentenza della Corte di Giustizia Ue per un caso di diffamazione via Facebook).
Le scelte di Facebook
Nick Clegg, Capo della comunicazione globale della società, ha comunicato che i post dei politici verranno esentati dal fact-checking in quanto da ritenersi di interesse pubblico, anche se risultassero diffondere notizie false. Farebbero eccezione quei post che fossero lesivi di precisi interessi materiali e immateriali o incitassero alla violenza. In questo caso Facebook effettuerà le debite valutazioni globali, tenendo in considerazione gli standard internazionali sui diritti umani.
Su Facebook e Instagram, con una mossa di questi giorni, si è deciso però che i contenuti politici falsi saranno etichettati come tali; all’utente sarà fornita una spiegazione e una versione corretta dei fatti. Idem se l’utente tenterà di condividere il post.
Facebook monitorerà meglio le fonti e cercherà di scoprire i media e gli editori “che sono totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale del loro governo”; nel caso, il social network li etichetterà come “media controllati dallo stato”. Un chiaro rimedio contro le campagne di propaganda e disinformazione di massa ordite da agenti statali russi e iraniani, come già avvenuto.
Di fondo, resta che Facebook non crede sia appropriato fare da “arbitro” nel dibattito politico. Non vuole impedire che il discorso di un politico raggiunga il suo elettorato e sia oggetto di dibattito pubblico. “Tuttavia – afferma Clegg – quando un politico condivide contenuti su cui precedentemente è stata fatta una verifica, inclusi link, video e foto, abbiamo in programma di ridimensionare tali contenuti, far visualizzare nel post il fact-checking delle notizie e rifiutarne l’inclusione negli annunci pubblicitari. Il ruolo di Facebook è di garantire condizioni di parità, non di fare politica. Nelle democrazie, gli elettori credono giustamente che, come regola generale, dovrebbero essere in grado di giudicare da soli ciò che i politici dicono”.
Le scelte di Twitter
Twitter ha comunicato che tendenzialmente non censurerà i tweet dei politici che violano le sue regole, con frasi che rasentano o sconfinano del tutto nell’hate speech, in quanto sono da considerarsi comunque di interesse pubblico. Ne verrà limitata la viralità e l’amplificazione; sarà impedito agli utenti di flaggarli con un like, di re-twittarli o replicarli. Sarà solo possibile citare il tweet con un commento.
I tweet dei politici che violano le policy di Twitter rimarranno, dunque, nella rete e un avviso, ad esso collegato, fornirà spiegazioni in merito alla violazione e permetterà agli utenti di cliccare su un link e vederne il contenuto, la cui amplificazione risulterà limitata.
Un mero compromesso, indubbiamente, che ci ripresenta la questione della complessa gestione della censura on-line nei confronti dei messaggi di natura politica ed al tempo stesso la possibilità di esercitare un controllo sull’amplificazione algoritmica dei contenuti stessi.
I social e la salvaguardia della libertà d’espressione
L’azienda ha giustificato questa sua posizione asserendo di averla presa in nome della superiore salvaguardia della libertà d’espressione, ma è stata oggetto di pesanti critiche. La senatrice Elizabeth Warren, per esempio, l’ha considerata – senza tanti complimenti – solo una modalità da parte di Facebook per continuare a ricevere i soldi dal comitato elettorale di Trump.
A tale proposito, ricordiamo che nei giorni scorsi sono stati pubblicati alcuni spot per la campagna di Trump tendenti ad accusare sui social l’ex vicepresidente Joe Biden di aver promesso 1 miliardo di dollari all’Ucraina per il licenziamento di uno dei suoi procuratori generali. Tale informazione è stata successivamente smentita dallo staff elettorale di Biden, ma Facebook, Twitter e Youtube non hanno dato seguito alla richiesta di rimozione.
La senatrice Warren sostiene che “Quello che Zuckerberg ha fatto è dare a Donald Trump carta bianca per le sue bugie sulla piattaforma e far incassare soldi a Facebook per promuovere queste bugie con gli elettori americani”.
Per la cronaca, la stessa senatrice Warren, sopra citata, in modo polemico e nel tentativo di dimostrare la necessità di “smembrare” le Big Tech – per ridurne il potere e l’influenza – ha pubblicato un’inserzione in cui affermava che Zuckerberg e Facebook avevano deciso di supportare la campagna per la rielezione di Trump, per poi spiegare che la notizia non rispondeva a verità.
Quale futuro ci attende
Siamo solo agli inizi e i fatti di questi giorni ci fanno presagire che le prossime elezioni americane potrebbero essere inquinate pesantemente dalle big fake news ai danni della veridicità della propaganda politica. Post e tweet, in base a modalità di targeting, potranno, infatti, raggiungere gruppi di elettori mirati, veicolando messaggi personalizzati e avvantaggiando, in questo modo, i politici disposti a giocare in modo più “disinvolto”.
Vale la pena ricordare come negli Usa si stia sempre più diffondendo la distinzione tra il concetto di freedom of speech (i.e. libertà di parola) e freedom of reach (i.e. libertà di raggiungere a pagamento qualunque tipo di utente); distinzione che ci deve far riflettere su come una campagna pubblicitaria politica possa rivelarsi sempre più come una “corsa armata alla disonestà”.
Quali misure di contrasto per la disinformazione politica?
Nell’era della post-verità assistiamo alla vittoria (speriamo solo transitoria) di chi fa uso di una demagogia ingannevole. Negli Usa (dal momento che in Europa tali modalità sono vietate) le tv, i magazine online e i social media hanno fatto uso distorto delle informazioni convertendole in un business assai profittevole.
Ci troviamo davanti a un rapporto tra social media e politica, democrazia e politica, privacy e politica più articolato e difficile da regolamentare: se da un lato c’è chi vorrebbe imporre a Facebook comportamenti più responsabili, dall’altro c’è chi ritiene che una piattaforma così potente, che conta più di 2 miliardi di utenti, possa essere difficilmente controllata. L’unica possibilità potrebbe consistere nell’emanare una regolamentazione più precisa in termini di privacy e politica, non solo negli Usa, ma anche in Europa e nel resto del mondo, prevedendo anche l’istituzione di appositi organismi sovranazionali.
Tuttavia, il nuovo homo digital vivrà sempre più attraverso la tecnologia e se non sarà in grado di gestirla, sarà arduo anche il lavoro delle istituzioni che dovranno regolamentare e controllare il mondo digitale soprattutto per garantire le libertà democratiche. Altrettanto difficile sarà pretendere che le Big Tech assumano condotte maggiormente etiche e responsabili in modo tale da rimettere al centro dei loro business gli utenti ed i loro diritti.
Ci deve fungere da monito quanto affermato da Yuval Noah Harari (storico e saggista israeliano) in un’intervista sul Financial Times dell’agosto del 2016: “chi possiede dati, comanda”. Siamo nell’epoca dei “dataismo”, quasi una nuova forma di religione in cui il flusso delle informazioni assume un “valore supremo”.
Secondo Harari, “…i dataisti credono che sulla base dei dati biometrici e del potere informatico tale sistema onnicomprensivo possa arrivare a capirci molto meglio di quanto non capiamo noi stessi. Quando questo succederà, gli esseri umani perderanno la loro autorità e pratiche umaniste come le elezioni democratiche diventeranno obsolete quanto la danza della pioggia, i coltelli di selce”.
Auspichiamoci, pertanto, che le previsioni di Harari non siano così “funeste” e che non sia troppo tardi per salvare la centralità dell’homo sapiens e la democrazia.