Sono passati 8 anni da quando Sword Art Online veniva trasmessa per la prima volta sulle reti italiane. A distanza di quasi una decade, forse mossa da una forza mistica o magari da un ricordo inconscio mai davvero dimenticato, ho deciso di ricominciare una serie che ai tempi appariva distopica, un’esagerazione, ma che oggi sembra una specie di instant book, o piuttosto instant series.
Mi hanno stupito le numerose coincidenze con il contesto attuale, a partire dall’anno raccontato: il 2022. Inoltre, ciò che ai tempi suonava futuristico, oggi possiede un riferimento attuale, nomi a cui diverse aziende digitali lavorano alacremente: il Metaverso proposto da Meta, Mesh per Teams o Vortex di Microsoft. Quale filone utopistico in fase di concretizzazione, al di là dei vari punti che dividono con estrema enfasi fan e critici, la serie ci può dare qualche insegnamento filosofico e diversi spunti pratici per il Metaverso.
Gaming nel Metaverso, cosa aspettarsi? Le condizioni perché sia “una bella storia”
Di cosa parla Sword Art Online?
Sword Art Online è un MMORPG giocato in VR, attraverso un casco interfacciato direttamente ai neuroni. Lo sviluppatore, il Master Akihiko Kayaba al primo episodio si presenta ai giocatori riuniti con i loro avatar in una piazza centrale, annunciando quello che mi viene da definire come il “volgersi del virtuale in reale”, come a rendere noto che la differenza tra i due poli non è netta e qualitativa, bensì sfumata.
Per i gamer non sarebbe più stato possibile uscire dal game play. Non era un bug il fatto che tra le opzioni del gioco non ci fosse più la funzione di “log out”. Inoltre, chiunque da fuori avesse provato a togliere loro il casco che li teneva in quello stato simil-comatoso avrebbe causato la loro immediata morte. L’unica possibilità era competere, da soli o in gilde, fino a raggiungere il centesimo piano e battere il boss finale. Com’è chiaro, anche il game-over avrebbe portato ogni soggetto a una fine altrettanto reale: non esiste la seconda possibilità. Da quel momento la vita di ogni gamer avrebbe coinciso totalmente con il gioco, tranne che per una piccola caratteristica: il dolore.
Ogni videogiocatore avrebbe potuto provare qualunque sensazione, stimolato nelle aree cerebrali in maniera opportuna. Un piatto delizioso e un profumo erano esperienze che il casco rendeva possibili, mentre il tatto aveva il limite del male fisico: era l’unica caratteristica non simulata, l’unico elemento a definire la differenza tra “qui e lì”. Eppure, l’abitudine consolidata a reagire con dolore a certi contesti, a percepire il male dopo gli urti, per una ferita, portava comunque gli utenti a comportarsi come se lo provassero, finanche forse a sentirlo davvero, quasi si trattasse di un fenomeno simile a quello dell’arto fantasma. Come se il dolore morale si sostituisse e localizzasse comunque il male nel corpo; come se l’associazione cerebrale tra comportamenti motori e sensazione conseguente non si cancellasse davvero, e il cervello compensasse la non stimolazione diretta con una connessione inevitabile nell’area neurale deputata all’esperienza del dolore. Sembra quasi che l’empatia, i neuroni specchio debbano intervenire comunque nel sentire il male (proprio e altrui) in concomitanza a certi avvenimenti. Vi è mai capitato di sentire dolore dietro alle ginocchia quando assistete a uno schiacciamento di un dito? Mi immagino succeda qualcosa di analogo in SAO.
Anche il sonno era elemento incluso nel gioco. Non si sa dei sogni, della loro qualità e della percezione che gli individui possano averne rispetto a quella del game-play comatoso. L’unica raccomandazione pratica è quella di prestare attenzione a non addormentarsi se non si è sicuri di non poter finire alla mercé di quei gamer che hanno deciso di giocare da villain, uccidendo non solo i mostri ma anche gli altri utenti. È una pratica normale negli MMORPG: gli individui sperimentano identità altre e così capita che decidano di vestire i panni del cattivo. Tuttavia in questo gioco non è solo sadismo, la decisione di giocare sporco si tramuta in crudeltà. Se qui le conseguenze di un’azione sono reali e perciò mortali, decidere di giocare da villain si trasforma in una pratica che eccede il disonore.
Un altro elemento di cui vale la pena parlare è l’aspetto dei giocatori. All’inizio, quando il Master e programmatore Akihiko Kayaba si era presentato per rivelare la terribile notizia ai giocatori, aveva consegnato loro anche uno specchietto. Quando i giocatori si sono guardati in esso, il loro aspetto in-game è mutato, assumendo i tratti reali e abbandonando quelli ideali dell’avatar. Altro elemento di realtà introdotto nel gioco. Inoltre, a segnare una distanza tra i gamer e il Master c’è il fatto che questo a differenza loro conserverà l’aspetto dell’avatar. Un po’ come il paradosso della privacy per cui le Big Tech e le PA desiderano bypassare il diritto di privacy degli utenti, mentre loro mantengono i segreti sull’utilizzo di quei dati, opacizzando scopi ed effetti.
C’è da dire che le regole del gioco non sono amorali, nonostante tutto. I bambini non possono farne parte e chi subisce una molestia sessuale può portare immediatamente il violentatore nella prigione del gioco. Insomma, può essere un consiglio per il Metaverso, quando la molestia andrà oltre i soliti commenti in console, accedendo direttamente alle sensazioni di tatto.
BCI Games
Una caratteristica di SAO di cui vale la pena scrivere, al di là della distopia Death Game e della critica agli Hikikomori o all’eutanasia, se vogliamo, è la tecnologia VR in comunicazione diretta con il cervello.
Elon Musk è colui che sta spingendo su questo tipo di interfacce neurali, scavalcando il visore, perché poco indossabile e nocivo alla vista. Secondo Musk il web esteso su cui punta Meta, fondato su blockchain, occhiali smart e altri indossabili, è poco emozionante. In ogni caso sembra che Zuckerberg non voglia escludere l’interfaccia neurale o altri sistemi che si basano su elettromiografia.
Se l’esperienza mentale può essere simulata senza l’ambiente, senza il corpo, allora il cervello e la stimolazione neurale sono necessari ma anche sufficienti alla cognizione?
Secondo la teoria della cognizione estesa (extended cognition), l’esperienza cosciente è il risultato del rapporto non riduzionistico tra cervello, corpo ed ambente, fisico e sociale. La mente sembra collegata alle azioni che compiamo attraverso il corpo nel mondo esterno (enacted cognition), non è semplicemente una scatola piena di circuiti che subisce stimoli elettrici e da cui, al massimo, la mente ne deriva come un epifenomeno. Anche il corpo interviene a formare rappresentazioni e nel processo di elaborazione di informazioni, infatti i nostri pensieri e il linguaggio sono sempre orientati a un’azione e relativi alle abilità del corpo, alla sua forma. Le parole sono nate da gesti, indicali e teatralità e infatti per lo più comunichiamo con il corpo. Insomma, la mente non è descrivibile solo attraverso l’attività cerebrale. Pertanto, occorre domandarsi come si colloca in questa teoria “estesa” la BCI, brain-computer interface, se per creare corpo, ambiente, azioni, sono sufficienti un cervello e una tecnologia che lo stimoli elettricamente.
In realtà è possibile creare simulazioni di un corpo, di una azione e di un ambiente solo perché questi poli della cognizione esistono a prescindere e soprattutto prima della simulazione. La medicina esiste solo perché c’è una preesistente possibilità innata di guarigione, un sistema immunitario che il medico possa poi guidare adeguatamente. L’errore degli internalisti è scambiare l’effetto con la causa. La Brain-Computer Interface è solo uno strumento che si aggiunge agli altri nella cognizione estesa, nell’interazione tra cervello, corpo e ambiente. Non basta da solo, anzi, restano necessari un corpo e un ambiente virtuali capaci poi di espandere ulteriormente le connessioni a cui si collegano e che si erano sviluppate nell’adattamento precedente con il corpo e l’ambiente fisici.
L’interfaccia cervello-computer è a tutti gli effetti una tecnologia su cui vari attori stanno investendo, dal settore medico ma soprattutto per il gaming e quindi per il Metaverso. Essa solleva importanti questioni relative alla privacy e al pericolo manipolatorio chela BCI nasconde.
Come chiarito sopra, ogni accesso ai nostri pensieri, ogni fake news direttamente “inoculata” nell’elettricità cerebrale non va a corroborare la tesi della virtualità, anzi. Quando la menzogna ha senso, quando va a segno, significa sempre che si è fatto leva su credenze e un mondo effettivamente in comune, reale, indipendente e sondabile. L’inganno prodotto da una notizia falsa è una tesi a favore del realismo, sia che si venga in contatto con essa al bar, su un forum, sia con mediazioni meno visibili, come la Brain Computer Interface. È un sistema solo più subdolo e perciò invasivo: chi potrà conoscere e analizzare non solo il linguaggio umano, ma addirittura l’idioletto, le intenzioni, il relativismo prospettico tarato sul singolo e i suoi ormoni, potrà adottare strumenti di persuasione ancora più efficaci. In effetti è sempre più cruciale adattare l’habeas corpus anche alla mente e reclamare il diritto di privacy per evitare di essere tracciati finanche nell’intenzione.
Benessere e Identità
“Sword Art Online è un gioco ma non un divertimento”, così Kayaba parla del suo VRMMORPG. Anche il Metaverso potrebbe essere un gioco senza sollazzo.
Come dicevo in un precedente articolo, la caratteristica che fa di un videogame un sistema di sfide ma divertenti e addirittura propedeutiche all’ansia sociale, alla resistenza allo stress, al benessere individuale è il suo essere una moratoria, una sospensione dalla vita estesa, benché simulativa di essa. La lotta tra fratelli simula la guerra, ma quest’ultima non è di certo paragonabile a una zuffa tra ragazzini: fare “bang-bang” non è un bambino soldato. Gli animali imparano a cacciare e quindi a sopravvivere con il gioco, in “quell’epoché pratica” che è l’esperienza ludica: carica di regole, di deadline, di game-over, di errori, ma affrontabili con uno stato d’animo sereno.
Da questo punto di vista, benché i social network siano strutturati come videogiochi, l’esperienza soggettiva che suscitano risulta estremamente lontana dal “flow” generato dai giochi. Non solo, la tensione si acuisce dal momento in cui si delegittima la portata delle loro conseguenze togliendo loro esistenza ontologica, dato che social network e digitale ancora faticano a essere percepiti quali parte della realtà. I villain di SAO, siccome possono dubitare che la morte sia effettivamente reale, non inclini ad attribuire alle loro azioni sugli altri gamer un giudizio morale di riprovazione, proprio perché tolgono realtà all’ambiente di gioco e alle sue conseguenze sulla “vita vera”.
Il Metaverso aggiungerà un esistere ontologico a ciascuno di noi, per questo chi sarà tagliato fuori da questo nuovo ambiente a causa di resistenze personali o per ritardi infrastrutturali si troverà a esistere a un grado minore. Se l’obiettivo è ampliare l’accesso alla medicina, alla formazione, alla comunicazione e allo scambio anche a quelle regioni del mondo svantaggiate, non solo l’obiettivo primario non verrà raggiunto, ma si genererà un ulteriore caso di digital divide. Una mancanza di benessere e addirittura del malessere.
C’è da dire infine che dovremmo prendere spunto dalla lezione di SAO e dalla decisione di far giocare tutti con il proprio aspetto non falsato. I social network e i filtri hanno portato a recrudescenza la dismorfofobia. Ha ragione il cantautore e artista Marcello Stefanelli quando dice che “nel Metaverso i modellatori di grafica 3D saranno i nuovi chirurghi”. Ci presenteremo alla vita sociale come vorremmo essere, senza fare i conti con il nostro aspetto finché non saremo a tu per tu davanti a uno specchio. Chissà, sarà bene fare accedere al Metaverso solo a chi è in possesso di smart mirror o di app di telemedicina mentale?