La visione lineare della digitalizzazione porta a fornire soluzioni specifiche a specifici problemi. Il systems thinking, la visione sistemica dell’innovazione a sfruttare tutto il potenziale della tecnologia per avere un vantaggio competitivo. Passare da una visione all’altra è la sfida per chi si trova a gestire la digital trasformation delle organizzazioni.
Infatti, le organizzazioni, organismi complessi, si trovano a dover affrontare un altrettanto complesso processo di trasformazione, guidato dall’innovazione tecnologica e reso ancora più veloce dall’emergenza sanitaria in corso (il 40% dei cittadini europei ha ricorso a tempo pieno allo smart working a causa della pandemia).
Come governare questa complessità? Come fare in modo che il cambiamento sia davvero funzionale agli obiettivi di sviluppo dell’organizzazione e di tutti gli stakeholders?
La nuova fase della digital transformation
Lo sviluppo della nostra società è da sempre fondato sul valore della conoscenza, un asset che oggi sta affrontando una mutazione senza precedenti. Le nuove tecnologie, infatti, spezzano i sistemi che tenevano imprigionata l’informazione all’interno di specifici settori, ambiti e strutture economico-sociali, liberandola, rendendo la conoscenza un bene comune e creando le condizioni per uno sviluppo economico e sociale senza precedenti.
Sebbene la digital transformation venga percepita dai più come un fenomeno recente, probabilmente per via della sua crescente popolarità, l’idea di offrire prodotti o servizi digitali era ben presente già negli anni ‘90 e nei primi anni 2000. Ad esempio, nel settore retail, i mass media erano già considerati importanti canali digitali con cui raggiungere i clienti con le campagne pubblicitarie, anche se gli acquisti erano effettuati prevalentemente all’interno di negozi fisici, spesso con contanti.
Dal 2000 al 2015 la diffusione di smart devices e social network ha portato ad un drastico ed epocale cambiamento nel modo in cui i clienti comunicano con le imprese e la pubblica amministrazione, così come si è modificata la loro aspettativa in relazione ai tempi di risposta attesi e ai canali per riceverla. Le organizzazioni hanno iniziato a capire che potevano comunicare digitalmente con i loro clienti, su base individuale e spesso in tempo reale. La crescente disponibilità di soluzioni di pagamento digitale come PayPal ha contribuito poi allo sviluppo dell’e-commerce abbattendo le barriere fisiche del commercio online.
Oggi la digital transformation è principalmente focalizzata sui dispositivi mobili e sulla possibilità di generare informazioni e servizi personalizzati grazie alla disponibilità, su larga scala, delle informazioni generate dalle stesse tecnologie. Per avere un’idea della portata del fenomeno basti pensare che dal 2015 al 2020 siamo passati da 15 miliardi a 200 miliardi di smart device connessi ad internet.
Infografica da Intel.com
La trasformazione digitale è, nei fatti, figlia della società dell’informazione (e della conoscenza).
La prima fase della digital transformation è stata caratterizzata da soluzioni (dispositivi e applicazioni) che rispondevano al bisogno di produrre, accedere, conservare, gestire, scambiare informazioni. Una quantità di informazioni mai prodotta prima nella storia dell’umanità (secondo uno studio IBM del 2017, il 90% dei dati disponibili quell’anno erano stati prodotti nei 2 anni precedenti).
Nella “fase 1.0” della digital transformation, lo sviluppo è stato concentrato soprattutto nel rendere più potenti e veloci, singolarmente, le diverse tecnologie: smartphone, computer, internet. Una fase in cui il design thinking ha affrontato problemi contingenti e favorito il proliferare di soluzioni stand-alone: database, applicazioni, desktop computer, internet e smartphone sono figli di questo approccio.
Oggi l’attenzione si è invece spostata dai singoli gadget alla connessione di gadget e sistemi per generare valore: un network di oggetti dotati di intelligenza alimentata dalla tecnologia. Il cambiamento, dunque, non è più mirato a risolvere una specifica esigenza come, ad esempio, quella della propria clientela, ma a ristrutturare le organizzazioni per generare valore attraverso l’efficienza e l’efficacia dei processi. L’obiettivo è la trasformazione dell’intero sistema, non del singolo aspetto.
I profili coinvolti in ambito pubblico e privato nella Trasformazione Digitale di un’organizzazione sono numerosi: dirigenti, quadri e funzionari che partecipano al processo di gestione e dematerializzazione dei documenti, che sia svolto internamente o affidato in outsourcing. Altre figure professionali di rilievo sono i responsabili della direzione aziendale, i responsabili dell’innovazione, i responsabili dei sistemi informativi, gli addetti alla gestione documentale, i responsabili funzionali nelle Pubbliche Amministrazioni, nonché i liberi professionisti e i capi progetto coinvolti nella realizzazione per conto terzi di digitalizzazione dei processi o di un sistema di gestione di documenti e informazioni in formato digitale.
Il Responsabile per la Transizione al Digitale nella PA
Proprio nel contesto delle organizzazioni pubbliche italiane, è stato introdotto il ruolo del Responsabile per la Transizione al Digitale (RTD)[1], che ha tra le principali funzioni proprio quella di garantire operativamente la digital transformation, attraverso la pianificazione e il coordinamento dello sviluppo dei servizi digitali, dell’adozione di modelli di relazione trasparenti e aperti, di percorsi di semplificazione e crescita inclusiva delle pubbliche amministrazioni.
La PA italiana è stata dunque tra le prime organizzazioni ad indirizzare la necessità di dotarsi di risorse specifiche, con skill specifiche, dedicate alla trasformazione digitale. L’RTD è una figura manageriale a cui sono richieste sia competenze organizzative che tecnologiche e giuridiche, nell’ambito dell’Ufficio per la Transizione al Digitale o anche del Sistema di Gestione e Conservazione Documentale.
La trasformazione digitale richiede il contributo ed il coinvolgimento di ogni articolazione della macchina pubblica e, a tal fine, il Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD)[2] prevede all’art. 17 che le PA garantiscano l’attuazione delle linee strategiche per la riorganizzazione e la digitalizzazione dell’amministrazione. Il nuovo CAD introduce un insieme di innovazioni che vanno a incidere concretamente sui comportamenti e sulle prassi delle organizzazioni nonché sulla qualità dei servizi resi. Proprio l’art. 17 stabilisce che ciascuna Pubblica Amministrazione sia tenuta ad nominare un Responsabile per la Transizione al Digitale e ad affidare ad un unico ufficio dirigenziale la transizione e i conseguenti processi di riorganizzazione, nell’ottica di una maggiore efficienza ed economicità, per un’amministrazione digitale e aperta, con servizi facilmente utilizzabili e di qualità.
Tra le funzioni e i compiti più sfidanti di questa nuova figura organizzativa, sono molte le attività per le quali è richiesta una visione dalla marcata prospettiva sistemica: pianificare la riorganizzazione dei processi di lavoro in un’ottica di completa digitalizzazione del loro ciclo di vita; favorire la gestione del cambiamento in un’ottica graduale e di supporto ai processi da innovare; garantire un’effettiva transizione della gestione documentale da analogica a digitale; valorizzare il patrimonio informativo disponibile per orientare scelte strategiche e innovazione di servizio; favorire l’applicazione di meccanismi di gestione delle informazioni e delle decisioni in un’ottica sistemica; ridurre il digital divide interno e migliorare le competenze del personale per l’implementazione di concreti modelli di servizio digitale.
Tuttavia, la normativa in tema di amministrazione digitale contiene purtroppo indicazioni non sempre chiare per la realizzazione e l’utilizzo di soluzioni realmente efficaci e a norma di legge. In tal senso, il Responsabile per la Transizione Digitale ricopre quindi un ruolo strategico nella propria organizzazione, in quanto deve saper conciliare le esigenze interne con quelle (esterne) di cittadini o beneficiari dei servizi.
Appare dunque evidente come per il Responsabile della Transizione al Digitale (RTD) sia assolutamente necessaria una notevole conoscenza e consapevolezza in ottica sistemica delle più recenti innovazioni digitali da applicare nei processi esistenti nonché degli strumenti di gestione di documenti e contenuti: quindi delle loro interdipendenze, degli aspetti organizzativi entro cui inserirli, oltre che di come sceglierli, adottarli e del modo migliore di impiegarli.
Dal Design Thinking al Systems Thinking
Il processo di trasformazione digitale è diventato la sfida manageriale più rilevante nello sviluppo di un’organizzazione: all’interno, impatta l’intera organizzazione; all’esterno, influenza in modo significativo il posizionamento strategico sul mercato, generando un diverso modo di fare scelte strategiche.
La trasformazione digitale influenza la natura dei rapporti tra gli individui, così come quelle tra le funzioni di una organizzazione: rappresenta un enorme chance di crescita e sviluppo ma non è priva di sfide e rischi.
Il processo di trasformazione digitale dovrebbe essere guidato da un approccio “olistico”, che sappia fare di un intero più della somma delle sue parti. Un approccio sistemico, che si concentra sul modo in cui le parti costitutive di un sistema sono correlate e su come funzionano nel tempo e nel contesto di sistemi più grandi. E che sia dunque in grado di coniugare la visione interna dell’organizzazione con quella esterna.
Diventa quindi necessario operare un salto cognitivo che ci consenta di passare dall’approccio orientato alla produzione efficiente di oggetti efficaci (design thinking) ad un approccio di pensiero che ci faccia mettere in discussione la ratio ultima del medesimo oggetto, la necessità di quell’oggetto o di quello specifico fine, per valutarne ex-ante l’effettivo valore nel futuro dell’organizzazione: il Systems Thinking (o Pensiero Sistemico).
Il Systems Thinking costituisce una evoluzione cognitiva del design thinking: ne integra alcuni dei principi e ne valorizza ulteriormente i benefici, grazie alla visione prospettica apportata dal pensare per sistemi[3].
Paradigmatico è il caso di IKEA, che applica da anni il design thinking allo sviluppo del prodotto ed alla progettazione della showroom experience del cliente. IKEA ha ridisegnato questi processi con un approccio sistemico per collegare l’esperienza di front-end con le operazioni di back-end, ricavandone così dei vantaggi in termini organizzativi e di user experience e caratterizzandosi come un’azienda che ha l’ambizione di divenire sempre più socialmente responsabile.
Cos’è il Systems Thinking
A differenza del Design Thinking, che si focalizza sulle specifiche necessità e le loro soluzioni, il Systems Thinking analizza gli impatti e i comportamenti di ogni elemento e di come questo interagisca con l’intero sistema.
Il Systems Thinking è un modo di pensare volto alla risoluzione di problemi complessi e legati all’incertezza del mondo reale. Se il mondo è un insieme di entità tecniche e sociali altamente interconnesse, gerarchicamente organizzate, allora è possibile produrre comportamenti osservabili dagli stakeholder, che sono soggetti direttamente interessati o influenzati da tali comportamenti.
In tal senso, il Systems Thinking, o pensiero sistemico, è uno strumento per descrivere un sistema nella sua globalità, evidenziandone la natura dinamica e l’interazione che si instaura fra i suoi elementi.
Per comprendere meglio cosa sia il Pensiero Sistemico e come poter pensare per sistemi al fine di migliorare il posizionamento strategico di un’organizzazione o di guidarne la trasformazione organizzativa (come nel caso della Digital Transformation), è necessario effettuare degli approfondimenti sulla disciplina alla sua base, che si può rappresentare come una collezione di strumenti e metodi, oltre che come una profonda nuova filosofia di pensiero.
Tale filosofia riguarda i seguenti aspetti fondamentali:
- la capacità (sensibilità) di saper osservare e cogliere la natura “circolare” del mondo in cui viviamo
- la consapevolezza del ruolo della struttura dei “sistemi” nel determinare le situazioni con cui ci confrontiamo
- la comprensione che vi sono potenzialmente delle conseguenze inattese alle azioni che intraprendiamo
Una sintesi completa delle buone prassi del Pensatore Sistemico (o Systems Thinker) è racchiusa nella figura seguente:
Il Systems Thinking è dunque anche uno strumento di diagnosi, perché permette, attraverso un approccio rigoroso, di analizzare i problemi in modo più accurato e completo prima di agire.
Potremmo quindi definire il Pensare per Sistemi come quell’approccio di pensiero all’analisi sistemica che ci consente di dare le giuste risposte a dei quesiti vitali per l’organizzazione poiché, ancor prima di giungere a conclusioni affrettate (inseguendo la moderna esigenza di dover – troppo – velocemente fornire le “risposte giuste”), è in grado di identificare le giuste domande da porre/porsi nell’analisi dei problemi in esame.
Il Systems Thinking come arma in più per i decision maker
L’arte di vedere la foresta e non il singolo albero: pensare per sistemi (Thinking in Systems) significa dunque spostarsi dalla mera e semplice analisi delle singole componenti di un sistema verso la comprensione di tutto il sistema nella sua interezza e nelle sue proprietà emergenti. E, una volta definito il sistema, dall’osservazione degli eventi (o dei dati ad essi collegati) verso l’identificazione degli schemi di comportamento nel tempo dei fenomeni che interessano, e da lì alle strutture sottostanti che li generano.
La capacità di comprensione e modifica di quelle “strutture” che non stanno operando al meglio (inclusi i nostri modelli mentali, BIAS o percezioni) ci consente di espandere la selezione di scelte disponibili e creare dunque più efficaci soluzioni di lungo termine a problemi cronici.
Il Systems Thinking espande quindi la gamma di scelte disponibili per la soluzione di un problema, ampliando la nostra capacità di analisi e di articolazione in modo innovativo e differente. Allo stesso tempo, i principi del pensiero sistemico rendono consapevoli che non esistono soluzioni ottimali o addirittura perfette: le scelte che facciamo avranno un impatto su altre parti del sistema. Anticipando gli impatti di ognuno di tali “trade-off”, possiamo minimizzarne la severità o addirittura utilizzarla a nostro vantaggio.
Non a caso, il potere del Systems Thinking è stato recentemente riconosciuto anche dall’OCSE, che in uno degli suoi ultimi rapporti ha identificato la necessità di utilizzare questo paradigma se vogliamo risolvere con successo le sfide del 21° secolo.
L’OCSE non è l’unica a riconoscere i vantaggi del Systems Thinking come competenza che aiuta a risolvere i problemi più efficacemente. Anche la Banca Mondiale ha promosso questa metodologia in due ambiti molto diversi: come modello per una istruzione più efficace e come metodologia per valutare meglio le politiche sugli investimenti in istruzione e formazione in tutto il mondo.
Infine, l’UNESCO ha istituito un corso online (MOOC) in cui viene insegnato il pensiero sistemico come strumento per comprendere gli ecosistemi e trovare soluzioni concrete ai loro problemi.
Le competenze sistemiche come chiave per la digital transformation
Emerge dunque chiaramente come le organizzazioni e gli individui debbano adeguare le proprie risorse per rispondere alle esigenze di un mondo che cambia. Devono sviluppare competenze utili a sfruttare i vantaggi competitivi offerti dalla digital transformation per sopravvivere in un’era di profondi cambiamenti.
Le competenze dei manager sono però un aspetto della trasformazione digitale che rischia di essere ampiamente sottovalutato. Come scrive il sociologo e filosofo Piero Dominici, il fattore umano è e sarà sempre decisivo, dal momento che è dietro ogni processo, meccanismo, algoritmo. Servono delle figure ibride che sappiano coniugare competenze tecniche e soft skills: servono dei manager della complessità (e dell’ipercomplessità) che non solo sappiano gestire le tecnologie e i nuovi ambienti iperconnessi, sfruttandone al massimo le potenzialità, ma che sappiano gestire il cambiamento come evoluzione dell’organizzazione e dei fattori che la compongono. A cominciare da quello umano.
Secondo il rapporto “The Future of Jobs” del World Economic Forum, la domanda di figure legate alla digital transformation continua a crescere, e di pari passo cresce la richiesta di soft skills direttamente legate al Systems Thinking: le 10 competenze chiave per il prossimo futuro (2022) sono quasi esclusivamente soft skills e includono il pensiero analitico e l’innovazione, il pensiero critico, il problem-solving, la capacità di analisi e valutazione di sistemi, oltre alla capacità di apprendimento attivo (vedi tabella seguente).
Anche IDC (International Data Corporation) sostiene che le soft skills siano la chiave per guidare con successo la digital transformation delle organizzazioni: nel rapporto 2020 “IDC Perspective: Customer Service and the Future of Work” le definisce come gli eroi silenziosi della digital transformation. Perché la trasformazione culturale di una organizzazione è condizione imprescindibile per la sua trasformazione digitale. Sulla stessa linea di pensiero LinkedIn, per il quale nell’era dei robot, le soft skills regneranno sovrane.
Fari accesi sulle soft skills anche da parte dell’Unione Europea: la Commissione Europea evidenzia infatti come le competenze trasversali quali il pensiero critico, la capacità di lavorare in modo collaborativo e di prendere iniziative siano asset strategici per la crescita socio-economica del sistema Europa. Insieme alla capacità di analisi e valutazione dei sistemi (system thinking), sono considerate competenze chiave per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Servono systems leader per guidare il cambiamento
I cambiamenti socio-culturali cambiano le esigenze delle persone e le tecnologie sono sviluppate per rispondere a questa domanda. Ma devono farlo in modo coerente con i valori, gli obiettivi e le strategie delle organizzazioni. E questo non può che tradursi in cambiamenti di struttura, modelli e processi di gestione.
Servono leader e manager che sappiano governare la complessità di queste sfide, che sappiano portare il cambiamento e l’innovazione nella cultura e nella strategia dell’organizzazione. Che sappiano coniugare gli obiettivi delle organizzazioni con gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.
In breve, manager e policy makers devono pensare, comportarsi e agire come system leader affinché le proprie organizzazioni raggiungano il successo nella digital transformation e aspirino a guidarla.
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- Il Ministero per la Pubblica Amministrazione, tramite la Circolare n. 3 del 2018 ha ribadito l’obbligatorietà per tutte le amministrazioni, di individuare un ufficio per la transizione al digitale – il cui responsabile è il RTD – a cui competono le attività e i processi organizzativi ad essa collegati e necessari alla realizzazione di un’amministrazione digitale e all’erogazione di servizi fruibili, utili e di qualità. ↑
- Art. 7 del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), adottato con d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, modificato con i decreti legislativi n. 179 del 2016 e n. 217 del 2017, ↑
- Donella Meadows (2019) “Pensare per Sistemi – Interpretare il presente orientare il futuro verso uno sviluppo sostenibile”. Milano, Guerini Next, ISBN: 9788868961114 https://guerini.it/index.php/pensare-per-sistemi.html ↑