Cosa si intende per quarta parete rotta e videogiochi? There is no game ci dimostra perfettamente cosa sia e, soprattutto, cosa voglia dire “pensare altrimenti”.
Quando viene meno la quarta parete, i personaggi si rivolgono direttamente a noi, sanno tutto delle nostre partite, di dove clicchiamo e dei movimenti che stiamo facendo. Incarnano il ruolo di aiutanti anche se ci parlano “per mezze parole” e non sempre è semplice disambiguare quello che ci stanno suggerendo. Somigliano, insomma, a un Dio creatore dell’universo, abituato a esprimersi per metafore e che si intromette continuamente nel game play della nostra vita. Lo sentiamo parlare, consigliarci e prendersi gioco di noi. Se l’Universo è, come dicono, una simulazione, il Dio cristiano somiglierebbe alla voce dei videogiochi in cui non esiste la quarta parete? O al Genio Maligno pronto sempre a ingannarci? In ogni caso non ci sarebbe possibilità alcuna per il libero arbitrio: se il Software interviene per direzionarci dove vuole, allora siamo servi delle sue trame preimpostate. Le nostre preghiere saranno accolte solo se fanno parte della storia del gioco.
La “filosofia” di There is no game
Poter interagire con gli sprite e, viceversa, essere interagiti da loro, garantisce alti livelli di immersività, nonché possibilità di gioco nuove. Ultimamente mi sono ritrovata a giocare a There is no game, sia quello del 2015, sia il sequel “Wrong Dimension”. Già dal titolo si comprendere la filosofia che anima questo “non gioco”. Ironia a più non posso e consapevolezza di essere un videogame e quindi potersi permettere qualunque cosa. La quarta parete, in questo caso, è direttamente quella che circonda casa nostra. Si tratta di un punta e clicca, ma, attenzione, “se clicchiamo ovunque verremo per sempre banditi dal mondo del gaming”: questo l’alert del gioco. La prima versione è risolvibile in una ventina di minuti, se, come me, avete allenato a sufficienza il pensiero divergente, ma soprattutto se avete rimosso dalle vostre premesse ogni dogma.
I legami con The Secret of Monkey Island
Ultimamente, infatti, ho ripreso The Secret of Monkey Island nell’edizione speciale. La grafica era stata opportunamente ridisegnata per essere godibile anche sugli schermi moderni. Devo dire che è bello come lo ricordavo. Rigiocarci mi ha divertita per ore.
Per portare a termine questa pietra miliare delle avventure grafiche, viene richiesto il modo di pensare dei fanciulli, cioè una tabula rasa, senza le incrostazioni culturali e le rigidità proprie del ragionamento adulto. È il procedere immaginifico e creativo che il Piccolo Principe tramanda nel libro, ma anche quello che Peter Pan, nel film Hook, ha perduto nella crescita, così da non riuscire a sfidare né Rufio né, tanto meno, Uncino. Non è un caso che la gara di insulti sia un aspetto centrale e di Monkey Island e del film di Spielberg, il primo del Novanta, il secondo del Novantadue.
Gli enigmi di Monkey Island sono straordinari e anche i dialoghi hanno un’ironia che mi ha lasciata di stucco. Il mio professore di antropologia culturale, Aime, scrisse in un testo sugli abitanti di Timbuctu, che la comicità è un buon strumento con cui misurare la cultura di un gruppo. Pertanto, un videogame così acuto mi fa inevitabilmente riconsiderare il livello intellettivo dei bambini negli anni Novanta.
There is no game, con le dovute differenze, garantisce divertimento ed enigmi assurdi proprio nella loro logicità. Se ci pensiamo noi siamo abituati a interagire con gli sprite in modo parziale e, in realtà, illogico. La verità è che dovremmo poter staccare lettere di ogni titolo e sostituirle come in uno scarabeo, dovremmo poter far precipitare blocchi facendo tremare l’intera struttura grafica. Ogni oggetto sullo schermo dovrebbe poter essere usato in tutti i modi possibili, come accade nella realtà. Così quel che succede in There is no game è davvero l’inesistenza del gioco per come lo abbiamo fino ad ora concepito.
La voce narrante ci persuade spesso di lasciare questo non-gioco e andare a giocarne a uno vero. Ad un certo punto, poi, ho subito il bullismo per non essere lingua madre britannica. Quando dovevo salvare una capra (poi rivelatasi un errore generante glitch), evidentemente avevo cliccato lo schermo un po’ troppe volte, non curandomi di cosa stesse consigliandomi la “meta-coscienza del videogioco”, questo deve aver suggerito alla macchina la mia appartenenza a contesti non britannici (l’alternativa era il francese e per me è indiscutibilmente off-limits).
Non c’è da spoilerare nulla, in effetti, non c’è inizio e non c’è fine. Se però sapremo torturare adeguatamente gli ingranaggi del videogioco, potremo convincere l’intelligenza a farci divertire con molti puzzle e gag. Ci scommetto che questo videogioco vi strapperà più di una risata.
La grafica è volutamente retrò, piatta e “pixellosa”. Si incontra anche una parentesi di Breakout, il “muro” di Atari. In un videogioco simile, quand’anche si dovesse incontrare un errore, inevitabilmente finiremmo per pensare che quel bug fosse voluto. Bisognerebbe applicare questa strategia anche nella vita. Dovremmo sempre ironizzare sugli errori, così, quando ne dovessimo commettere uno per davvero, tutti sarebbero giustificati a ritenerlo uno dei soliti scherzi.
Conclusioni
Insomma, a mio avviso, questo tutt’altro che semplice giochino, potrebbe essere un ottimo strumento con cui misurare la creatività delle persone. Potrebbe attestarci la sopravvivenza del fanciullino, colui che sa vedere in una coppa vinta un contenitore per l’acqua e in una pentola, l’elmo che Guybrush Threepwood deve usare per essere sparato col cannone. Un plauso agli sviluppatori, il cui nome, “Draw me a Pixel”, merita più di un pixel.