La “great resignation” è uno dei principali fenomeni che hanno investito il mondo del lavoro dopo la pandemia da Covid-19: secondo un recente studio di McKinsey, il 40% dei lavoratori a livello mondiale intende a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi. Certo, non riguarda tutti i lavoratori di tutti i comparti, ma è una realtà che non può più essere ignorata, e che si sta manifestando in tutta la sua evidenza anche in Italia.
Il dibattito, già molto acceso, sui vantaggi dello smart working per la qualità della vita dei lavoratori è stato rinfocolato dalle recenti affermazioni di Elon Musk, schieratosi apertamente contro lo smart working, una forma di lavoro non più accettata a Tesla.
Ma quali sono i contorni del fenomeno?
Che ne sarà dello smart working? Ecco perché siamo solo all’inizio della “rivoluzione”
Lavoro e qualità della vita, basta compromessi
“Se proprio devo rientrare in ufficio, preferisco trovare un’altra azienda dove lavorare”. Appena due anni fa questa affermazione era utopia anche nelle organizzazioni e nelle aziende hi-tech più avanzate della Bay Area. Eppure, dopo anni di discussione su quale fosse la migliore ricetta per la “total compensation” o per il “work-life balance” il mercato del lavoro, almeno per alcuni lavori altamente specializzati nel settore hi-tech, ha trovato da solo la risposta: nessun compromesso, decido io dove lavorare e come organizzarmi la giornata di lavoro, se mi volete sono qui altrimenti trovo un altro lavoro.
In sostanza dopo anni spesi a proclamare i benefici del lavoro di gruppo, delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro, delle soft skill per i manager ma anche per tutto il personale si è tornati all’origine più di tante parole: la persona e i suoi bisogni personali al centro del nuovo modo di lavorare.
E così la pandemia ha spazzato via in due anni il lavoro di qualche decennio per costruire processi e organizzazioni complesse che trovassero l’equilibrio intorno a uffici con migliaia di lavoratori nello stesso posto per almeno otto ore al giorno.
Il lavoro da remoto diventa un elemento negoziale
È vero per tutti? Assolutamente no. È sicuramente vero per tutte quelle professionalità che possono contare sulle loro conoscenze specifiche, soprattutto nel settore ICT, che non devono garantire lavoro in presenza presso i clienti e/o devono gestire in ogni caso attività o team di lavoro da remoto. Soprattutto è vero quando, oltre alla propria azienda, c’è un cliente che accetta questo tipo di relazione con un fornitore o un partner.
Questo era tecnicamente possibile già prima della pandemia, molte aziende concedevano la possibilità di lavorare qualche giorno a settimana da casa, ma mai la possibilità di essere riconosciuti per la propria professionalità senza mai mettere piede in ufficio è stato un elemento negoziale e di forza contrattuale, fino a diventare l’elemento più importante su cui negoziare con la propria azienda o con il nuovo datore di lavoro. Una conditio sine qua non che inverte e stravolge il peso negoziale del lavoratore lasciando l’azienda senza vere armi alternative.
Questo è quello che sta succedendo dopo due anni di Covid: la pandemia ha forzato a remotizzare tutti i lavori possibili, dallo specialista super qualificato alla segretaria per la gestione degli appuntamenti, dal programmatore al direttore marketing.
La ribellione dei lavoratori hi-tech della Bay Area
In tutta la Bay Area oggi si assiste a una vera e propria ribellione dei lavoratori contro la richiesta delle aziende di lavorare in presenza in ufficio almeno qualche giorno a settimana, da Google a Netflix, Microsoft, Meta, TikTok e altri tutti stanno avendo difficoltà per trattenere i talenti. I dipendenti di Apple hanno addirittura scritto “smettetela di trattarci come studentelli che hanno bisogno di essere istruiti su dove e quando essere in ufficio e quali compiti fare a casa”.
Analizzando meglio cosa è successo in così poco tempo ci rendiamo conto che proprio i big dell’hi-tech hanno abilitato questa rivoluzione poiché hanno messo a disposizione strumenti di telecomunicazione e sistemi informativi che dematerializzano l’ufficio, la scrivania e virtualizzano anche i colleghi, distanti centinaia e migliaia di chilometri ma più connessi di prima.
Basti pensare ai sistemi in cloud dai più semplici come Office 365 standard ai servizi di Google fino ai sofisticati sistemi delle multinazionali. L’infrastruttura per la ribellione era pronta da tempo, quella che era latente era la consapevolezza dei vari professionisti di poter esprimere tutto il loro valore in un ambiente a loro più congeniale. La pandemia ha solo accelerato, per non dire fatto esplodere, questa consapevolezza.
Solo negli Stati Uniti, in particolare nelle aree a maggiore densità di tech companies quali la Bay Area e l’area di New York, secondo uno studio del think tank Economic Innovation Group, si stima che circa cinque milioni di dipendenti si siano trasferiti in altre città se non addirittura all’estero, continuando a fare il proprio lavoro e spesso senza neanche decurtazioni dello stipendio. E alla prima occasione si sono dimessi per non tornare in ufficio trovando lavoro remoto più facilmente di tanti altri e in poco tempo.
Sempre secondo lo studio del think tank, il 30% circa dei dipendenti si sposta in luoghi distanti da 2 a 4 ore dall’ufficio in modo da poterci andare, ad esempio, una volta al mese senza troppi sforzi.
Lavorare e ritrovare le proprie origini
Ovviamente questo è possibile quando la domanda di esperti è elevata e in un momento in cui la rivoluzione digitale sta decollando con tutta una nuova serie di tecnologie e investimenti in tutto il mondo, l’unico fattore comune è la mancanza di milioni di esperti, di ingegneri e informatici con la capacità di navigare nei nuovi sistemi, di esperti di cybersecurity e tanti altri.
Spostarsi in altre città mantenendo, se non aumentando, i propri compensi significa aumentare la qualità della vita, avere un vero work-life balance più di ogni altro benefit e concessione che l’azienda possa fare. Se poi si considera che negli ultimi decenni c’è stata la corsa di tante persone da tutti gli angoli del paese (se non del mondo) verso le grandi metropoli mondiali o i grandi hub delle multinazionali, poter lavorare da remoto spesso significa anche rientrare nelle proprie città di origine ritrovando la propria identità e anche la propria famiglia. E spesso spendendo anche molto meno poiché vivere a New York o San Francisco costa sicuramente di più che in Messico o sul lago Tahoe o in una tranquilla cittadina della Pennsylvania.
Anche i lavoratori italiani, nel loro piccolo si ribellano
E in Italia? Sebbene in scala ridotta succede esattamente lo stesso. In questi giorni di attacchi informatici da parte di organizzazione russe a seguito dell’invasione dell’Ucraina si legge spesso che mancano, solo in Italia, oltre centomila esperti in cybersecurity tanto nel pubblico quanto nel privato, in realtà mancano anche tante altre professionalità ma questo è sufficiente a farci capire il peso negoziale che questi esperti possono avere nei confronti della loro azienda. E chi ne trova uno è disposto, proprio come negli USA, a pagarlo molto bene ma anche ad accettare le richieste di lavoro remoto.
I direttori delle risorse umane nei loro compensation package ormai hanno adottato la formula “lavora da dove ti pare basta che sei dei nostri”. Ed è così che quello che era una concessione o un vero benefit oggi è un must per aprire una selezione di risorse molto qualificate.
Come cambia la filosofia aziendale: focus sugli obiettivi
Questa ribellione delle competenze avvicina sempre di più il dipendente al consulente o al professionista che vuole essere indipendente nel rendere la propria prestazione, accentuando la differenza tra i dipendenti costretti a lavorare in ufficio e quelli liberi di farlo da dove vogliono o impossibilitati a farlo per tipologia di lavoro svolto. Tutti, però, come conseguenza, sono costretti a concentrarsi sugli obiettivi e sui task, uscendo dagli schemi contrattuali tipici e ponendo nuove frontiere di gestione delle relazioni sociali.
E infatti questa volontà latente di libertà nell’organizzare il proprio lavoro, proprio in Italia, vede anche i dipendenti pubblici più giovani e più intraprendenti lasciare il posto di lavoro fisso e sicuro per avviarsi a una professione diversa in aziende o anche imprenditoriale. Il lockdown ci ha chiusi in casa per molti mesi costringendoci a riflettere sui valori base della vita e sul futuro che vogliamo.
Conclusioni
E infatti questa volontà latente di libertà nell’organizzare il proprio lavoro, proprio in Italia, vede anche i dipendenti pubblici più giovani e più intraprendenti lasciare il posto di lavoro fisso e sicuro per avviarsi ad una professione diversa in aziende o anche imprenditoriale. Il lock down ci ha chiusi in casa per molti mesi costringendoci a riflettere sui valori base della vita e sul futuro che vogliamo.
E costringendo le aziende ad affrontare temi ancora più sfidanti di quelli affrontati durante la pandemia perché se vogliamo che la ribellione diventi occasione di crescita culturale e industriale bisogna regolamentarla e valutare nel tempo l’efficienza che questo genera. Oggi possiamo già trarre qualche conclusione: dare per scontato che si possa lavorare da ogni parte del globo aumenta potenzialmente la competitività delle aziende in quanto consente di attrarre i migliori togliendo il vincolo geografico della distanza, degli orari ed anche dei fusi orari.
Trasformare questa competitività in valore per tutti gli stakeholder è la sfida che abbiamo davanti e, come evidenzia Elon Musk, ognuno ha la sua visione su come estrarre il valore.