La pandemia e il disastro occupazionale e sociale che sta provocando è solo l’ultima tappa di un processo iniziato ormai quarant’anni fa.
Quando il lavoro tornò ad essere considerato ottocentescamente una “merce” – da “diritto” che era faticosamente diventato dalla metà del “900 – per di più a costo (per l’impresa) da ridurre sempre di più; quando iniziarono ad essere progressivamente smontate, in nome della flessibilità e del “nuovo che avanza e che non si può fermare” offerto dalle nuove tecnologie, le tutele al lavoro e ai lavoratori e vennero incentivati i contratti atipici perché appunto flessibili e quindi flessibilizzanti il management del lavoro.
La flessibilità del lavoro. Ma poi?
Dal Pacchetto Treu del 1997 fino al Jobs Act in Italia, per non dire delle riforme del “socialdemocratico” Schroeder in Germania (ad esempio i mini-jobs) e altro ancora, è stata una corsa continua alla flessibilizzazione del mercato del lavoro (e si rilegga il fondamentale saggio di Luciano Gallino del 2007, “Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità’). Il tutto dentro a un processo di trasformazione neoliberale e tecnica della società ben sintetizzato da Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia nel 2001:
- le regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze “con un calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;
- la finanza non è più al servizio dell’intera economia ma solo di sé stessa;
- i sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali, invece del lavoro;
- “le politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;
- “nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese”;
- “la disuguaglianza è stata una scelta politica” (J. Stiglitz, “Le nuove regole dell’economia”, 2016).
Dal lavoro come diritto al lavoro come merce
Dalla fine degli anni ’70 del ‘900 avviene cioè il passaggio da un insieme di politiche economiche e sociali legate all’intervento attivo dello stato per regolare mercati, re-distribuire redditi (politiche keynesiane) e indirizzare le politiche economiche e industriali a fini di sviluppo sociale a politiche (o a non politiche) di puro mercato (appunto il neoliberalismo), finalizzate alla deregolamentazione in particolare dei mercati del lavoro e finanziari e alla privatizzazione dell’economia e di ciò che prima era pubblico/statale. L’idea di “governare” i mercati e l’economia in nome della “utilità sociale” (il “fine”, secondo l’articolo 41 della nostra Costituzione), lascia il posto al dogma neoliberale che ha rovesciato come un calzino lo stato sociale, promettendo maggiore ricchezza per tutti e producendo invece impoverimento per tutti, tranne che per i ricchi sempre più ricchi. Il neoliberalismo si proponeva soprattutto di “liberare” l’impresa dai “lacci e lacciuoli” (diceva Guido Carli) della democrazia, del politico e del sociale; di potenziare l’individuo alla sua massima prestazione/produttività; e di annullare il contratto sociale keynesiano-socialdemocratico dei trenta anni precedenti, de-strutturando/de-socializzando la società (soprattutto indebolendo i corpi intermedi, come i sindacati che avevano permesso di dare invece “dignità” al lavoro), per sostituirla con mercato e competizione tra imprese e soprattutto tra individui attivati a credersi impresa/imprenditori di se stessi, capitale umano e merci – cioè non “persone” ma” fattori di produzione” a flessibilità/produttività crescenti. Il neoliberalismo avendo come obiettivo esplicito (secondo Walter Lippmann che sintetizzava così i “Colloqui” svoltisi a Parigi nel 1938 per la “rifondazione del liberalismo”) quello di “far adattare incessantemente gli individui e le collettività alle “esigenze”, sempre mutevoli, della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro”. E se le imprese “esigevano” di essere più flessibili, gli uomini dovevano “adattarsi”, negandosi come soggetti liberi e autonomi e “piegandosi” a un potere superiore, quello di nuovo del capitalismo.
Quale modello di impresa (e di capitalismo)
E se pochi giorni fa si sono celebrati (in verità molto in sordina, quasi fosse scandaloso farlo) i 50 anni dallo Statuto dei lavoratori – una legge storica per la legittimazione (tra le altre cose) della democrazia e della dignità del lavoro all’interno dei luoghi di lavoro per un lavoro considerato come diritto dell’uomo e non pura merce (la “forza lavoro’) – con il neoliberalismo e le nuove tecnologie l’impresa è tornata ad essere autocratica e monocratica, libera di fare ciò che vuole senza più appunto “lacci e lacciuoli’. Come scriveva un altro neoliberale come Röpke, così definendo il giusto modello di impresa: “L’imprenditore può paragonarsi a un navigatore, il cui compito principale è quello di navigare senza sosta sul mare del mercato (…) Sarà ragionevole, da parte dell’equipaggio, di non accampare richieste di “partecipare alle decisioni” o di “democratizzazione” della guida della nave. La democrazia è qui fuori luogo, come in una sala operatoria” – Röpke dimenticando che l’impresa “non è una sala operatoria’.
Ovvero, era negli obiettivi espliciti del neoliberalismo post-anni ’70 escludere di nuovo la democrazia dalle imprese (dove era faticosamente entrata nei decenni precedenti), flessibilizzare il lavoro e il lavoratore (quindi togliendogli dignità e soggettività), trasformandolo di nuovo in “oggetto” dell’azione del management, da far “adattare” in tutti i modi alle esigenze dell’impresa, del mercato, della competizione diventata globale. Che poi le retoriche e le tecniche di organizzazione del lavoro di questi quarant’anni abbiano chiamato tutto questo “economia della conoscenza”, “lavoro immateriale”, “libera auto-imprenditorialità”, “capitalismo cognitivo”, “capitalismo personale”, “management empatico”, lavoro non più come “prestazione subordinata” ma come “libera collaborazione” con l’impresa, “creatività e autonomia”, “Industria 4.0” – ciò ha riguardato una parte minima del mondo del lavoro mentre è stata piuttosto parte della neolingua neoliberale e tecnica funzionale alle “esigenze” della flessibilizzazione. Che ha fatto sembrare ancora una volta come “nuovo” e “innovativo” ciò che è invece da sempre la “legge ferrea” del tecno-capitalismo: suddividere il lavoro per poi integrarlo meglio e di più in una organizzazione maggiore della semplice somma delle parti precedentemente suddivise; accrescere la produttività e il plusvalore per l’impresa attraverso l’accrescimento del pluslavoro dei lavoratori e l’estensione alle 24 ore dalla giornata lavorativa, eliminando tutti quelli che l’impresa considera “tempi morti” nei “tempi ciclo” predeterminati scientificamente o digitalmente; evitare il conflitto sindacale; realizzare sempre più la forma della “fabbrica integrata’; mascherare l’alienazione di un “collaboratore” che comunque non ha la proprietà né il controllo dei mezzi di produzione e dei prodotti del suo lavoro (perché non basta avere uno smartphone personale per credere di avere la proprietà dei mezzi di produzione e del proprio lavoro, se poi è un algoritmo centralizzato che dà le istruzioni di “cosa si deve fare” e “come” e con quali “tempi ciclo’).
Quarta rivoluzione industriale? No
Ovvero, non siamo nella quarta rivoluzione industriale, aspettando febbrilmente la quinta; ma siamo in una unica e lunga rivoluzione industriale, iniziata a metà del “700 e mai cambiata appunto nella sua “legge ferrea’. Cambia solo il mezzo di connessione, ieri la catena di montaggio, oggi la rete; ieri la fabbrica fisica fordista e oggi la rete come fabbrica fordista integrata globale e virtuale/digitale; e cambia la quantità/qualità di vita umana messa al lavoro/profitto capitalistico: cioè, ieri il lavoro era in gran parte distinto e separato dalla vita, oggi il lavoro è confuso/sovrapposto/integrato alla vita; ieri si metteva a valore la forza-lavoro fisica (stringere bulloni, come in “Tempi moderni” di Chaplin), oggi è la vita intera dell’uomo (corpo, mente, relazioni, informazioni, emozioni,) ad essere diventata forza-lavoro capitalistica. Ovvero, siamo alla sussunzione totale della vita nel sistema di mercato e tecnico (a questo serve il digitale: che non è una discontinuità rispetto a ieri, ma la “prosecuzione del capitalismo con altri modi e forme’). E quindi, l’Industria 4.0 è soprattutto taylorismo digitale e non il “nuovo che avanza’; il capitalismo delle piattaforme è lavoro a cottimo e caporalato (il caso recentissimo di Uber Eats, commissariata dal Tribunale di Milano appunto per caporalato – anche se dovremo aspettare gli sviluppi dell’indagine); lo smart working è il vecchio lavoro a domicilio più il pc; Amazon è il vecchio Postal Market più un algoritmo. E via discorrendo. Un continuo “regresso”, venduto però come “progresso” che “non si può e non si deve fermare”, altrimenti si diventa luddisti, antimoderni, irrazionali.
Il nuovo sempre uguale
Ammettiamolo: davanti a ciò che ci viene offerto come “nuovo” – un prodotto nuovo, una tecnologia nuova, un leader politico nuovo – reagiamo come bambini. Ha scritto Ginevra Bompiani (in “L’altra metà di Dio”, 2019): “La distruzione che nasce dal gioco infantile ha il suo contrappasso o via d’uscita in una pratica che ha qualcosa di magico nell’universo infantile: la “ripetizione’. Come dice Walter Benjamin, niente il bambino ama ed esige di più che “ancora una volta’. Il suo gioco è per natura infinto e comporta un’infinità di interruzioni e variazioni. La formula magica che la designa è: “di nuovo” (…), in un rapporto virtuoso tra ripetizione e “novum’. (…). Il bambino si crea tutto ex novo, ricomincia ancora una volta da capo (…). Il bambino crea ripetendo. Ogni ripetizione è una nuova creazione. (…) [“Di nuovo’] è la formula che trasforma la ripetizione in novità”. Ed è su questo “di nuovo” e sulla “ripetizione apparentemente creatrice che a sua volta diventa gioco” che agiscono appunto l’organizzazione eteronoma/eterodiretta del lavoro di produzione/innovazione, di consumo, di lavoro gratuito di produzione di dati (navigare in rete è gioco, scoperta continua, ripetizione e insieme “di nuovo”, anche se le rotte sono prestabilite da social, motori di ricerca, algoritmi per estrarre dal nostro giocare quanti più dati/informazioni possibili). Una sorta di “eterno ritorno dell’uguale sempre uguale” (produrre, consumare, generare dati), ma offerto/venduto dal sistema tecno-capitalista come “sempre nuovo” (i “nuovi” prodotti, i “nuovi” modi di organizzare il lavoro, l’uberizzazione “che non si può e non si deve fermare’). Ma “di nuovo” non è un “vero nuovo’.
La riprova? Negli anni ’90 del secolo scorso tutti sostenevano che stavamo entrando in una “new era”, in una “new economy” grazie alle “nuove tecnologie” che avrebbero appunto permesso un “nuovo modo di lavorare”, avviandoci verso una crescita economica questa volta (new, ancora) infinita e senza più i “fastidiosi” cicli economici della “vecchia economia industriale’. E tutti ci abbiamo creduto, salvo poi entrare in quella che, prima di covid-19 qualcuno aveva definito “recessione secolare’; arrivare a trasformare di nuovo il lavoro in merce, sempre più low cost e a basso contenuto di conoscenza/creatività; passare per la crisi finanziaria del 2008; produrre un disastro climatico drammatico; eccetera. Max Horkheimer, filosofo della Scuola di Francoforte, ci raccontava tuttavia, già nel 1947, di come i tecnocrati del tempo sostenessero convintamente e fideisticamente che “il progresso tecnologico avrebbe trasformato radicalmente le condizioni dell’esistenza umana e di come la sovrabbondanza di beni prodotti da super-catene di montaggio avrebbe eliminato “automaticamente” la miseria”. Ovvero: gli anni ’90 “di nuovo” come gli anni ’40.
E oggi che le disuguaglianze sono aumentate, qualcuno torna a chiedersi come ridare dignità a un lavoro degradato e generalmente tornato ad essere ripetitivo, standardizzato, eterodiretto (anche se oggi da un “nuovo” algoritmo nella “nuova” fabbrica virtuale/digitale e non più da un “vecchio controllore dei tempi e metodi” nella “vecchia” fabbrica fordista-taylorista).
Tornare ai diritti per andare avanti
Lo ha fatto, recentemente l’economista statunitense Gene Sperling, in passato “economic adviser “di Bill Clinton e Barack Obama. Partendo dagli oltre 30 milioni di senza lavoro degli Usa post-pandemia, Sperling sostiene che occorre focalizzarsi su quella che chiama “dignità economica” delle persone e dei lavoratori (compresi quelli della sanità e della gig/sharing economy, la cui importanza – specie dei primi – proprio la pandemia ha dimostrato non essere minore di quella dei manager e degli informatici), e che è anche il titolo del suo ultimo libro (“Economic Dignity’). In realtà, il concetto e la buona pratica di un “lavoro dignitoso” è principio antico, poi appunto abbandonato dai post-moderni/post-industriali. Marx cercava in fondo di dare dignità al lavoro dei proletari; il liberale William Beveridge sosteneva, negli anni ’40 del “900 che lo stato “deve sempre tutelare” la parte debole del rapporto di lavoro, cioè il lavoratore (mentre il neoliberalismo vuole esattamente il contrario). La Costituzione italiana è tutta volta a dare dignità al lavoro e al lavoratore (art. 1, 2, 3, 4, 21, 31, 32, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 41, 43, 45, 46, 53). A sua volta, nel 1948 la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (dell’uomo, prima che del lavoratore), diceva e dice all’articolo 23 che “ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo ha diritto a uguale retribuzione per uguale lavoro. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza “conforme alla dignità umana” e integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Mentre l’art. 25 recita: Ognuno ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia’.
E poi: l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil – organismo in cui sono rappresentati governi, imprese e sindacati, vincolando tutte e tre le parti al rispetto dei suoi “principi’), la cui Dichiarazione di Filadelfia del 1944 recitava, al primo comma, che “il lavoro non è una merce’. E che il lavoro “deve” essere “decente” e “dignitoso’. Concetto ribadito nel 1999, dal Rapporto “Pour un travail décent’.
Ma la storia ha poi preso appunto una piega diversa. Il “doversi adattare” dell’uomo alle sole esigenze dell’industria (vecchia o nuova che sia) ha bruciato principi e valori legati al lavoro, alla dignità dell’uomo e alla sua libertà. Il lavoro è diventato di nuovo “merce”, indecente e in moltissimi casi indegno di un uomo – ma anche dell’impresa e dell’imprenditorie che lo impone e dello stato che lo legittima o non lo contrasta (e pensiamo di nuovo al caporalato in agricoltura e nella gig economy, ai magazzinieri e ai corrieri di Amazon, alle esternalizzazioni e alle mille forme di precariato e di flessibilizzazione, al lavoro gratuito in rete, ma anche al taylorista digitale dell’Industria 4.0).
Tertium non datur
Per andare avanti recuperando l’idea e le pratiche per un lavoro dignitoso (e magari anche davvero libero, creativo, intellettuale/di conoscenza), occorre questa volta un virtuoso ritorno al passato: non a quello ottocentesco invocato dall’industrialismo e dal post-industrialismo o dal digitale ma a quel virtuoso “tempo dei diritti sociali” che tanta parte ha avuto nel ‘900. È questo il “nuovo” davvero “nuovo” da far avanzare, non quello della uberizzazione del lavoro, dell’Industria 4.0 e della flessibilità. Per questo occorre però abbandonare finalmente l’ideologia neoliberale (e la sua mercificazione del lavoro e della vita intera dell’uomo); uscire da un becero industrialismo/post-industrialismo, sia pure digitale e dalle sue retoriche del “nuovo’; rimettere le “persone” al centro dell’economia. Perché non è l’uomo che “deve adattarsi” alle “esigenze” della rivoluzione industriale, ma è quest’ultima che “deve adattarsi” alle “esigenze e ai diritti” dell’uomo. Punto. Tertium non datur.