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Transizione digitale del lavoro, Italia in ritardo: come ripensare l’intero sistema



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La trasformazione digitale del lavoro coinvolge aspetti tecnologici, sociali, economici e istituzionali. Il punto sulle sfide e le opportunità della transizione digitale, il ruolo delle parti sociali, delle aziende e della Pubblica Amministrazione, l’importanza della normativa e dei piani d’azione istituzionali e la necessità di una nuova intraprendenza istituzionale

Pubblicato il 11 gen 2024

Nicolò Boggian

Founder Whitelibra.com

Danilo Taglietti

Social Researcher @ Università di Napoli Federico II Co-Founder @ tonicadigital.it



Cloud,Computing,Concept.,Software,As,A,Service.,Saas.,Communication,Network.

La transizione digitale, se guardata da una prospettiva che mira all’equità, fa rima con questioni come mobilità sociale, recupero delle aree interne, equilibrio di genere, inclusione e trasparenza, senza peraltro mettere all’angolo produttività ed innovazione.  Ad oggi, però, nonostante le policy europee e gli abbondanti fondi del PNRR, non sembra azzardato sostenere che l’Italia sia in forte ritardo, in particolare su competenze digitali e mercato del lavoro.

Ad esempio, i risultati nell’indice Desi e il basso utilizzo di AI da parte delle aziende italiane possono essere usati anche come indicatori, di grande valenza simbolica, della lentezza che attanaglia non solo PMI e Pubblica Amministrazione, ma l’intera struttura produttiva del Paese.

La transizione digitale del lavoro: definizione e sfide

Cos’è infatti la transizione digitale del lavoro? Dal nostro punto di vista, non è solamente trascorrere le proprie giornate in web-call, utilizzare un software per registrare le richieste di ferie e permessi o pubblicare post aziendali sui social media. Piuttosto, traghettare il lavoro in una dimensione digitale significa far sì che tanto le aziende quanto le Pubbliche Amministrazioni siano al tempo stesso utilizzatori e produttori di tecnologie digitali, riorganizzando il proprio assetto valoriale, umano ed organizzativo in modo tale da poter proficuamente convivere con un ambiente sociale ormai pervaso dal digitale.

Ciò che serve, allora, è una classe dirigente (o, perché no, una classe lavoratrice!) in grado di pensare e sperimentare nuove forme di institution building che siano basate sulle macchine di Turing: quelle che Cosimo Accoto, provocatoriamente, ha recentemente portato nel dibattito italiano come “istituzioni di Turing”[1], ovvero quel processo per cui “non [è] l’istituzione che si fa digitale, ma il digitale che si fa istituzione[2]. Un digitale inteso non come strumento, ma come produttore di linguaggi[3]. Solo così potremo tentare di realizzare una transizione digitale del lavoro che miri all’equità e che sia in grado di costruire il futuro del lavoro sull’integrazione tra il digitale e l’analogico, senza cadere in retrograde o avventate prevaricazioni di uno dei due elementi sull’altro. Ma, in pratica, come si potrebbe fare?

I possibili percorsi per una transizione digitale equa

Pensiamo che due siano le frontiere in grado di incidere significativamente sulla questione:

  • l’integrazione consapevole di algoritmi (tra cui quelli di LLM) nelle scelte organizzative che impattano sulla composizione dei team di lavoro, sulla definizione di obiettivi e budget, sull’acquisto di servizi e sulle scelte di carriera e di (up-/re-)skilling dei lavoratori;
  • la rimodulazione creativa di limiti geografici, temporali e spaziali delle organizzazioni pubbliche e private, nella direzione di una maggiore centralità delle relazioni che connettono persone, strumenti, idee, competenze e possibilità.

Questi due elementi inevitabilmente comportano un ridisegno del sistema di prassi, regole e norme del mercato del lavoro, con un impatto smisurato su interi distretti industriali e filiere produttive, stimolando perfino la riconfigurazione di organizzazioni territoriali, usi e costumi, pratiche di vita, abitudini, rapporti tra aree geografiche e stili di esistenza. L’effetto di questo possibile intervento sarebbe quindi enorme e richiederebbe la concomitante collaborazione di una serie di soggetti e azioni.

Il ruolo delle parti sociali e delle aziende nel processo

Le parti sociali dovrebbero agire su contratti di lavoro e struttura dei settori.

Nuove aziende e una nuova cultura del lavoro, in cui mutano i vincoli di tempo, spazio, ruoli e settore, mal si conciliano con l’attuale rigidità dei contratti nazionali e dei settori produttivi.  È in corso un faticoso processo di aggiustamento, in cui registriamo qualche passo avanti (come, ad esempio, gli addendum ai contratti collettivi), ma anche dei passi indietro (come la chiusura di Confindustria Digitale). Nuovi contratti a tempo indeterminato – più “al passo con i tempi” (con un diverso rapporto tra autonomia e subordinazione) e per un settore trasversale di aziende-piattaforma – possono contribuire a dare forma e solidità alle tendenze emergenti, imperniate su maggiori autonomia, responsabilità, aggiornamento delle competenze e migliori equilibri con la vita privata. Questa nuova struttura del lavoro, a sua volta, faciliterebbe la fluidità dei processi organizzativi, nonché la diffusione di nuove opportunità e di servizi di welfare aziendale, senza dimenticare assistenza e formazione di settore.

Startup e PMI dovrebbero condividere “in condominio” l’HR management ed i dati sul lavoro

Le piccole aziende, specialmente nel settore digitale, non possono sviluppare tecnologia, competere e creare valore su scala globale, se non coordinandosi tra loro e collaborando. Si tratta della riedizione, in chiave 4.0, di quei distretti industriali che hanno fatto la peculiarità e la fortuna del modello italiano di produttività nel secolo scorso. Occorrerebbe allora condividere servizi ed integrare la gestione delle risorse umane, anche con formule collaborative e di co-investimento inedite: dati, competenze e servizi devono poter essere messi in comune. Molti network ed ecosistemi collaborativi sono nati con questo presupposto, ma spesso le sinergie si limitano agli aspetti di comunicazione e di investimento finanziario, senza invece considerare la gestione del personale, delle competenze e delle più ampie ricadute sociali del lavoro.

Le grandi aziende, la PA e la rivisitazione degli appalti

Le grandi aziende e la Pubbliche Amministrazioni sono il principale motore della produzione economica. Che ne siano promotori o late comers, la transizione digitale non potrà che riguardare anche loro, le loro strutture organizzative, le loro filiere produttive. Certo, la rigida piramide gerarchica di funzioni e livelli che oggi ne contraddistingue la gran parte delle strutture organizzative costituisce una forte resistenza al cambiamento. Gli appalti pubblici, l’open innovation e le operazioni straordinarie vengono troppo spesso utilizzati per esternalizzare il processo di trasformazione digitale, mutandolo così in una commodity e sterilizzandone gli effetti di radicale aggiornamento del mindset interno. Gli effetti di questa dinamica, inoltre, condizionano negativamente anche il resto del mercato, alimentando un simbolico disincentivo al cambiamento. Eppure, le grandi organizzazioni pubbliche e private avrebbero tutto l’interesse ad innescare lo sviluppo ed a guidare più vasti ecosistemi digitali, con dinamiche collaborative di filiera e strumenti di programmazione e controllo degli effetti su territori e mercati. La storia economica dell’Emilia-Romagna, terra natìa del modello produttivo distrettuale, potrebbe su questo funzionare da fonte di ispirazione e conforto.

L’importanza della normativa e dei piani azione istituzionali

La grandissima parte delle strutture organizzative, delle normative sul lavoro, dei procedimenti autorizzativi, concorsuali e di appalto delle Istituzioni sono pensati, è fuor di dubbio, per un mondo esclusivamente analogico e, ormai, passato. Questa impostazione genera una domanda di tecnologia che risulta funzionale alla sola semplificazione della burocrazia, senza intaccarne minimamente la vetustà. Si finisce così per drenare le poche risorse disponibili da quegli investimenti tecnologici che, invece, potrebbero fare la differenza nella transizione digitale del lavoro. Il diritto amministrativo, il diritto del lavoro ed il diritto societario andrebbero rivisti, in una prospettiva capace di guardare alla tecnologia digitale con occhio scevro da asti ideologici e da rendite di posizione. Solo così la conseguente azione istituzionale potrebbe generare importanti vantaggi economici, ambientali e sociali.

Ripartire dalle Istituzioni: l’importanza di una nuova intraprendenza

Se questo è il paesaggio in cui ci stiamo muovendo, è chiaro che la trasformazione digitale del mercato del lavoro e delle organizzazioni (pubbliche e private) che in esso operano richieda una svolta creativa ed una apertura verso la novità, annotando i risultati ed apportando modifiche in una logica iterativa. Ovvero, le caratteristiche di ogni processo di costruzione delle istituzioni. La leadership politica, amministrativa, sindacale, imprenditoriale e manageriale ha bisogno di dotarsi di una nuova intraprendenza, caratteristica dei tempi di passaggio, di cambiamento, di mutamento. Il farsi digitale delle istituzioni del lavoro richiede una attitudine alla sperimentazione ed una ampiezza di vedute fuori dall’ordinario: in gioco, infatti, c’è lo straordinario processo di rimescolamento e ricostituzione delle regole che tengono insieme la collettività, che danno un senso al lavorare, che accordano gli interessi e soddisfano i bisogni di tutti gli ingranaggi della macchina sociale. In un certo senso, si tratta di avviare quel “vitam institutere”[4] in cui i linguaggi della filosofia, dell’antropologia e della politica s’incrociano per generare un nuovo orizzonte sociale.

Conclusioni

Sarà possibile ripensare digitalmente un mercato del lavoro in grado di migliorare l’intero sistema organizzativo, con meno ore lavorate, stipendi più alti, più profonde gratificazioni, diffusione continua di competenze e più ampie tutele per le persone?

Di certo, permanere in una organizzazione del lavoro analogica è un costo che non possiamo davvero permetterci, soprattutto quando è chiaro che, oltre a generare meno ricchezza, acuisce anche disparità di genere nell’occupazione e nella genitorialità, disparità generazionali e condizioni di esistenza generalmente meno desiderabili per tutti.

Note


[1] Berg C., Davidson S., Potts, J. (2019), Understanding the Blockchain Economy, Edward Elgar Publishing, number 18636, Summer.

[2] Carnevale Mafflé C. A., (2023), Presentazione, Digital Italy Summit 2023

[3] “Ora se noi interpretiamo il digitale come l’esito di una episteme della perfezione e della certezza, continuiamo a volere un mondo presuntuosamente e astrattamente perfetto; se invece lo consideriamo come è, cioè un produttore di linguaggi nel contempo umanamente (meglio, biologicamente) perfetti e imperfetti, allora – forse – ritroveremo ciò che la poesia ci dice da sempre del nostro stesso linguaggio: quando nominiamo costruiamo mondi nel mondo” (Masiero, 2021)

[4] Esposito R. (2023), Vitam Instituere, Torino Einaudi.

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