l'analisi

Il futuro della produttività, col digitale: trend e scenari possibili

Il processo di trasformazione digitale genera asimmetrie di varia natura in molte sfere socio-economiche. Occorre allora una combinazione tra nuove tecnologie e investimenti in nuovi modelli di business, competenze e skills innovativi. Un’analisi delle dinamiche in corso

Pubblicato il 21 Set 2021

Mauro Lombardi

Università di Firenze, BABEL - Blockchain and Artificial intelligence for Business, Economics and Law

finanza

È umano che di fronte allo scoppio e al prolungato incombere della crisi pandemica si ipotizzi uno scenario dall’esito non del tutto sfavorevole: “andrà tutto bene”.

È troppo umano, per parafrasare Nietzcshe, che in presenza di quattro crisi concomitanti (pandemica, sanitaria, climatica, economica) ci si esalti per una ripresa esaltante, gran parte della quale probabilmente deriva da un invitabile “rimbalzo” dopo il drastico e generalizzato calo del 2020.

Tecnologie digitali sempre più pervasive e persuasive: così influenzano la nostra evoluzione

È parimenti troppo umano che autorevoli studiosi (Brynjolfsson e Petropoulos, 2021) argomentino come si profili uno scenario di un coming productivity boom. Il loro ottimismo è fondato sulla tesi che la maggior parte dei Paesi OCSE hanno superato il punto più basso di una curva della produttività a forma di J, dopo il quale ci sarà un’accelerazioni degli effetti generati dall’adozione di una serie di nuove tecnologie. Alla base di questa tesi c’è un modello microeconomico standard (Brynjolfsson et al. 2021), secondo il quale la diffusione delle cosiddette “tecnologie di portata generale” (General Purpose Technologies, d’ora in poi GPT), comporta inizialmente la sottostima degli effetti in termini di produttività ma, una volta per così dire pienamente “assimilate” dall’apparato produttivo, generano una sovrastima degli stessi (la fase tendenzialmente verticale della curva-J). In sintesi, la ragione di questa forma di “deformazione percettiva”, causata dagli strumenti teorici ed applicativi impiegati dagli studiosi, deriva da un fatto incontrovertibile: le odierne GPT, come altre in passato, non solo sono pervasive e ubiquitarie, ma richiedono anche di essere combinate con investimenti in nuovi modelli di business, competenze e skills innovativi, altri assetti intangibili (software, servizi immateriali, ecc.).

Le tre caratteristiche delle GPT

Tre caratteristiche delle GPT sono alla base della visione dei due economisti:

  • nel decennio passato si è prodotto un poderoso sviluppo dell’intelligenza artificiale in molti importanti domini conoscitivi, tra cui la scoperta e sviluppo di nuove medicine; biofisica e biologia cellulare (proteing folding), la creazione di innovazioni che hanno fatto diminuire il costo di produzione dell’energia solare e di altre rinnovabili. [Aggiungiamo noi che è ancora in atto il pieno sviluppo di materiali e tecniche tali da favorire il risparmio energetico nella produzione, nel consumo e nei trasporti].
  • La pandemia “ha compresso in un anno un decennio” di diffusione del lavoro da remoto, che produrrà cambiamenti nel modo di concepire e svolgere il lavoro, com’è reso evidente dall’emergere della “classe dei nomadi digitali”.
  • L’energica politica monetaria e fiscale, attuata negli USA anche a seguito della pandemia, potrà innescare un circolo virtuoso di questo tipo: a) bassa disoccupazione, b) aumento dei salari, c) domanda crescente di beni e servizi, quindi incentivi alle imprese per utilizzare adeguatamente le potenzialità insite nelle nuove tecnologie.

L’analisi di Brynjolfsson e Petropoulos, nonchè quella di Brynjolfsson et al. (2017), è riferita agli Stati Uniti, ma è prevedibile che trovi sostenitori entusiasti anche in Europa in persone ansiose di uscire da un’era dominata da quattro crisi. Ciò è reso ancor più probabile se si pensa che un famoso economista, Robert Gordon, autore nel 2016 di un libro incline al pessimismo sul futuro dell’economia americana, agli inizi di quest’anno ha espresso opinioni non dissimili da quelle di Brynjolfsson e Petropoulos. In un’intervista[1] alla UCLA Anderson School of Management del Febbraio 2021, Gordon ha sviluppato questa argomentazione. Il secolo scorso si può dividere in due periodi: nel primo, dal 1920 al 1970, la produttività è cresciuta negli USA del 3% l’anno in media; nel secondo, dal 1970 ad oggi, dell’1,4% mentre la decade attuale l’aumento medio è stato dello 0,7%. Nell’intervista in questione Gordon pone però l’accento su due fattori, che ridimensionano la prospettiva pessimista, di cui è pervaso il libro del 2016:

  • nel secondo periodo si possono distinguere due sotto-periodi: dal 1995 al 2005 (il celebre dot.com boom) la produttività è aumentata tra il 2,5% e il 3%, mentre negli ultimi 15 anni, contraddistinti dalla diffusione degli smartphone e dei social network è aumentato molto “il surplus del consumatore”, cioè l’ammontare di opportunità e di vantaggi per quest’ultimo, ma non si è sviluppata e diffusa un cultura manageriale idonea a trasformare le nuove potenzialità di consumo in opportunità di business e quindi di aumento della produttività.
  • Nel frattempo è accaduto un fenomeno importante: è cambiata la composizione della forza lavoro, che lavora da remoto ed ha salari più alti, mentre è diminuita soprattutto l’occupazione nei lavori a bassi salari (9,4 milioni in meno nel Dicembre rispetto al Febbraio 2020). “È davvero possibile che la transizione al working home –senza considerare il resto dell’economia- produca un brusco salto nella crescita annuale della produttività. Nella prossima decade mi aspetto una crescita significativamente più alta di quella dei dieci anni scorsi, anche se non forse ai livelli del 1995-2005.”

Richiesto poi di indicazioni di policy per accelerare la crescita, Gordon è determinato:

  • nuove strategie formative dall’età pre-scolare al fine di superare asimmetrie socio-economiche.
  • Valorizzare i “cervelli” al “bottom 20%” della popolazione, ancora esclusa dei benefici potenziali dell’apparato tecnico-scientifico e produttivo; aprire per un’immigrazione più consistente di quella attuale.

Tutto bene, dunque, e speriamo in decisioni politiche pienamente consapevoli della portata delle scelte da effettuare?

Cerchiamo di mettere in evidenza aspetti non considerati dagli autori citati.

Un quadro più ampio in cui inserire l’evoluzione possibile della produttività

Per valutare i temi sottolineati da economisti con un approccio decisamente mainstream, occorre chiedersi se il quadro tracciato sia esauriente e di aspetti importanti, per cui la trasformazione digitale non sembra aver dato finora i frutti sperati, ma siamo sul punto di raccoglierli. Il fatto che le analisi finora riportate riguardino gli Usa e non l’Europa non deve trarre in inganno: vedremo tra poco qualcosa che interessa da vicino tutte le economie OECD.

Continuiamo la riflessione da un’altra prospettiva, esaminando alcune caratteristiche del processo di digitalizzazione, la cui esplicitazione può essere molto utile per una migliore comprensione del problema della insufficiente produttività, che accomuna in varia misura tuti i Paesi OCSE, come si evince dalla Figura 1.

Fig.1 Il rallentamento della produttività in quasi tutti i Paesi OECD (OECD; 2019a)

Sono stati indicati “sette vettori (o ‘proprietà’) della trasformazione digitale” (OECD, 2019b)[2]:

  • scale without mass. Ciò significa che la combinazione di rappresentazione digitale di beni e servizi, internet e sistemi di software con costi marginali tendenzialmente zero[3], può consentire di ottenere effetti di scala senza la necessità di rilevanti dotazioni di asset fisici, personale e dislocazione geografica.
  • Panoramic scope, espressione che sintetizza la natura combinatoriale degli output, che possono svolgere una molteplicità di funzioni e hanno peculiarità variabili, ottenute mediante variazioni del software, per cui la varietà di utilizzazione può essere intersettoriale, multi-prodotto, multi-funzionale.
  • Accelerazione temporale dei processi fisici e decisionali, sulla base dell’evoluzione incessante delle competenze.
  • Prevalenti fonti del valore divengono gli asset intangibili (software, dati, piattaforme), ma ci permettiamo di aggiungere che non si può trascurare del tutto l’evoluzione incessante dell’infrastruttura fisica.
  • Trasformazione dello spazio, in quanto software dati e risorse computazionali non sono legate a un determinato territorio oppure a una comunità e a una collocazione geografica specifica.
  • Empowerment of the Edge, nel senso che l’intelligenza della rete non è più centralizzata, ma distribuita e presente anche nella periferia.
  • Piattaforme ed ecosistemi sono ambiti cruciali di interazione, scambi informativi, integrazione conoscitiva.

Soffermiamoci su alcuni di questi punti per precisare alcuni aspetti non secondari ai fini della questione posta all’inizio. Per quanto riguarda il primo vettore, la conferma viene dai vertiginosi successi di WhatsApp, Spotify, Netflix, e dalle enormi scale without mass dei global leaders, come è evidente nella Tab. 1

Tab. 1 Classifica delle Imprese operanti su Internet in base alle valutazioni di mercato.  Fonte: OECD, 2019b.

È evidente che la dinamica tecnico-scientifica e l’evoluzione delle strutture interattive, basate sulla raccolta e l’elaborazione di flussi informativi globali, ha portato alla formazione di global leader, veri e propri giganti tecnologici con modelli di business strettamente connessi alle peculiarità della trasformazione digitale (vettori 1, 2, 3, 4, 5, 7). Siamo quindi in presenza di giganti tecno-economici (Techno-Giants) con scarso Empowerment of the Edge, dal momento che il controllo degli asset intangibili tende ad essere centralizzato e grande è il divario tra i leader globali e “il resto”. Ciò conferma che “some degree of market power might be both inevitable and sometimes even necessary. Markets rarely correspond to the theoretical textbook case of perfect competition where prices equalise to firms’ marginal costs and no market power exists” (OECD, 2019b: 10). Il vettore 6 non agisce nel senso ipotizzato e la comunicazione “many-to-many” coesiste e alimenta, invece di sostituire o ridurre, quella “From-one-to-many”, grazie a meccanismi descritti in precedenti contributi su Agenda Digitale.

Quanto appena illustrato porta a mettere in luce un dato importante: la trasformazione digitale non sta solo riproducendo il famoso “paradosso di Solow[4], secondo cui la computer age non emerge facilmente nelle analisi statistiche, come hanno ripreso successivamente sia Acemoglu et al. (2014) che Brynjolfsson et al. (2017).

Sarebbe però il caso di chiedersi se, soffermandosi solo sul paradosso e incentrando l’analisi sul potenziale teorico di crescita della produttività, non si finisce per trascurare aspetti fondamentali della dinamica tecnico-economica, messi ben in evidenza da altri studi.

I pattern emergenti dalle rappresentazioni aggregate fanno correre il rischio di oscurare le profonde asimmetrie tra imprese e settori che la trasformazione digitale genera. Lo studio OECD (2019c) mostra come vi sia un ampio e crescente gap tra un ristretto gruppo di imprese “di frontiera”, altamente digitalizzate, e le altre definite “ritardatarie” (laggard), come si vede dalla Fig. 2

Fig. 2 Ampia “Dispersione” della produttività tra imprese, specie nei settori a più alta intensità digitale

Fonte: OECD, 2019c, Fig.1

Queste elaborazioni inducono studiosi dell’OECD e accademici a individuare una sequenza di effetti tendenziali: ampia quota di imprese con bassa produttività, dispersione e bassa crescita salariale, emergere di imprese “superstars” (OECD, 2019a; OECD, 2018a; Autor et al., 2017).

In uno scenario con queste caratteristiche è alto il rischio di concentrazione del mercato (OECD, 2018d), quindi di riduzione della competizione e del dinamismo, insieme al contenimento della produttività e all’introduzione di barriere all’entrata (OECD, 2018b).

Le stime, effettuate grazie a database internazionali, mettono in luce che le forti differenziazioni sono presenti anche tra Paesi e tra gran parte sei settori economico-produttivi (OECD, 2019c, Figg. 2 e 3, pagg. 8-11).

Occorre pertanto essere consapevoli che il processo di trasformazione digitale (TD) mostra ovunque una dinamica fortemente irregolare e genera asimmetrie di varia natura in molte sfere socio-economiche. È allora opportuno approfondire l’analisi per individuare fattori e meccanismi che favoriscono quanto finora descritto.

Fattori e meccanismi generatori di rallentamento della produttività

È innanzitutto opportuno rilevare, come hanno accennato anche Brynjolfsson e Petropoulos, che la TD è intrinsecamente complessa, dato l’elevato numero di componenti coinvolte e alla luce delle interazioni non semplici tra di esse: si pensi alla complementarità tra numerose tipologie di competenze, di cui è necessario dotarsi e la cui incessante evoluzione crea sequenze variabili di scelte da effettuare. Il quadro è poi reso ulteriormente complicato dalle molteplici serie di eventi che possono verificarsi in un mondo turbolento come quello odierno.

È quindi condivisibile l’affermazione che “This overall puzzling picture reflects the fact that links between adoption of digital technology and productivity are complex and their empirical identification challenging” (OECD; 2019c: 10).

La realizzazione della TD a tutti i livelli (società, impresa, individui) è quindi al tempo stesso la “spina dorsale” dell’economia digitale e l’inevitabile fonte di gap diffusi e crescenti tra imprese altamente produttive e altre meno produttive (OECD, 2018c[5]). L’approccio “disaggregato” mette in luce il ruolo decisivo di due fattori:

  • la complementarità tra diffusione delle innovazioni e le conoscenze degli operatori nelle imprese.
  • Gli incentivi alle stesse imprese per l’adozione delle nuove tecnologie nel contesto della competizione, soprattutto per quanto riguarda le pressioni competitive. Sono a questo proposito essenziali le politiche pubbliche e gli spazi effettivamente aperti per competere dall’assenza di barriere all’entrata.

Tralasciamo le prime, che saranno discusse in un altro contributo, per soffermarci sui secondi. Soffermiamoci sulle imprese “ritardatarie”, grazie alle informazioni contenute in OECD (2020) e Berlingieri et al. (2017). Le indagini in questione sono molto ampie e approfondite, ma enucleiamo solo aspetti rilevanti ai fini del presente contributo. Dal dettagliato identikit, ivi tracciato, estraiamo innanzitutto l’informazione, ricavata su aziende di 13 Paesi, che le “ritardatarie” -il 40% dell’insieme delle unità raggruppate in base alla distribuzione della produttività-[6] sono tra loro molto eterogenee e, contrariamente a quanto c si potrebbe aspettare, molto dinamiche, ma interessate da un processo selettivo (entrate/uscite) piuttosto marcato. Esse sono inoltre “più piccole, più giovani” e i loro processi di “rincorsa” (catch-up) verso la frontiera sono ostacolati dalla debole diffusione delle nuove conoscenze, dalla crescente concentrazione del mercato, dal declino del dinamismo dello stesso mercato e dalla progressiva diminuzione della quota di ricchezza nazionale destinata al lavoro (si veda in particolare Akcigit e Ates, 2019). È doveroso precisare che l’analisi si riferisce a contesti nazionali, in primis quello USA, ma è illuminante il fatto che le caratteristiche indicate accomunino tutti i Paesi analizzati.

Comunque sia, dall’analisi svolta finora emergono –tra gli altri- determinati, rilevanti aspetti, su cui concentrare l’attenzione per cercare di comprendere l’evoluzione passata e le prospettive future della produttività.

Il primo punto su cui riflettere è il seguente: esiste una elevata eterogeneità delle imprese, per cui effettuare estrapolazioni basandosi su assunzioni del tipo “agente rappresentativo”, come è d’uso nei lavori mainstream, può essere fuorviante.

Il secondo aspetto da mettere in evidenza è che negli ultimi decenni si è consolidata una profonda asimmetria -a partire dal mondo del web, ma estesa a quasi tutti i mercati grazie alle tecnologie dell’informazione- tra un ristretto numero di global player e un numero elevato di imprese “fluttuanti”. Vengono così alla luce due meccanismi che ostacolano la dinamica produttiva: la concentrazione di mercato e la dispersione retributiva.

La riduzione degli spazi competitivi riduce la propensione competitiva delle aziende e favorisce la minore produttività media, perché il potenziale insito nelle nuove tecnologie non è adeguatamente valorizzato da una vasta platea di entità, che incontrano barriere. In questa prospettiva le costruzioni analitiche incentrate su pattern aggregati di produttività non possono evitare una distorsione percettiva, derivante da elaborazioni statistico-econometriche incentrate su un trend stimato prescindendo dall’esistenza di estremi opposti, che sono di fatto obliterati. Al tempo stesso, la perdurante dispersione salariale non è coerente con il circolo virtuoso di Brynjolfsson e Petropoulos, esposto all’inizio.

Di conseguenza, l’indubbia esistenza di un potenziale non valorizzato induce aspettative di “ascese ardite”, ma la considerazione dei processi e l’analisi di fattori e meccanismi esistenti potrebbero indurre a una maggiore prudenza nell’ipotizzare spontanei processi liberatori del suddetto potenziale.

Conclusioni

Le riflessioni svolte portano a porre due interrogativi di fondo:

  • è il vettore “Scale without Mass” (primo vettore della TD) compatibile con un’economia competitiva?
  • Come rendere reale l’Empowerment of the Edges (sesto vettore) agendo sui meccanismi che generano dinamiche auto-organizzate di verticalizzazione a livello globale?[7]

Prendendo a prestito da La Storia Infinita di Michael Ende, pare opportuno affermare che “questa è un’altra storia, e si dovrà raccontare un’altra volta”.

Bibliografia

Acemoglu D. et al., 2014, Return of the Solow Paradox? IT, Productivity, and Employment in US Manufacturing, American Economic Review, 104 (5): 394–99, doi:10.1257/aer.104.5.394.

Akcigit U., Ates S. T. , 2019, What Happened to U.S. Business Dynamism?, NBER Working Papers No. 25756, National Bureau of Economic Research, Inc

Autor D. et al., 2017, The Fall of the Labor Share and the Rise of Superstar Firms, NBER Working Papers, No. 23396, http://www.nber.org/papers/w23396.pdf

Berlingieri G. et al., 2017, The Great Divergence(s)”, OECD Science, Technology and Industry Policy Papers No. 39, OECD Publishing, Paris, DOI: https://doi.org/10. 1787/953f3853-en.

Brynjolfsson E., Petropoulos G., 2021, The coming productivity boom, Mit Technology Review, 10 June.

Brynjolfsson E. et al., 2017, Artificial Intelligence and the Modern Productivity Paradox: A Clash of Expectations and Statistics, NBER Working Paper 24001, http://dx.doi.org/10.3386/w24001.

OECD (Andrews et al.), 2016, The Best versus The Rest: The Global Productivity Slowdown, Divergences Across Firms and The Role of Public Policy, OECD Productivity Working Papers, No 06.

OECD, (Schwellnus C. et al.), 2018a, Labour share developments over the past two decades: The role of technological progress, globalisation and “winner-takes-most” dynamics, OECD Economics Department Working Papers, No. 1503, http://dx.doi.org/10.1787/3eb9f9ed-en.

OECD (Calligaris S. et al.), 2018b, Mark-ups in the digital era, OECD Science, Technology and Industry Working Papers, No. 2018/10, http://dx.doi.org/10.1787/4efe2d25-en.

OECD (Andrews D. et al.), 2018c, Digital technology diffusion: A matter of capabilities, incentives or both?, OECD Economics Department Working Papers No. 1476.

OECD (S. Sorbe et al.), 2019a, Digital dividend: Policies to harness the productivity potential of digital technologies, Economic Policy Paper n. 26, February.

OECD, 2019b, Vectors of Digital Transformation, Digital Economy Working Paper No 273.

OECD, 2019c, Digitalization and productivity: In search of the holy grail – Firm-level empirical evidence from EU countries, Economics Department Working Paper No. 1533.

OECD (Bajgar M. et al., 2019d, Industry Concentration in Europe and North America, OECD Productivity Working Paper No 18.

OECD, 2020, Laggard firms, technology diffusion, and its structural and policy determinants, OECD Science, technology and industry Working Papers No. 86.

Solow R.M., 1987. We’d better watch out, New York Times Book Review, July 12): 36.

Solow R.M., 2016, The Rise and Fall of American Productivity.

  1. https://www.anderson.ucla.edu/centers/ucla-anderson-forecast/forecast-direct
  2. Nel working paper dell’OECD si analizzano come questi vettori (o proprietà) influenzano la progettazione e l’efficacia delle politiche pubbliche.
  3. Forse non è del tutto vero se si pensa ai costi “mantenimento” (aggiornamento, cyber-protezione, ecc.), ma comunque essi non sono commisurabili a quelli di progettazione e implementazione.
  4. Si tratta del “paradosso della produttività”, che deriva da quanto scrisse Robert Solow sul New York Times (1987): “You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics.”
  5. Lo studio si basa su un dataset di 25 industrie in 25 Paesi, con un’analisi dell’andamento della produttività nell’arco di due decadi.
  6. In OECD (2019a: 10) si stima che le “ritardatarie” siano il 50%.
  7. Si pensi a Facebook, che nasce da un’iniziativa individuale di hackeraggio “bonario” e progressivamente diviene un Techno-Giant globale.

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