Quante cose si imparano dal responso ambiguo dato dall’Oversight Board sul caso del ban di Donald Trump, ex presidente USA, su Facebook.
Se la terzietà ed imparzialità dell’Oversight Board erano requisiti già in dubbio ab origine, oggi da secondo grado assurge a terzo grado di giudizio, un po’ come nel nostro processo civile la Cassazione “cassa con rinvio” ai sensi dell’art. 383 c. 3 del codice di procedura civile, dunque ritiene ammissibile la domanda di ricorso e rimette la palla al giudice di prime cure.
Nel caso Trump niente poco di meno che a Facebook stessa.
La decisione su Trump
Come si è espressa esattamente nel caso Trump?
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L’Oversight Board ha ritenuto corretta la decisione di Facebook nella parte in cui ha bloccato l’account nell’immediato, contestualmente ai disordini di Capital Hill, tuttavia questa decisione non poteva rimanere sospesa con data da definirsi e di certo ha violato i termini e condizioni della piattaforma, che devono valere per tutti. Infatti, ricordiamo che Facebook, nel caso Trump, non ha disabilitato in maniera permanente l’account, ma ha provveduto ad imporre un periodo di “sospensione” che per antonomasia deve essere limitata nel tempo, ma nel caso di che trattasi è rimasta indefinita.
Sulla scorta di questa violazione nell’applicazione dei propri terms, l’Oversight Board rinvia la decisione a Facebook medesima per rivalutarla entro 6 mesi.
Ruolo dei social e assenza di mirata regolamentazione
Nonostante questa decisione sia perfettamente ragionevole e nonostante l’Oversight Board abbia correttamente dichiarato la disparità di trattamento, non possiamo esimerci dal considerare – ci piaccia o no Trump – che sei mesi non sono pochi per un politico che vuole tornare in gioco, e che l’assenza sul principale social potrebbe farlo dimenticare anche ai più incalliti seguaci. Da qui può ravvisarsi il mutamento repentino degli equilibri democratici per mano delle gatekeeper.
L’altro elemento che non può essere trascurato è che l’Oversight Board ha potere decisionale. Infatti, così come può riattivare, e lo ha fatto (si vedano i casi già trattati) i contenuti dei comuni utenti illegittimamente rimossi dall’algoritmo di Facebook, avrebbe ben potuto riabilitare l’account di Trump.
Questi aspetti procedurali (diremmo, meglio, giochetti) tra Facebook e l’Oversight Board dicono tanto – anzi tutto – sul ruolo delle piattaforme che ormai si appalesano legislatori di sé stesse. Si autoregolamentano e si autogiudicano, perché dobbiamo tenere a mente che questo organo può essere considerato una facciata di Facebook, del tutto autorefenziale, con il preciso intento di legittimare le proprie azioni e screditarle quanto basta. Ciò in quanto è ormai noto come questa “Corte Suprema” sia una mera ramificazione del social network, finanziato da quest’ultimo, seppur indirettamente, tramite una fondazione istituita ad hoc per amministrare l’ente.
Il problema di fondo
In definitiva, oltre ad emergere ancor più lampante l’ingiustizia di una decisione improvvisa, senza spiegazione, con scarsissime possibilità di contraddittorio e con tempi lunghissimi di revisione, emerge altresì il ruolo definitivamente ribaltato dei social. Non possiamo più permetterci di considerarli community in quanto le regole interne non bastano (e qualcuno dice già che si comportano come Stati, ndr.).
Sebbene non possano rientrare nella categoria formale dei media, nella sostanza abbisognano delle stesse regole, che esulino da loro stesse e che vengano imposte in maniera democratica con il fine di salvaguardare il diritto di espressione e di informazione (nel rispetto dei principi fondamentali dell’uomo) tanto necessario a garantire la pluralità, soprattutto sotto il fronte politico.
Troviamo conforto nel nuovo disegno della Commissione Europea, il Digital Services Act (DSA), già al vaglio del Parlamento Europeo, con la speranza che i tempi di approvazione non rendano obsoleto lo sforzo del legislatore europeo nel dirimere queste le dinamiche digitali fuori controllo.
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