Il lavoro dietro ai click

Tutte le disuguaglianze della platform economy: il caso Urban Company



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Nella platform economy la commistione di tecnologia e rapporto giuridico inedito consente alle compagnie di parcellizzare la forza lavoro, ostacolando le proteste e demonizzando attiviste coraggiose. In India, Urban Company è al centro di proteste da parte delle lavoratrici che contestano pratiche aziendali ingiuste e condizioni di lavoro precarie

Pubblicato il 7 nov 2023

Lilia Giugni

Lecturer in Social Innovation & Strategy, Business School, University of Bristol CEO, GenPol – Gender & Policy Insights Research Associate, Cambridge Centre for Social Innovation, University of Cambridge



urban company

Dietro a tutti i prodotti e a tutti i servizi che ormai ci viene naturale acquistare con un click, si celano forme vecchie e nuove di lavoro, di solito poco regolamentate e ancor meno tutelate.

In India, tanto per farci un’idea, esistevano nel 2020 circa 15 milioni di “platform worker”, impiegati perlopiù da piattaforme specializzate in servizi di cura, tra cui Urban Company, e da app di consegne alimentari come Zomato e Swiggy.

Vediamo in che modo l’economia di piattaforma si interseca con le disuguaglianze di genere e di classe, con quelle basate sull’età, la razza, e l’identità culturale.

La protesta delle “estetiste a domicilio” indiane

In una notte del dicembre 2021, svariate decine di donne si ammassavano fuori ai cancelli di un edificio di Ghaziabad, nello stato indiano di Uttar Pradesh. Faceva freddo, e le donne, sedute a gambe incrociate, mascherine anti-COVID ben fissate sotto a sari, cappelli o foulard, si stringevano addosso cappotti e trapunte di pile. A intervalli regolari, battevano le mani e urlavano slogan contro una startup chiamata Urban Company, i cui uffici avevano sede aldilà di quei cancelli.

Lanciata nel 2014, Urban Company si definisce con orgoglio “la più grande piattaforma asiatica di sevizi a domicilio”, e opera in oltre 50 città tra India, Australia, Singapore, Emirati Arabi, e Arabia Saudita. Tramite la propria tecnologia software (non dissimile da quella di Uber), mette in contatto una vasta clientela con offerenti delle prestazioni più varie, da cuoche a estetiste, da massaggiatori a idraulici. Parlo di “estetiste” – al femminile – e di “idraulici” – al maschile – per la semplice ragione che gli studi sulla “platform economy” parlano chiaro: a seconda del tipo di servizio fornito, cambia anche la composizione di genere della forza lavoro, in India e nel resto del mondo.

E difatti le donne che protestavano in quella notte di dicembre erano tutte estetiste. Una di loro, la trentacinquenne Seema Singh, aveva una figlia che proprio quel giorno compiva quattro anni. “Avrei voluto essere con lei anziché starmene qui seduta al freddo, a contestare ingiuste pratiche aziendali”. Ha dichiarato il mattino dopo alla stampa. Ma ha anche spiegato di non aver avuto altra scelta.

Qualche mese prima, Seema aveva iniziato a incontrarsi in parchi pubblici con alcune colleghe – termine che Urban Company troverebbe presumibilmente inappropriato, dato che, invece di trattare i prestatori d’opera attivi sulla sua piattaforma come una “forza lavoro” con diritti individuali e collettivi, li definisce “partner indipendenti”, a cui sostiene di voler concedere “potere e autonomia”. Peccato che le ultime misure adottate dai vertici societari raccontino una storia un po’ diversa.

Le rivendicazioni delle lavoratrici di Urban Company

Innanzitutto, non essendo previsto un tetto massimo per la commissione che Urban Company trattiene su ogni transazione, a partire dal 2020 estetiste come Seema hanno notato un forte aumento della cifra che la piattaforma decurta automaticamente dai loro introiti. Sempre in quel periodo, la compagnia ha iniziato inoltre ad affibbiare loro una penale per la cancellazione di ogni appuntamento, e a pretendere che ricevessero recensioni positive dalle clienti, pena l’esclusione dal sito.

Già nell’ottobre di quello stesso anno, Seema e le sue compagne si erano perciò ritrovate in più di cento a gridare le proprie rimostranze fuori alla sede dell’impresa, dando vita al primo sciopero di lavoratrici di piattaforma della storia indiana. Supportate da un nascente sindacato di “gig worker”, avevano rivendicato diritti quali un meccanismo di gestione dei reclami interni, guadagni dignitosi, e una maggiore attenzione alla loro sicurezza. La manifestazione aveva fatto molto rumore, e Urban Company era parsa inizialmente disponibile ad accogliere le loro richieste.

Le ritorsioni dell’azienda

Di lì a qualche settimana, però, le lavoratrici si erano viste imporre un nuovo sistema di prenotazione, che assegnava meccanicamente turni poco redditizi a chi di loro aveva un rating meno lusinghiero. E anche per le estetiste che ottenevano recensioni entusiastiche era in serbo una sorpresa spiacevole: inserite in una categoria detta “plus”, venivano costrette a offrire un’“esperienza top”, vale a dire degli sconti obbligatori. Pare, inoltre, che la piattaforma le costringesse a versare un cospicuo anticipo all’inizio di ogni mese, in cambio di futuri “ricavi garantiti”: chi si fosse rifiutata avrebbe avuto la possibilità di lavorare solo in alcuni giorni della settimana.

A quel punto, sentendosi messe con le spalle al muro, Seema e le altre sono tornate a manifestare. Ma quando si sono presentate di fronte agli uffici di Urban Company, è stato consegnato loro un atto di citazione in giudizio – la società definiva la loro protesta “illegale”, e le diffidava dal compiere qualunque altro atto dimostrativo. Per la precisione, il documento accusava Seema e altre organizzatrici di “sabotare il rapporto di collaborazione [tra l’azienda e le sue partner] al fine di perseguire i propri interessi individuali”, nonché di “incitare altre donne alla violenza”.

Seema e le sue colleghe non si sono lasciate intimorire, e hanno proseguito la loro dimostrazione per tutta la notte. Malgrado ci fossero, tra loro, delle donne in stato di gravidanza, non sembrano aver avuto il permesso di utilizzare il bagno aziendale.

L’economia di piattaforma e il lavoro femminile

In Italia, volendo azzardare un paragone, ben il 22 percento della popolazione adulta ha già riscosso dei guadagni tramite una piattaforma digitale. E il relativo giro d’affari è davvero ragguardevole. Nel 2019, uno studio di Mastercard stimava che l’“economia di piattaforma”) generasse suppergiù 200 miliardi di dollari su scala globale. Svariate ricerche prevedono un’ulteriore espansione negli anni avvenire.

La dicitura “economia di piattaforma” è, ovviamente, piuttosto vaga, e si presta ad ambiti e rapporti di lavoro differenti. Questi vari settori esibiscono, tuttavia, almeno una caratteristica in comune: il peso della dimensione di genere nelle esperienze delle lavoratrici. Da un lato abbiamo, infatti, minoranze di donne che operano in nuovi mercati a forte predominanza maschile: vedi le autiste delle driving app alla Uber. Parte del problema è che le corse e le consegne meglio retribuite da queste compagnie sono spesso nelle ore notturne, cosa che pone le donne di fronte a scelta impossibili. Alcune si costringono a guidare di notte nonostante il timore di subire aggressioni. Altre vi rinunciano, e in paesi come Australia e Stati Uniti questo contribuisce a determinare un netto gap salariale di genere all’interno della forza lavoro driver.

Altre lavoratrici di piattaforma di cui si parla molto (ma senza necessariamente cogliere le ingiustizie di genere di cui sono oggetto) sono le fattorine o “rider”. E uno dei motivi per cui se ne parla è che tante di queste donne, in svariate parti del pianeta, sono al momento intente a rivendicare diritti e salvaguardie che mai, nel ventunesimo secolo, una persona che lavora dovrebbe vedersi negare: a cominciare dall’accesso a una toilette.

“Non ci sono servizi igienici per noi, e non ho mai neppure osato chiedere ai ristoranti [di cui consegno il cibo] di usare il loro bagno. Ho sempre avuto troppa paura”. Ha raccontato Anita (nome di fantasia), una rider di Mumbai che consegna pasti per la app Zomato. E – parola delle sempre più numerose sindacaliste di piattaforma – anche qui le donne se la passano peggio di tutti, visto che molte di loro non se la sentono di urinare in pubblico. A dire di Rinku Sharma, fattorina per una piattaforma di nome Ola e vicepresidente di una emergente associazione di rider indiani, “tante donne si sforzano di trattenere la pipì, a volte per 10-12 ore”. E se una ha subito un cesareo o altra operazione chirurgica, può avere difficoltà a trattenersi tanto a lungo, e sviluppare problemi fisici. Altre testimonianze parlano di bottiglie di urina portate in giro per tutta la giornata, e di donne che pur di non trovarsi in stato di bisogno preferiscono non bere per ore e ore.

Ciò detto, se dalle bistrattatissime autiste e rider ci spostiamo, invece, in strati fortemente femminilizzati dell’economia di piattaforma, facciamo presto ad accorgerci che anche lì le donne non se la passano necessariamente meglio. Un esempio paradigmatico ce lo offrono le app adibite alla prenotazione di pulizie occasionali di uffici e appartamenti, divenute piuttosto comuni in vari continenti. Come forse indovinerete, ad offrire i propri servizi su questi dispositivi sono soprattutto donne (basti dire che uno dei più famosi si chiama MaidsApp: in italiano, “App Cameriere”). E, altrettanto prevedibilmente, le lavoratrici che se ne servono chiedono da tempo maggiori protezioni, e principalmente di ricevere in anticipo informazioni sui futuri clienti. Provateci voi a recarvi detersivo alla mano a casa di sconosciuti, in una zona isolata, senza avere idea di chi vi troverete davanti. 

In altri casi, viceversa, a spingere le donne a rinunciare ad una prestazione pagata non è la paura, ma le bassissime remunerazioni che si percepiscono su questa o quella app. “Non posso accettare nessun lavoro che mi costi più di 20 rand [l’equivalente di circa di un euro] in spese di trasporto”. Ha confidato alla no-profit Rest of the World una donna sudafricana di nome Nomagugu Sibanda, che di mestiere fa la cameriera e la babysitter” su una piattaforma chiamata SmartMaid. “Quando qualcuno mi prenota, devo guardare con attenzione sulla mappa prima di accettare la richiesta”.

Tutte le disuguaglianze della platform economy

Ci sono, inoltre, situazioni in cui le disuguaglianze di genere e di classe si intrecciano con quelle basate sull’età, la razza, e l’identità culturale. E anche in questo caso esempi molto indicativi ci vengono dal sud dell’Asia e dal nord America, e specificamente dal settore della cura. In entrambe le regioni, infatti, il boom delle app di servizi casalinghi ha messo in difficoltà le donne più anziane e quelle prive di accesso a Internet, che hanno poca dimestichezza con gli smartphone, o magari non riescono a collegarsi alla rete.

Dal canto loro, le prestatrici di cura appartenenti a minoranze etniche si muovono su un terreno particolarmente scivoloso. In primis, tante app le obbligano a curare profili con tanto di fotografie e dettagli personali, simili a quelli dei social media.  E questo, a parte costar loro tempo e fatica, contribuisce a costruire una narrazione stereotipata secondo cui sono le donne nere, o latinas, o di una certa casta indiana, a doversi sobbarcare più di altre pulizie, baby-sitting, e altre incombenze casalinghe. In più, proprio perché il lavoro di cura è abitualmente svolto da donne (e da donne con uno speciale profilo demografico) tende anche ad essere mal ricompensato. E le “care platform” non solo si guardano bene dall’invertire questo trend, ma, con le loro gallerie di foto e il loro marketing digitale, rafforzano le associazioni mentali razziste già esistenti.

Ove mai vi faceste ancora qualche illusione, devo infine informarvi che nemmeno chi eroga in remoto servizi professionali come le traduzioni, l’editing o il counselling è al riparo da sfruttamento e soprusi. Prima di passare oltre, vi cito un caso su tutti: l’ambigua industria della terapia online, capitanata da “marketplace digitali” come BetterHelp e Talkspace. “Ho deciso di non usare [Talkspace] perché pagano pochissimo gli psicologi”. Ha detto alla rivista Salon una psicoterapeuta familiare di nome Katie Ziskind, che aveva provato ad adoperare la app per arrotondare. “Questi sistemi svalutano il salario e il valore professionale di una terapista, pagando tariffe orarie bassissime”.

Ora, è chiaro che una professionista della salute mentale può considerarsi relativamente privilegiata rispetto a una fattorina o a una driver. Ma è vero, altresì, che donne come Katie devono comunque fare i conti con gli svantaggi più classici del rapporto di lavoro “di piattaforma”, quali mancata copertura di ferie, maternità, e malattie. Perdipiù, oltre a vedersi prospettare guadagni irrisori, sono dolorosamente consapevoli delle scarse garanzie offerte anche ai loro pazienti, e della semi-impossibilità di interagire con colleghi e colleghe per organizzarsi insieme contro lo sfruttamento.

Il lato oscuro della flessibilità

E proprio qui sta, a dirla tutta, il nucleo centrale del problema. Il discorso pubblico sull’economia di piattaforma, tutto cucito su misura dei datori di lavoro, mette difatti al centro parole come “flessibilità”, “autonomia”, e persino “empowerment femminile” o “orari compatibili con la vita familiare”. Ed effettivamente, nello scorso decennio, è stato proprio il miraggio di un lavoro flessibile a spingere molte donne a mettersi in gioco su una app o l’altra. Ma questa flessibilità ha finito comunemente per tradursi in una combinazione tossica di turni infiniti, estrema precarietà economica, e mancate tutele.

Conclusioni

Poco cambia, per farla breve, che una donna offra online massaggi facciali, pulizie a domicilio, o trascrizioni di registrazioni video e audio. Il suo status di “contractor” o “partner” (o qualunque definizione un’azienda si inventi pur di non chiamarla “lavoratrice”) la priva di diritti storicamente acquisiti e di qualunque strumento di mediazione collettiva. Alla faccia della flessibilità, l’azienda può così penalizzarla se lei sceglie di rendersi disponibile solo in determinati giorni o orari, o di prendersi periodi più o meno lunghi di pausa. E le piattaforme sanno anche escogitare strategie ancora più striscianti per lucrare sulle lavoratrici, vedi l’obbligarle ad acquistare in anticipo make-up o prodotti per la casa da utilizzare nelle loro prestazioni. Soprattutto, però, la commistione di tecnologia e rapporto giuridico inedito consente alle compagnie di individualizzare e parcellizzare la forza lavoro, ostacolando le proteste di chi si ribella, e demonizzando attiviste coraggiose come Seema Singh quasi fossero “sabotatrici” e “incitatrici alla violenza”.

Pensateci bene, insomma, la prossima volta che vi viene da ringraziare Uber o Deliveroo di avervi reso più facile l’esistenza. E pensate, più che altro, alle forze che si agitano dietro all’auto o al menu gourmet che ci vengono recapitati in due click.

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