Se anche la California, la patria della rivoluzione web e delle app e dell’ultra liberismo digitale, ha fatto una legge – nei giorni scorsi – per far trattare come dipendenti i lavoratori della gig economy, bisogna davvero essere ciechi per non vedere le crepe allargarsi sul muro. Il muro che finora ha retto la retorica della gig economy, dove aziende come Uber, Lyft e Deliveroo hanno chiamato “manager di sé stessi” i lavoratori.
Forse sono i primi segni di una svolta. Finora la poliedricità delle fattispecie di lavoro insita nella gig economy ha reso inefficace un approccio uniforme alla questione.
Eppure nel dibattito pubblico è invalsa la pratica di parlare di un nascente paradigma di impresa e di imprenditore a cui si è giunti, in primis collocando l’innovazione tecnologica in un motivo di decentramento, disgregazione e rinnovamento dell’impresa e della sua riorganizzazione dei mezzi produttivi e in secundis sottoponendo la profonda trasformazione del lavoro on demand all’assenza di tipologie normative e contrattuali applicabili.
In un’ottica puramente organizzativa, infatti, è stato concesso alle start-up e alle società della gig economy di organizzarsi diversamente rispetto alle imprese tradizionali con la conseguenza di potere prospettare più alternative alla modalità di impiego della forza lavoro, valutando costi e benefici economici e normativi rispetto al modello standard. Si è determinato, così, un inedito vantaggio competitivo connesso alla predilezione di una disciplina commerciale e privatistica concorrente a quella giuslavorista di riferimento.
Emergono, quindi, due fenomeni che necessitano di essere analizzati parallelamente giacché inevitabilmente convergenti: la trasformazione della sostanza dell’impresa e l’emergere di una moderna figura di imprenditore di se stesso.
Ambedue gli elementi si fondano sullo sciame di cambiamento che si è abbattuto sul modello di lavoro novecentesco, regolato contrattualmente negli orari, nelle mansioni e nelle modalità di erogazione e remunerazione della prestazione destinato a confrontarsi con i fenomeni complessi dell’economia a costo marginale zero,(J. Rifkin, La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo e l’eclissi del capitalismo, 2014) quali la riduzione del lavoro, l’imprenditorializzazione di quello dipendente, la crescita di forme ibride e (solo) formalmente autonome, e più in generale, il progressivo emergere di forme di produzione di valore che sfuggono ai confini della contrattualizzazione giuslavoristica.
A questo proposito già H. Arendt si interrogava sul temibile avvento e impatto dell’automazione in una società transitata prima dalla ‹‹glorificazione teoretica del lavoro›› (H. Arendt, Vita activa: la condizione umana, Milano, 2017, p. 4.) e poi approdata alla trasformazione dell’intera società in una società di lavoro. L’automazione, però, lungi dall’aver liberato l’uomo ha creato una società di lavoratori senza lavoro, inconciliabile quindi con il paradigma della sua centralità come tutelata dalla Costituzione.
La gig economy non è la causa di ogni male
Se spesso la causa di ogni male passa – erroneamente – per essere la gig economy, è bene porre la premessa di principio che vede come errato individuare nella tecnologia, formalmente neutra, la fonte di tale cambiamento. È, infatti, l’orientamento teleologico che viene apposto alla tecnologia, soprattutto durante i periodi di crisi socio-economica, che ha avallato e avalla l’immissione nel mercato dei lavoratori atipici.
Le considerazioni sugli esiti di questo riposizionamento strategico del mondo del lavoro on demand, tuttavia, non si sono rivelate affatto pacifiche. Se da un lato il lavoratore nell’organizzazione 4.0 è mobilitato come soggetto e non solo come individuo, ponendosi su un orizzonte di maggiore ricchezza professionale, di maggiore responsabilità ma anche di maggiore libertà (con il vantaggio qualitativo – ma spesso formale – della riconquista della libertà di distribuzione del tempo tra l’attività retribuita e ogni altra attività o non-attività di vita personale, familiare e sociale), dall’altro l’orizzonte che progressivamente emerge dall’economia delle piattaforme punta alla dissoluzione dei confini tra impresa e prestatori, entrambe convergenti nei fenomeni di social networking.
Ciò a cui, in definitiva, si assiste è l’identificazione del mercato del lavoro con un ambiente on line nel quale gli individui sono al tempo stesso utenti, lavoratori, produttori, e consumatori, ma in ogni caso manager di se stessi, tramite l’utilizzo delle app che permette loro di esser connessi e poter immettere nel mercato la propria prestazione senza nessun altro filtro ulteriore che quello della propria volontà.
Gig economy, così può essere il futuro del lavoro: una proposta di legge
Il culto dell’autoimprenditorialità
L’esser “manager di se stessi” rivela, infatti, il trend comunicativo del mercato del lavoro degli ultimi anni. ‹‹Una sterminata letteratura economico-aziendale, nonché una pressoché ossessiva discorsività politica, mettono in relazione tale liberalizzazione del mercato del lavoro alle istanze di flessibilità organizzativa imposte dalla mondializzazione dei mercati e dalle ‘sfide’ che la competizione economica planetaria impone.
Alla funzione giurisdizionale – all’impero della legge – è attribuita la responsabilità di irrigidire le strutture organizzative, sia sul piano della ‘quantità’ (l’impresa ha bisogno di contrarre la dimensione del ‘capitale variabile’ o espanderla secondo le oscillazioni dei mercati) sia sul piano della ‘qualità’ (il quadrillage gerarchico e funzionale legato alla giurisdizione del lavoro blocca la mobilità, la malleabilità delle competenze, la ‘creatività’, l’autonomia, il dinamismo di cui l’impresa ‘snella’ e flessibile ha bisogno)›› (M. Nicoli, “Io sono un’impresa.” Biopolitica e capitale umano, in Aut aut, 2012, 356, p. 91).
Si è andata, così, affermandosi l’apparente insanabile contrapposizione fra la libertà degli individui e l’impresa tradizionale, per cui la prima risulterebbe frustrata e limitata dalle necessità organizzative della seconda nella misura in cui gli input legislativi (già abbondantemente edulcorati negli anni) «‘soffocano’ il naturale anelito creativo di ciascuno, limitandone la spontanea iniziativa, frustrandone lo spirito d’impresa e di innovazione» (M. Nicoli – L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, in Aut aut, 2014, 362, p. 50).
Non è un caso, poi, che l’imprenditoria di se stessi sia il mantra di un periodo storico che vede le riforme del lavoro e del diritto che lo regola, sia a livello interno che come input internazionali, spingere verso la flessibilizzazione della prestazione lavorativa. Nell’analisi della dilatazione degli spazi, ma soprattutto del concetto di impresa si è partiti dalla sua progressiva smaterializzazione, concentrandosi sull’esaltazione del management di se stessi e si è approdati al culto dell’autoimprenditorialità.
Questo ha comportato una transizione fra sharing e gig economy, con ripercussioni incerte e imprevedibili sulla vita privata dei lavoratori i cui confini tendono a diluirsi a fronte di una persistente prerogativa di imprenditorialità.
Boost your income! Choose your own hours! Stay Fit! sono i tre benefits che Foodora citava nel suo sito per galvanizzare i suoi utenti, i riders. L’esaltazione del privilegio dell’autoimprenditorialità nulla preconizza riguardo il rapporto di lavoro che si instaura fra app e utente, ma cela piuttosto una propensione ad estromettere il dispositivo garantista del diritto del lavoro.
Il motto di Airbnb riporta ‹‹Belong anywhere››, ‹‹Sentiti a casa dovunque›› incoraggiando un servizio di condivisione tale da celebrarne la comunità, secondo un concetto di appartenenza globale.
Eppure dietro la retorica collettiva, le statistiche confermano il valore del cosiddetto core-business: pur non possedendo immobili Airbnb erige un patrimonio basato su affitti temporanei in condizione di monopolio calcolato in 30 miliardi di dollari nel 2017, ossia «una volta e mezzo la Hilton che ha 774mila camere in 4820 alberghi in tutto il mondo›› (E. OCCORSIO, Uber, Airbnb, Lufax, Lyft, Blablacar: la sharing economy vale 300 miliardi, in Repubblica.it). Eppure i dipendenti di Airbnb si attestavano su poco più di 600 unità, contro le oltre 300mila della Hilton Worldwide.
Aziende come Uber hanno sostenuto, con convincenti campagne pubblicitarie, che i loro collaboratori siano lavoratori autonomi o appaltatori indipendenti; il personale, dunque, non è in realtà il loro personale.
Tuttavia per suscitare questa convinzione e somministrarla alla platea degli utenti si è abbinato un ulteriore espediente.
La mistificazione del rapporto di lavoro
Il Financial Times ha pubblicato e commentato, in un articolo, un documento che illustra le linee guida linguistiche di Deliveroo: ‹‹Di’ ‘fattura’ non pagare e ‘fare il log in’ e non ‘iniziare il turno’, corrieri come ‘lavoratori autonomi’›› (S. O’Connor, Deliveroo pedals the new language of the gig economy, in ft.com, 5 aprile 2017). Dal documento emerge la completa mistificazione del rapporto di lavoro in funzione di una totale deresponsabilizzazione dell’app che si accompagna ad una metodica e sistematica esaltazione del lavoro autonomo.
Le app classificano, dunque, spesso gli utenti come ‘self-employed’, dipendenti di se stessi, nonostante diverse interrogazioni giurisprudenziali, internazionali e non, stiano inquisendo circa le modalità dell’esercizio del potere di controllo e modulazione della prestazione, per poter continuare a trattarli come indipendenti. C’è, infatti, come è stato già sottolineato in alcuni corti spagnole, un eccessivo controllo per definirli solo “indipendent contractors”.
Il rischio di questa retrocessione della contrattualizzazione e regolamentazione del lavoro digitale, taciuto dalla retorica dell’imprenditore di se stesso, occulterebbe quindi alcune forme di sfruttamento di lavoratori che risultano privi di forme di tutela e, ancor prima, di qualsiasi riconoscibilità nell’attuale mercato del lavoro, in cui l’intermediazione digitale ha sfumato e depotenziato anche l’intermediazione fisica in termini di contrattazione collettiva a livello aziendale e nazionale.
Lavoro via app: liberazione o sfruttamento?
Il ruolo della tecnologia non è e non può essere quello di strumento di liberazione del lavoro qualora la sua portata emancipatoria svanisca nella deregulation e nello sfruttamento che spesso appare insito nel privilegio dell’autoimprenditorialità via app.
Il nuovo paradigma di impresa e di imprenditore sembra aver traslato la classica estrazione di valore sull’esistenza stessa delle persone che divengono esse stesse “imprese”.
In questo contesto di capitalismo pervasivo l’automazione e la parcellizzazione della prestazione da un lato hanno sminuito l’attività umana ai fini produttivi nella distribuzione e commercializzazione di beni e servizi just in time, dall’altro hanno reso tutti i lavoratori indistintamente self-made man, con i correlati rischi di precarizzazione, instabilità e assenza della possibilità di disconnettersi efficacemente.
Se le condizioni di lavoro restano assorbite nell’ambito della contrattazione fra pari così come si suppone che sia la contrattazione con gli imprenditori fra imprenditori: ciò significa per i falsi imprenditori di se stessi, vittime più o meno consapevoli della retorica del self-made man on demand, che il rischio della cosiddetta self-exploitation non rimane trascurabile. Nondimeno, non essendo inquadrati come lavoratori dipendenti, questi microimprenditori on-demand che accedono alle apps, non godono dei diritti e delle prerogative connesse al diritto del lavoro, ma tutt’al più dei diritti e delle qualità connesse al diritto commerciale sull’impresa e l’imprenditore.
‹‹L’economista premio Nobel Herbert Simon era solito ironizzare sul mito dell’economia di mercato attraverso un esperimento mentale: se un extraterrestre sorvolasse la terra e fosse dotato della capacità di vedere i mercati colorati di rosso e le imprese colorate di verde, vedrebbe delle immense distese di verde e delle piccole macchie rosse›› (F. Barbieri, Giovani imprenditori di se stessi: per amore o per necessità, in ilsole24ore.com).
Imprenditori di sé stessi, per amore o per necessità?
In questa stessa prospettiva, un articolo de Il sole 24 ore titolava evocativamente qualche anno fa: “Giovani imprenditori di se stessi: per amore o per necessità” evidenziando come, al netto della cultura dell’impresa, il mercato del lavoro brulichi di imprenditori (di se stessi), senza aver riscontrato rilevanti progressi nella distribuzione della ricchezza interna alle economie nazionali e nell’occupazione.
Anche recentemente, Eurostat, afferma la presenza di 5 milioni di lavoratori autonomi in Italia, di cui il 73% è privo di dipendenti ed è quindi imprenditore di se stesso, ossia uno dei paesi in cui il numero di lavoratori in proprio senza dipendenti, soprattutto fra i giovani, sarebbe fra i più alti di Europa. Un andamento in inesorabile crescita soprattutto negli ultimi anni, a parere di chi scrive, a riprova che l’esaltazione di una cultura dell’impresa è, pertanto, dovuta alla crisi economica e non unicamente all’avvento delle nuove tecnologie, che ne avrebbero solo sobillato le problematiche.
Certamente l’eterogeneità delle figure del rapporto di lavoro esclude un approccio solipsistico al fenomeno poiché un’apodittica derubricazione di queste attività rischierebbe di risultare formalmente valida, ma sostanzialmente inefficace. Un’ottica avulsa da sovrastrutture mediatiche e propagandistiche è, però, necessaria come imperativo metodologico e sistematico per analizzare il fenomeno del lavoro on demand, al fine di coglierne gli aspetti più peculiari che hanno disatteso ogni dogmatica già esistente.
La complessiva analisi di tali suddette controversie e delle modalità per ‘organizzare il personale’ nella gig economy permettono di affermare che, spesso, queste fattispecie siano ampiamente compatibili con la normativa lavoristica esistente, ma una categorizzazione ideologica e non giuridica rischia di anteporre il risultato sperato – un rinvigorimento del mercato del lavoro – al rischio di non cogliere sufficientemente la conflittualità interna alla rivoluzione digitale in atto.