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Umanizzare la modernità: ecco il cambio di paradgma che ci serve



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In un’era di digitalizzazione e cambiamenti nel capitalismo, l’importanza di umanizzare la modernità e ricordare l’eredità dell’Illuminismo diventa sempre più pressante. Mentre la tecnologia offre potenzialità senza precedenti, presenta anche sfide uniche che richiedono una nuova consapevolezza antropologica ed esistenziale

Pubblicato il 29 dic 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria



capitalismo3

Mentre tanti sono stati catturati dalle vicende di OpenAI – una vecchia puntata di Dallas, una vera lotta intestina tra diverse filosofie dell’intelligenza artificiale, un’abile operazione di marketing per distrarre dai pericoli dell’AI, o altro ancora? – restiamo invece sulle parole d’ordine del capitalismo digitale e della sua filosofia, il neoliberalismo e/o l’anarco-capitalismo.

Cambio di paradigma è sicuramente una di queste parole d’ordine più insistite e ripetute da parte del tecno-capitale/neoliberalismo. Senza mai però dire veramente quale cambio di paradigma si richiede (se non rinviando a digitalizzazione, Fabbrica 4.0, intelligenza artificiale), e invece presentandolo come una necessità e una impellenza non più rinviabile. In realtà il cambio di paradigma che il sistema vuole produrre è solo quello dentro l’ordine/paradigma della razionalità strumentale/calcolante-industriale[i] a cui non devono esserci alternative, producendo un nuovo/vecchio ordine convenzionale[ii] di imperativi categorici e di convinzioni ideologiche, per allevarci ancora di più a vivere nel mondo tecnico e capitalistico, oggi digitale. Assieme a riforme strutturali, smart, macchine intelligenti, capitale umano – e altro ancora.

Il cambio di paradigma nel capitalismo digitale

Parole deliberatamente ambigue (sul loro senso vero – che deve restare a noi nascosto), ma insieme apodittiche, imperative, dispositive, normative e normalizzanti, come sempre ambigue e semplicistiche (ma accattivanti – e che per questo ci catturano) sono tutte le parole/slogan della propaganda[iii], usabili appunto per mascherare la realtà, come quella propaganda che si chiama marketing e management e usata per far sembrare nuovo ciò che è vecchio.

Tecniche motivazionali antiche e sempre ri-ammodernate, per nascondere una realtà invece regressiva – come appunto per cambio di paradigma – quella delle ultime fasi di una vecchia ma sempre apparentemente nuova rivoluzione industriale, oggi arrivata alla quarta e già sognando la quinta, ma sempre conservando i caratteri della prima rivoluzione industriale, ovvero: la sempre vecchia/nuova proprietà privata dei mezzi di produzione/connessione-fabbriche/piattaforme, la sempre vecchia/nuova alienazione del lavoro e della vita di chi viene ingegnerizzato ad accettarla come un dato di fatto, il vecchio/nuovo sfruttamento del lavoro (nostro), il vecchio/nuovo sfruttamento della Terra, la vecchia/nuova ricerca della massimizzazione del nostro plusvaloro per la massimizzazione del plsvalore del tecno-capitale. Eccetera, eccetera.

Parole d’ordine che creano immaginari collettivi e aspettative collettive di un grande ulteriore progresso, parole decisamente accattivanti, ma che appunto nascondono forme sempre nuove di continuo regresso[iv]. Parole che creano convenzioni sociali che producono un determinato ordine che poi governa sempre di più il mondo e la vita umana[v] attraverso meccanismi eterodiretti di adattamento al tecno-capitale e di riproducibilità infinita del paradigma tecnocratico dominante (“non ci sono alternative”; oppure “bisogna adattarsi”; “essere resilienti”; “tutto è intelligente”; “il lavoro è creativo”; “importanti sono le soft-skills e le competenze a fare”… la conoscenza per pensare prima di fare, quella invece mai…).

Parole che sono auto-referenziali. Che però devono diventare parole/concetti/imperativi categorici come appunto cambio di paradigma, un dover essere e un dover cambiare usato e abusato per nascondere quella che è la sua vera essenza e la sua vera finalità, appunto farci adattare ancora una volta – come auspicato e ricercato già dal positivismo ottocentesco (Saint-Simon e Comte su tutti) e dalle sue moltplicie varianti novecentesche e poi integrato dal neoliberalismo dagli anni Trenta in avanti[vi]alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione industriale (capitalistica e oggi digitale) del lavoro.

E d’altra parte e similmente, cosa significano e cosa designano concetti come riforme strutturali dettate e imposte dal neoliberalismo/ordoliberalismo europeo-tedesco, giocando sul concetto di strutturale che in sé richiama cose importanti e fondamentali, necessarie e urgenti, se non (sotto l’apparenza ingannevole) quelle contro-riforme sociali di cui però necessitano il capitale e la competizione globale per rendere il sistema tecno-capitalista più flessibile, più irresponsabile socialmente ed ecologicamente, per tassare meno i ricchi e gli extra-profitti e accrescere le disuguaglianze sociali (“una scelta politica deliberata” del neoliberalismo, l’aveva definita l’economista e premio Nobel Joseph Stiglitz), come nuova fase della lotta di classe a contrario? E cosa è smart, forse le piattaforme digitali, forse l’home-working tanto simile al lavoro a domicilio descritto a suo tempo da Marx e replicato anche durante l’intero Novecento? E cosa significa valorizzare il proprio capitale umano, se non la tecnica psicologica quasi perfetta (assieme a self-management) per accrescere l’auto-sfruttamento di ciascuno (senza farlo percepire come tale, in nome della illusione offerta dal management di una collaborazione con l’impresa/piattaforma), così il tecno-capitale potendo estrarre da ciascuno il massimo (ancora di più) del suo pluslavoro per il massimo del plusvalore per sé come tecno-capitale?

Restiamo a cambio di paradigma. Un concetto-trappola utile a impedire che, criticamente, se ne valuti l’essenza, lo scopo e i modi di implementazione. Un nuovo paradigma che viene oggi richiesto/imposto dal sistema del tecno-capitale ma che in realtà, come detto, è solo la rivisitazione oggi digitalizzata dello scopo unico, finalistico e deterministico del capitale: accrescere il profitto privato e insieme sussumere/integrare tutto e tutti nel proprio sistema integrato – perché tecnica e capitale hanno nella loro essenza e determinismo appunto l’integrazione, cioè sono integralistici e quindi illiberali anche se si presentano come neoliberali o libertari.

Cioè l’Uno tecno-capitalistico sostituisce Dio nella creazione di un mondo a sua immagine e somiglianza, producendo anche una teologia tecno-capitalista da mettere al posto di quella religiosa[vii], producendo anche i necessari teologi). E se la Terra brucia[viii], importante è farlo dimenticare e far avverare sempre la profezia per cui “è più facile immaginare la fine della Terra che la fine del (tecno)capitalismo”, invitando tutti ad essere semmai resilienti al riscaldamento climatico. Immaginare invece una uscita dal tecno-capitalismo, o anche solo immaginare una trasformazione del modello economico dominante e socialmente ed ecologicamente irrazionale è qualcosa – come scriveva un neoliberale come Walter Lippmann – “di neppure pensabile”. Appunto, non ci devono essere alternative, ma pensiero unico. E Lippmann aggiungeva: “nel caso, ogni ribellione verrà sedata” – come è successo a Genova nel 2001.

È dunque altro e diverso il cambio di paradigma che dobbiamo (dovremmo) realizzare; non quello per favorire ancora una volta tecnica e capitale, ma per prenderci cura della Terra, cioè di noi stessi e della nostra vita. Tutto il contrario quindi di ciò a cui pensano tecnica & capitalismo quando invocano un cambio di paradigma. Per capirlo – per capire che il cambio di paradigma deve essere culturale se non antropologico – ci aiuta un libro prezioso, che ha un titolo che è già un programma: Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, scritto da Mauro Ceruti e da Francesco Bellusci[ix].

La necessità di umanizzare la modernità

Oggi, scrivono gli autori, “viviamo una condizione singolare e paradossale nel modo di rapportarci al futuro”, che “ci appare incerto e divaricato. In bilico tra la promessa scientifica e tecnologica dell’immortalità e il disastro ecologico o termonucleare, tra le avventure nello spazio extraterrestre e il degrado ambientale della Terra, tra la preoccupazione di salvaguardare la specie umana e il sogno di aumentare i nostri corpi, forzandone i limiti biologici. […] e dove gli esseri umani sembrano già aver trovato una forma singolare di graduale sparizione, di esodo dalla realtà e dalla storia, che si accentua con il passaggio dall’analogico al digitale e all’intelligenza artificiale: sempre più semplificati dalla manipolazione tecnica, ci accingeremmo a consegnarci nelle mani delle macchine intelligenti, come in quelle di un nostro ventriloquo”.

Ma allora, che fare, cosa può fare il filosofo – e ciascuno di noi? “Non reagire emotivamente, non prendere partito, non cadere nella trappola dei manicheismi, ma cercare di comprendere”. E di vedere soprattutto “i fili inestricabili che costituiscono l’umano, che lo attraversano e lo legano sia all’infinitamente grande, sia all’infinitamente piccolo, tanto al cosmo quanto ai microorganismi del suo habitat terrestre locale”. Si tratta cioè di comprendere che l’ecosistema (non quello digitale, un’altra parola/concetto propagandistico usato e abusato ancora una volta dal tecno-capitale per farci credere che anche l’artificiale, come il mercato, sia naturale), di cui anche noi siamo parte, è “un pianeta in cui tutto è interconnesso e interdipendente” e allora è questo sguardo nuovo che dobbiamo imparare e apprendere – vedere e capire la complessità – per “assumere i contorni di un vero e proprio cambiamento di paradigma, cioè di percezione, di pensiero e di valori” – mentre invece il tecno-capitale pensa solo ai valori del denaro e alla valorizzazione capitalistica di tutto e di ciascuno.

A dover produrre questo vero e indispensabile cambio di paradigma, “a fare questo discorso è, innanzitutto, l’essere umano [non le macchine], la cui responsabilità [le macchine non hanno responsabilità e neppure chi le costruisce per profitto privato], a motivo dell’evoluzione tecnologica, si è estesa verso nuovi ambiti: le specie viventi, gli ecosistemi naturali, il pianeta nella sua interezza; i costituenti genetici e l’identità biologica della natura umana, la possibilità stessa della sopravvivenza della nostra specie”. Qui “sta il possibile abbrivio di un umanesimo planetario” – che significa “innanzitutto, riattivare l’immaginazione anticipatrice e le visioni di lungo periodo, ridare senso alle idee di progresso e di futuro, per proporre vie d’uscita dalla crisi della modernità che la crisi di quelle idee ha generato” promettendo irresponsabilmente “un progresso lineare, necessario, irreversibile e continuo” che oggi si sta traducendo appunto in regresso e in nichilismo radicalizzato.

Per questo obiettivo ci serve, scrivono Ceruti e Bellusci, un nuovo “pensiero istituente all’altezza del compito di ordinare, in modo inedito e incessante e con nuove istituzioni, il corpo planetario antropo-bio-fisico”. Consentendo così alla nostra specie, grazie alla “rete emergente dei saperi e delle esperienze, di apprendere ad essere veramente globale, a legarsi all’insieme degli ecosistemi, a valorizzare il potenziale creativo delle diversità culturali. L’umanesimo planetario infatti non decentra l’uomo nella periferia di un mondo di cui si sentiva padrone. Semmai tiene in scacco l’uomo inteso come un dio, come il sovrano e il giocatore per eccellenza del mondo”.

L’eredità irrinunciabile dell’Illuminismo

L’Illuminismo “fu il movimento culturale che portò [gli uomini] a rappresentarsi e a riconoscersi nella condizione di esseri capaci di autodeterminarsi, di prendere in mano il proprio destino, di legare la propria dignità all’esercizio del pensiero critico e all’azione conforme a un volere autonomo. Questo compito permanente di emancipazione è una eredità irrinunciabile per noi”. Ma rifarsi al passato non basta, perché “la nozione astratta di uomo, isolato dalla natura su cui questo compito si reggeva, è frutto di un dualismo uomo-natura divenuto insostenibile e mutilante ai fini della piena comprensione della condizione umana”. All’umanesimo planetario, scrivono Ceruti e Bellusci, “tocca il compito di rimuovere e superare questo dualismo”. Cambiando appunto il paradigma del nostro vivere nel mondo, un mondo che non è solo umano, che oggi è sempre più artificiale (ancora nel dualismo tra uomo e natura, tra artificiale e naturale) , ma soprattutto naturale. Per questo serve una cultura della complessità e della transdisciplinarità che permetta “di immunizzarsi dai dogmatismi della razionalità formale e calcolante, dalla cecità della razionalità strumentale”.

Questo mentre la tecnologia “oggi mostra una crescente autonomia” – la tecnica non è neutra, ma continuiamo a credere il contrario, ciechi davanti alla forma nuova delle macchine di oggi rispetto a quelle del passato – e soprattutto una crescente “ingovernabilità”, una tecnologia che sempre più “si autogenera”. Mentre il paradigma tecnocratico – sempre più potente e pervasivo – “ripropone incessantemente il mito di una crescita illimitata, di un futuro sempre migliore”, illudendoci “che ogni problema potrà avere una soluzione tecnica”.

La tecnologia: tra potenza e impotenza

E invece, ci ricordano i due autori, “l’impotenza della tecnoscienza cresce proporzionalmente alla sua potenza, perché non può calcolare e controllare le conseguenze e gli effetti dei suoi progressi”. Ma la tecnica (come il capitalismo), è fondata su una (ir)razionalità accrescitiva (dei sistemi tecnici integrati e dei mercati integrati, sempre in nome del profitto da accrescere anch’esso sempre di più), sulla semplificazione (soprattutto di un pensiero tradotto in mero calcolo) e sulla specializzazione (che impedisce di vedere la complessità). Mentre ci serve – e urgentemente – proprio una cultura (una antropologia) della complessità, della relazione uomo-natura (la Terra va intesa come una totalità complessa, non come una miniera da sfruttare) e della responsabilità (e rimandiamo anche noi a Hans Jonas[x]).

Paradossalmente e irresponsabilmente sempre più invece deleghiamo alle macchine, agli algoritmi, all’intelligenza artificiale – cioè ancora e sempre al paradigma tecnocratico – la nostra vita; cioè ci de-responsabilizziamo e allo stesso tempo ci alieniamo da noi stessi e dalla biosfera. È quindi da questo paradigma irrazionale ed ecocida che dobbiamo uscire, non basta resettarlo con una spolverata di green per continuare come prima e quindi peggio di prima. Occorre non una rivoluzione ma “un cambiamento di paradigma di pensiero e di civiltà”.

Come ricordano Ceruti e Bellusci, Copernico ci ha spostato dal centro dell’universo; Darwin ci ha dimostrato di non essere creature di Dio, speciali e uniche; Freud di non essere totalmente padroni della nostra sfera psichica. Oggi serve un nostro nuovo – e diverso e planetario – ricollocamento esistenziale/antropologico. E dobbiamo congedarci dal paradigma del dominio. Ma questo comporta appunto “un salto antropologico che richiede un salto epistemologico”, per “governare la nostra sovranità nel rispetto della Terra e nella consapevolezza del nostro impatto tecnologico”.

Bibliografia


[i] L. Demichelis, “La società-fabbrica, Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, Roma, 2023

[ii] Si veda l’ottimo M. De Carolis, “Le convenzioni e il governo del mondo”, Quodlibet, Macerata, 2023

[iii] Sul tema – e in particolare sulla propaganda per l’integrazione – si veda: J. Ellul, “Propaganda”, PianoB, Milano, 2023

[iv] F. Re David, “Tempi (retro)moderni”, Jaca Book, Milano, 2018

[v] M. De Carolis, “Convenzioni e governo del mondo”, Quodlibet, Macerata, 2023

[vi] Sul neoliberalismo e la sua egemonia oggi, si veda l’ottimo saggio di B. Stiegler, “Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico”, Carbonio Editore, Milano, 2023

[vii] L. Demichelis, “La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica”, Mimesis, Milano, 2015; sul capitalismo come religione, vedi W. Benjamin, “Scritti politici”, Editori Riuniti, Roma, 2011

[viii] G. Nebbia, “La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo”, Jaca Book, Milano, 2020

[ix] M. Ceruti – F. Bellusci, “Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro”, Cortina Editore, Milano, 2023

[x] H. Jonas, “Il principio responsabilità”, Einaudi, Torino, 2002

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