Il dibattito sui Social è più acceso che mai e la tentazione di entrarci, non con le parole, ma con denaro e soluzioni innovative è più forte che mai, soprattutto nei disillusi della Silicon Valley, ovvero coloro che avevano creduto che i social avrebbero ampliato le possibilità di comunicazione e di socialità tra gli esseri umani, ma che poi si sono dovuti fortemente ricredere.
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Il dibattito sui social non è riassumibile in poche battute. Le piattaforme sono al contempo accusate di veicolare fake news e di non dare spazio alla libertà di espressione, di non essere luoghi di coinvolgimento autentico e allo stesso tempo di cannibalizzare l’attenzione degli utenti per troppe ore giornaliere. Insomma, vengono accusati, non senza qualche ragione, di problemi opposti tra loro. È evidente, dunque, che il dibattito è ideologico. Ma alcuni punti fermi li possiamo trovare, soprattutto se guardiamo a quello che – molto chiaramente – non ha funzionato in passato
Ecco i 4 principali argomenti su cui si incentra il dibattito e le proposte di piattaforme sociali alternative:
- Modello di business alternativi all’advertising
- Interazioni più a misura “d’uomo”
- Libertà di espressione
- Proprietà dei dati e distribuzione del valore
Vediamo gli argomenti nel dettaglio.
Modelli di business alternativi all’advertising
La ricerca di modelli di business alternativi alla pubblicità è un tema nevralgico. Dopo l’uscita del fondamentale “Il Capitalismo della Sorveglianza” della sociologa Shoshana Zuboff è apparso a tutti evidente che il modello di business basato sulla raccolta dati degli utenti e la vendita degli stessi agli inserzionisti ha rivoltato completamente le intenzioni originarie dei social. Gli algoritmi che inizialmente servivano per migliorare i contenuti, ad un certo punto hanno iniziato a mutare e sono stati ricalibrati per generare più “interazioni possibili” e dunque più informazioni tangibili sui gusti degli utenti. Contestualmente la pubblicità richiede sempre più attenzione e tempo trascorso sulle piattaforme per generare profitto alle piattaforme. Questo ha sospinto il prodotto, non verso la qualità delle interazioni, ma verso i meccanismi della dipendenza.
Il docufilm The Social Dilemma ha espresso bene il dilemma: è possibile una vita senza social? Difficile chiederlo a persone che ne sono totalmente dipendenti. Gli esperti del prodotto hanno individuato le vulnerabilità della mente umana e sviluppato interfacce in grado di generare dipendenza. Dipendenza significa sessioni ripetute decine di volte al giorno. Questo implica la raccolta di infinite quantità di dati che permettono di creare modelli predittivi di comportamento e dunque pubblicità altamente profilata.
Hallo App, il primo social completamente “ads-free”
Hallo App, il primo social completamente “ads-free” ha recentemente ottenuto un investimento da parte di Sequoia Capital, uno dei principali venture capital della Silicon Valley.
I due founder Neeraj Arora e Michael Donohue hanno rivestito ruoli apicali in Whatsapp prima della vendita a Facebook e poi hanno lavorato per qualche tempo in Meta. Durante la permanenza in Meta hanno visto la graduale distorsione degli algoritmi che da strumenti per migliorare il prodotto sono diventate estrattori di informazioni agli utenti. Intervistati da Verge, parlano di Hallo App come del social che ri-trasforma l’utente da prodotto a persona. Per tenere sotto controllo questa visione è fondamentale evitare un modello di ricavi basato su advertising.
Hallo App svilupperà dunque un modello basato su abbonamento, con un costo mensile sotto i 5€. L’altra caratteristica di Hallo App è il fatto che gli unici amici con cui si può condividere contenuti sono quelli presenti nella rubrica del telefono. Si presume che siano dunque contatti, conoscenti e amicizie reali, non virtuali. Ha assolutamente senso sulla carta. Da capire tuttavia se gli utenti lo useranno regolarmente in modo da giustificare un abbonamento mensile.
Il problema di creare alternative ai social non è teorico infatti. Ma pratico. I social network sono cresciuti appropriandosi dei nostri dati sociali, dei nostri contenuti e ora le nostre vite sono “là”, “dentro i loro server”. Tutti quelli che hanno provato a creare social differenti, alla fine si sono dovuti piegare all’evidenza che non è questione di creare piattaforme migliori, ma di riempirle e tenerle accese.
Interazioni più a misura d’uomo
Anche quello delle interazioni più a misura d’uomo è un tema rilevante. I social network sono nati per ricreare in ambiente digitale le relazioni tra persone. Ma hanno finito per creare un nuovo tipo di relazione molto più blanda, piena di rumore, contatti deboli, spam. Nella vita reale abbiamo qualche decina di amici. Ma sui social abbiamo migliaia di contatti di cui non sappiamo nulla e di cui non ci interessa nulla. Gli abbiamo aggiunti alla lista, con la velocità di “un clic” per qualche motivo che ora nemmeno ricordiamo. E ora riempiono i nostri spazi, con contenuti a cui non siamo interessati. Gli algoritmi delle piattaforme organizzano il caos intorno a ciò che sanno di noi. E così ci ritroviamo a discutere di Covid e di guerra con persone che non sono rilevanti per noi. E noi non siamo rilevanti per loro. In un continuo effimero sfarfallio di post, commenti, interazioni.
Il caso Club House
Nel 2021, Club House il nuovo social nato durante il Covid prometteva di creare interazioni più profonde, attraverso un sistema di chat audio in tempo reale, più coinvolgente dei contenuti asincroni dei social. Dopo qualche mese di celebrità, è sparito. Probabilmente non è tanto il format di espressione a fare la differenza, ma la qualità umana delle relazioni. L’antropologo Robin Dumbar nel 1993 sviluppò una teoria della socializzazione, basata sul rapporto tra neuro corteccia e numero di relazioni sociali. La grandezza della neuro corteccia determina il numero di relazioni sociali di valore che possiamo intrattenere. Oltre ad un certo numero, che Dumbar individuava in 150, le persone diventano numeri. Quando interagiamo con troppe persone, si perde il senso di intimità, di familiarità e di interesse. Le prime comunità umane erano strutturate in raggruppamenti di 20-50 persone. Quando, nel corso della storia, si sono sviluppate le città, gli abitanti complessivi sono aumentati a dismisura, ma la rete sociale reale delle persone è rimasta piccola: famiglia, vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro. Oltre a questa rete ristretta ci sono conoscenti con cui non abbiamo rapporti. I social hanno ribaltato questo meccanismo. I conoscenti sono diventati il fulcro della dimensione social digitale. I contatti senza reale valore contribuiscono alla rissosità e al clima d’odio che permea le relazioni sui social. Quando persone senza un legame reale si trovano a discutere dietro a uno schermo di argomenti fortemente polarizzanti (pandemia, guerra) il livello qualitativo si abbassa drasticamente, mentre la rissosità si alza.
Rob Ennals si è occupato di questo tema come responsabile di prodotto in Facebook. Ma dopo un po’ si è reso conto che non basta qualche toppa e la moderazione dei contenuti. I social devono essere ripensati per migliorare le relazioni non per aumentarle di numero.
Talkful
Così ha fondato Talkful, social app che si occupa di discussione su tematiche politiche. In Talkful i gruppi sono composti da un numero limitato di persone (secondo il principio di Dumbar). Questo spinge gli utenti a conoscersi. Inoltre, gli utenti hanno diritto ad un numero limitato di messaggi e contenuti. L’obiettivo è creare un ambiente di reale conoscenza tra persone, dove è più semplice creare discussioni profonde che non prevaricare.
Libertà di espressione
Quello della libertà di espressione è ovviamente il tema del momento. Dopo l’acquisizione di Elon Musk di Twitter, in pratica non si parla d’altro. Elon Musk ha dichiarato di avere acquisito il social per trasformarlo in uno spazio digitale di informazione libera, non censurata, non moderata, se non nei limiti della legge. In molti hanno espresso dubbi sul fatto che questi siano i veri obiettivi di Musk. Ma certamente Musk aveva già espresso le sue opinioni relative al diritto di espressione e di opinione. Durante la pandemia si è schierato contro l’obbligatorietà del vaccino e a favore delle proteste dei camionisti. E agli esordi della guerra Russia Ucraina si è espresso contro la censura dei siti e contenuti russi, pur non condividendone le opinioni. Negli ultimi due anni i social hanno modificato le proprie policy sul “free speech”. Accusate di diffondere fake news, le piattaforme hanno cercato di accreditarsi come strumenti di informazione e formazione sociale qualitativa. Ma insieme all’acqua sporca hanno buttato via il bambino. Non è per nulla chiaro chi ha il diritto e le conoscenze per definire che cosa è che cosa non è una fake news. Ed è evidente che i fact checker non contemplano i posti come epistemologici armati di approfondite teorie su cosa è la verità, ma che sono guidati da linee guida politiche, ideologiche e commerciali. Musk è entrato su questa diatriba con una formula con meno lati oscuri di chi privilegia il controllo: non esistono verità assolute, il mondo è pluralistico per definizione e la libertà di opinione, espressione e parola è dunque un diritto assoluto. Non è il solo a pensarlo. Anzi la stessa promessa di libertà di espressione potrebbe far crescere la popolarità di Twitter, facendone dispiegare metaforicamente le ali. Ecco forse è questo l’obiettivo di business di Musk: Trasformare la libertà di espressione in un business model, laddove invece gli altri social hanno dato la priorità alla sorveglianza. Nel frattempo, altri social e piattaforme di contenuti nascono e fioriscono con questa formula. È il caso di Substack, piattaforma di newsletter per autori e scrittori. Ma anche di Truth Social, il social network di Donald Trump, che pur tra luci e ombre, è stato certamente il grande censurato della restaurazione del controllo sui social.
Proprietà dei dati e partecipazione del valore
Quest’ultimo punto è il più critico. Ma solo perché non è chiaro come deve essere affrontato. Chi è il proprietario delle opinioni che esprimiamo sui social, dei contenuti che pubblichiamo, delle azioni che svolgiamo? La risposta sembra ovvia: “noi, chiaramente”. Ma è la risposta sbagliata. Il proprietario di tutto quello che avviene sui social non siamo noi. In qualunque momento la piattaforma può cancellare i nostri contenuti, bloccare i nostri account e revocare persino l’accesso a gruppi, risorse, pagine che gestiamo. Alla radice di tutti i problemi dei social, vi è dunque il tema di proprietà dei dati e delle informazioni. Non è dunque questione di sapere se siamo liberi di esprimere un’opinione contraria al vaccino o all’invio delle armi. Il problema è che tale opinione appartiene a Meta, Microsoft e Twitter. Chi si sta occupando di questa tematica lo fa all’interno di un movimento, per il momento confuso ed eterogeneo, che si chiama Web 3.0. Il movimento del Web 3.0 punta a sviluppare un differente modello di rete. I cardini del movimento sono: decentralizzazione, blockchain, proprietà dei dati, pluralismo, partecipazione al valore della piattaforma. Il movimento web 3.0 predica uno sviluppo tecnologico decentralizzato, basato sui protocolli certificati della blockchain. La prima conseguenza di questo è che i dati dell’utente appartengono all’utente, in maniera assoluta, non vincolata ai capricci o termini di utilizzo della piattaforma. La seconda conseguenza è che gli utenti possono detenere porzioni del valore delle piattaforme in cui operano. Il meccanismo è quello dei token. Le piattaforme basate su blockchain possono emettere token che permettono agli utenti di acquisire “azioni” della piattaforma, che possono assegnare diritti di proprietà oppure alla distribuzione degli utili e dei guadagni della società. Attraverso la decentralizzazione, tutto questo avviene senza enti intermediari finanziari o legali che certificano, autorizzano, appurano e consentono. È la stessa blockchain attraverso gli “smart contract” che consente di distribuire i token, certificare e assegnare specifici diritti ai possessori.
Web 3.0 e metaverso
Il web 3.0 si sta sviluppando intorno al Metaverso. Il web a due dimensioni, d’altra parte, è completamente colonizzato e creare nuovi social non è facile come sembra. Chi ci ha provato ha fallito nel 99,9% dei casi. Il metaverso invece è uno spazio di opportunità non ancora definite. Non esiste un operatore monopolista. Al momento ci sono decine di metaversi basati su varie tecnologie, ciascuno con le proprie regole. Ma anche in questo caso, non è tanto ciò che puoi fare nei metaversi a fare la differenza, ma il meccanismo di partecipazione alla sua costruzione.
Decentraland
Decentraland è uno dei mondi virtuali persistenti basati su blockchain. È nato nel 2020 grazie ad una ICO (Initial Coin Offering), ovvero una raccolta di capitale aperta a tutti come il crowdfunding ma tramite crypto valuta e con un modello temporale simile a quello della quotazione in borsa, ma senza intermediari finanziari. Ha sviluppato il proprio sistema blockchain tramite il protocollo Ethereum ed oggi conta circa 300 mila utenti attivi. Gli utenti che hanno investito durante l’ICO oggi dispongono di token di proprietà del metaverso. Sono azionisti di Decentraland. Tutti gli utenti inoltre hanno diritto di voto allo sviluppo della community, i cui argomenti vertono dalle regole di convivenza, all’introduzione di nuove funzionalità. Il livello di partecipazione alla vita della comunità è progressivo e basato su differenti livelli di privilegi. I proprietari dei token dell’ICO hanno un peso maggiore dei proprietari di terreni virtuali. I quali a loro volta hanno un peso maggiore degli utenti semplici. Il sistema non è perfetto, ma si basa su meccanismi di partecipazione infinitamente più evoluti rispetto a quelli che vediamo nel web 2.0. Gli utenti non votano a vuoto, non si tratta di customer feedback, che può essere ignorato. Ma partecipazione civile tramite votazioni formalmente eseguite e certificate tramite blockchain volte, alla costruzione delle regole di convivenza. Il web 3.0 attraverso l’evoluzione dei metaversi ci porta in una dimensione completamente diversa rispetto a quella dei social tradizionali. È tutto da costruire e pieno di ingenuità, ma le prospettive sono chiaramente affascinanti.
Conclusioni
Non molti mesi fa, Facebook ha cambiato pelle. Il nome della società è diventato Meta. Il metaverso interessa anche a Zuck. La grande sfida del movimento del web 3.0 è quella di riuscire a creare realtà solide, abitate e utilizzate da un sufficiente numero di persone in grado di resistere alla discesa in campo dei grandi Molock del web 2.0