le questioni aperte

Una nuova “vigilanza sociale” per un’etica del digitale

La Rete – diritto universale – può costituire un potente motore di sviluppo e creazione di nuova occupazione, purché si metta al centro etica e bene comune per uno sviluppo sostenibile, con la tutela dei dati personali, una vigilanza sullo (stra)potere degli algoritmi e un occhio di riguardo per le categorie più deboli

Pubblicato il 05 Dic 2017

Fulvio Ananasso

Presidente Stati Generali dell’Innovazione - Consigliere Club Dirigenti Tecnologie dell’Informazione

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Il miglioramento della qualità della vita e lo sviluppo economico stimolati dal progresso tecnologico non devono far dimenticare la necessità che etica e bene comune siano al centro di tutte le attività collegate alla Società della Rete, incoraggiando l’assunzione delle responsabilità sociali di tutti gli stakeholder (società civile, imprese, finanza, istituzioni), la gestione di persone e risorse finalizzata a migliorare la qualità della vita, e politiche atte a proteggere la dignità degli utenti e delle persone influenzate dai sistemi e dalle relative tecnologie.

Le soluzioni big data, cognitive computing, intelligenza artificiale pongono infatti nuove sfide etiche che richiedono un processo di maturazione ed evoluzione dei criteri di valutazione per tutti coloro che operano nel settore. A tale riguardo, il network EthosIT intende «mettere a fattore comune attività e conoscenze di professionisti, aziende e associazioni per contribuire allo sviluppo sociale ed accrescere l’attenzione ai temi legati all’etica, alla sostenibilità e alla solidarietà», con l’obiettivo di sostenere nel settore delle information & communication technologies (ICT) uno sviluppo professionale attento ai temi dell’etica e della corporate social responsibility (CSR) nelle imprese, sensibilizzando aziende e professionisti del settore sull’importanza dell’uso della tecnologia anche per fini di sviluppo sociale.

In tale contesto si inseriscono altresì le iniziative dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), per il presidio dei 17 sustainable development goals (SDG) dell’Agenda ONU 2030. Molti di essi hanno a che fare con l’accesso inclusivo a internet, che può rappresentare una grande occasione di sviluppo sostenibile e creazione di nuova occupazione. Ci sono però costi sociali indotti dall’evoluzione tecnologica: nel breve-medio termine vengono tagliati posti di lavoro, che si spera vengano compensati da nuove tipologie di occupazione.

Pertanto, nel guardare alla Rete come motore di innovazione e sviluppo nell’economia digitale, occorre considerare temi relativi non solo alle nuove tecnologie – hardware, software, processi- ma anche (e soprattutto) al loro impatto e relativi effetti (non sempre o necessariamente positivi) sulla vita di tutti i giorni delle persone — tracciamento dei dati personali / profilatura degli utenti, robotica e nuovi “lavori”, cyber risks, fake news, hate speech, ecc.

Sarebbe bene, al riguardo, partire dai temi etici fondamentali evidenziati con grande maestria nella “Dichiarazione dei Diritti in Internet” messa a punto il 14 luglio 2015 dalla Commissione per i diritti e i doveri relativi ad Internet (voluta dalla Presidente della Camera Laura Boldrini e presieduta dal compianto Stefano Rodotà), approvata con voto bypartisan del Parlamento Italiano il 3 novembre 2015 ed incorporata nella Risoluzione congiunta UE all’Internet Governance Forum 2015 (ONU) di Joao Pessoa (9-13 novembre 2015).

Essa individua nella Rete prima di tutto un diritto universale, declinato attraverso 14 articoli incentrati sui diritti di cittadinanza in Rete – diritto all’accesso, alfabetizzazione, neutralità della rete, privacy, oblio, … -, con la premessa base (non vincolante, ma importante strumento di indirizzo e moral suasion per l’autoregolamentazione della Rete) che internet non può essere assimilato agli altri media, e la tutela dei diritti della persona deve prevalere sui profitti. Internet aperto e accessibile ovunque, accesso non discriminatorio alla conoscenza e all’informazione, cybersecurity (in particolare per le infrastrutture critiche) e protezione dei dati personali sono alla base della Dichiarazione e della Risoluzione congiunta UE di Joao Pessoa.

C’è però il serio problema – già citato – dei potenziali costi sociali indotti dall’evoluzione tecnologica: il tema del “lavoro” nella società della trasformazione digitale. Le nuove tecnologie riducono i posti di lavoro nel breve / medio termine, ancorché una formazione ICT specifica dovrebbe aprire, nel medio / lungo termine, nuove opportunità nei settori emergenti (Impresa 4.0, robotica, intelligenza artificiale, data science, …), aumentando il benessere e le possibilità di nuova occupazione, come generalmente accaduto sinora in occasioni delle grandi trasformazioni sociali. Tali trasformazioni hanno però spesso comportato periodi transitori più o meno lunghi di assestamento, con risvolti talvolta tragici — suicidi, moti di piazza, repressioni spietate.

È pertanto necessario che si instauri una vigilanza «sociale» affinché l’etica dei comportamenti prevalga su opportunismi egoistici e rischi di sfruttamento e sopraffazione dei più deboli. Piattaforme, algoritmi, giganti del web stanno infatti creando mercati del lavoro fortemente instabili e precari, basati sulla totale e incondizionata disponibilità della forza-lavoro a fornire prestazioni e “micro lavori” al limite dello sfruttamento. Molti si giovano dei nuovi lavori “on-demand” della sharing economy (v. Uber, Airbnb), ma questa “gig economy”, se da un lato crea nuove “occupazioni” sfruttando l’innovazione, dall’altro solleva quesiti ansiogeni circa i buoni lavori del futuro e le relative protezioni del posto di lavoro. Infine, c’è il tema del lavoro digitale “social” (non retribuito), che tutti facciamo addestrando i sistemi di intelligenza artificiale con i nostri like o fornendo gratuitamente contenuti mediante user generated content.

Del resto, l’innovazione tecnologica dovrebbe contribuire al benessere di tutti e ridurre le disuguaglianze, come recita anche il SDG 10 dell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile (“Ridurre disuguaglianze nelle e tra le Nazioni”). È istruttivo rilevare al riguardo come i protagonisti dell’Economia Digitale GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), oltre a rappresentare come capitalizzazione di Borsa il quinto GDP al mondo, esprimano 3 delle 8 persone che nel 2016 possedevano metà della ricchezza del Pianeta – erano 388 nel 2010 e 62 nel 2015 (fonte Oxfam).

C’è quindi il tema dei “tax havens” (tra cui Oxfam colloca anche Irlanda, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi nell’UE), che pone il problema (dei tentativi di) “digital tax” sulle transazioni (quella del 6% proposta in Italia è rinviata al 2019). È etico imporla sulle transazioni? E il “lavoro digitale” indiretto che gli utenti svolgono? I servizi che riceviamo sono infatti (percepiti come) «gratuiti» ma … se un prodotto è gratis, il prodotto siamo noi! Forniamo in realtà un grande valore (le informazioni su di noi), e oltre a ricavi ingentissimi per gli over the top (OTT) / GAFAM (spesso non adeguatamente tassati, al di là delle diatribe sulle territorialità fiscali), la domanda cruciale riguarda la proprietà e gestione di queste informazioni: i dati appartengono alle persone ovvero alle piattaforme che li gestiscono? E come vengono gestiti i nostri dati?

Sono tutti temi e quesiti che aumentano la consapevolezza della necessità di un percorso di approfondimento sui vari temi citati – che qui iniziamo. La Rete – diritto universale – può costituire un potente motore di sviluppo e creazione di nuova occupazione, purché si metta al centro etica e bene comune per uno sviluppo sostenibile e si attui una ricerca e innovazione responsabile, con particolare riguardo alla tutela dei dati personali / diritto alla privacy nelle nuove frontiere della Scienza dei Dati, e alla vigilanza sullo (stra)potere degli algoritmi e piattaforme per la salvaguardia dei diritti degli utenti e dei (nuovi) “lavoratori” del settore, specialmente le categorie più deboli e meno scolarizzate.

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