rubrica videogame culture

Undertale e la libertà del videogamer: perché le nostre scelte pesano sul gioco

In Undertale, gioco di ruolo nel quale muoviamo un bambino intento a uscire da un mondo sotterraneo, con puzzle e mostri davvero interessanti, l’aut aut kierkegaardiano ha un ruolo molto importante. La libertà concessa al videogiocatore ha un peso negli eventi. Scegliere o non scegliere è una decisione carica di conseguenze

Pubblicato il 23 Lug 2020

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

undertale

La grafica semplice di Undertale riporta il videogiocatore indietro nel tempo. La pixel art di questo bellissimo indie di Toby Fox è volutamente minimalista, ma molto ben curata. Al di là del reparto audio-visivo dallo stile rétro, la storia e la meccanica restano avveniristiche ancora oggi, a cinque anni dalla sua uscita. Le musiche sono assai varie e contribuiscono a rendere questo gioco di ruolo non solo un gioiello dell’indie, ma dell’intero panorama video-ludico.

I personaggi hanno la speciale abilità di superare la quarta parete. Un po’ come Dead Pool sa di essere un supereroe inventato dalla Marvel, gli sprite di Undertale conoscono le partite precedenti, le azioni che il giocatore ha compiuto e sanno rispondere in maniera ficcante rivolgendosi direttamente al gamer. Quando giochiamo ci sentiamo spiati e molto spesso anche gabbati.

Non deve sorprendere quindi che tanto seguito il gioco abbia, anche tra adolescenti e pre-adolescenti; persino con una community che ha prodotto fan game alternativi, basati su Undertale, in un gioco di remixing che è nel pieno spirito della rete. Che c’è dietro questo fenomeno?

Videogiochi e immedesimazione

A tal proposito mi torna in mente un personaggio di Metal Gear Solid del 1998, Psycho Mantis. Anche questo boss sembrava superare la quarta parete, sapendo prevedere tutte le mosse del giocatore. Era apparentemente invincibile. Un buon videogioco deve permettere l’immedesimazione, deve ingannare il videogiocatore dandogli l’impressione di starsi muovendo in una fisica reale. Durante la partita non si deve mai avere la sensazione di star giocando dentro un software programmato per gestire le nostre azioni con reazioni appropriate. Lo sviluppatore è un narratore onnisciente che deve comprendere tutte le possibili mosse, sia dell’uomo sia del computer, al fine di rendere fluida l’esperienza di gioco. Ogni “se… allora…”, ogni condizionale è allacciato in loop e variabili booleane in modo da garantire la massima naturalità al game play. Tuttavia, è proprio questa costruzione di naturalezza a rivelare, sotterraneamente, l’artificialità dell’ambiente, delle mosse, della causa-effetto. Se seguissimo i veri tempi di reazione di un pc non otterremmo che azioni immediate. Dal nostro punto di vista sarebbero praticamente razioni simultanee, dandoci come l’impressione che gli sprite ci leggessero nella mente. È su quest’illusione che si basò Metal Gear Solid.

Per simulare la reazione umana, il programmatore inserisce pause di millisecondi per ritardare realisticamente gli output che il programma deve fornire. Le contromosse dei nemici, allora, appariranno come se fossero eseguite da esseri biologici e noi, in questo modo, avremmo qualche chance di vittoria. Se il videogioco non fosse programmato per atteggiarsi come un essere umano, si comporterebbe da computer, sapendo bloccare immantinente ogni colpo.

Il computer sa tutto

Il computer sa tutto, ha tutto in memoria e il programmatore può decidere di fargli usare quelle informazioni nel gioco stesso, offrendo al giocatore la sensazione di star assistendo a una magia. È quello che accade in Undertale, dove Flowly, ad esempio, dimostra di sapere tutto, compreso il fatto di essere stato ucciso in un salvataggio precedente e farlo pesare al videogiocatore, muovendo sul suo “senso di colpa”. Dal punto di vista di un computer è un’abilità costitutiva questa di conoscere i vecchi savegame, ma grazie all’immersività e grazie all’abitudine di avere a che fare con umani, per i quali, per fortuna, le intenzioni restano sommerse nel non detto e nel non saputo, Flowly ci appare come un vero mago. In pratica è un passo avanti del Test di Turing. In Undertale non è superato un test che ci convince di avere a che fare con un essere umano, in questo caso crediamo di star giocando a una magia. Le esperienze hanno a che fare con l’ordine delle mirabilia.

In Metal Gear, Psycho Mantis impone addirittura la rottura dell’immersività stessa. Finché si continua a giocare sul terreno di scontro del computer, quest’ultimo inevitabilmente ha la meglio. Per batterlo dobbiamo cambiare arma: dobbiamo usare il nostro piano della realtà. Psycho Mantis per essere sconfitto va ingannato. È necessario interrompere il canale attraverso cui il nemico ti “legge nella mente”, cioè disconnettendo il controller dalla porta uno e reinserendolo in quella due. Il videogioco, in effetti, non si ferma mai al gioco. Si gioca sempre anche al di fuori della virtualità: è bilocazione, è capacità strategica e visione di insiemi, più che di insieme. Metal Gear era la prova che il videogioco non scollegasse il gamer dalla sua realtà, come spesso viene lamentato. Il videogiocatore era collocato su possibilità di azione plurime. Si trattava insomma di un training di intelligenza e strategia.

A proposito di strategie di sopravvivenza, Undertale è un gioco di gran valore anche per la possibilità di mettere in pratica diverse modalità di sopravvivenza, da cui derivano soluzioni narrative differenti. Spesso il videogioco sembra procedere per una diegetica predestinata, una sorta di ineluttabilità luterana per cui le nostre opere non possono cambiare il corso degli eventi. Tutto è già scritto nel progetto divino, ossia nel codice. Nei videogame, al di là del game over, le azioni soggettive non hanno effetto sugli altri personaggi, sui dialoghi, sui bivi, tutto appare per come è deciso debba essere. In Undertale così non è, le scelte personali hanno un effetto su tutta la storia, e anche le decisioni passate e annullate, come si è visto, incidono nel copione.

In Undertale la contro-storia, le condizioni ipotetiche sono bivi che avremmo potuto prendere e che altri giocatori hanno davvero imboccato. Le situazioni what if, in questo caso, hanno realtà piena nell’esperienza di altri gamer, o nella nostra, qualora ricominciassimo il gioco agendo diversamente.

La libertà del videogiocatore

In questo gioco di ruolo nel quale muoviamo un bambino intento a uscire da un mondo sotterraneo, con puzzle e mostri davvero interessanti, l’aut aut kierkegaardiano ha un ruolo molto importante. La libertà concessa al videogiocatore ha un peso negli eventi. Bisogna capire, cioè, quale progetto abbiamo in mente, come vogliamo vadano le cose, per agire responsabilmente e coerentemente in quella direzione. Il videogiocatore è totalmente attivo nella storia: gamer in fabula. È possibile scegliere se adottare un approccio aggressivo o meno, se uccidere i mostri o se lasciarli in vita. Questo “OR”, questa disgiunzione inclusiva condiziona i dialoghi, le scene e il finale stesso. Ci suggerisce che tutto dipende da noi, non solo nel qui ed ora, potendo morire e quindi ricominciare la partita, ma sul lungo termine.

La storia è costruita per e sul giocatore. A seconda di come agiamo, ognuno avrà un game play diverso. L’intervallo di possibilità narrative corre da un estremo di pacifismo fino a un massimo di violenza. Anche la difficoltà varia in base alla scelta di aver giocato risparmiando vite o uccidendo ogni avversario. Le nostre azioni hanno effetti precisi: quello che ci capita nel gioco non è un evento randomico. La posta in gioco, allora, è la responsabilità di essere liberi di scegliere tra modalità di sopravvivenza alternative. Adottare una via aggressiva o percorrere un approccio non violento sono entrambi modi efficaci per vincere.

Viene, insomma, riproposta, e in forma di “learning by doing”, la filosofia di Kierkegaard.

Conclusioni

Soren sosteneva che ognuno dovesse scegliere e che questo comportasse la presa in carico di una responsabilità di fronte a tutto ciò che abbiamo intrapreso. L’edonista vorrebbe appropriarsi di ogni percorso, perché scegliere comporta sempre una perdita e quindi un lutto. Inoltre, assumersi la responsabilità di giudicare tra varie opzioni investe gli individui di un peso esistenziale non indifferente: è più facile, dunque, non scegliere o scegliere tutto. In questo caso non verremmo toccati dal terrore di aver sbagliato o dall’angoscia di dover rendere conto della posizione presa. Kierkegaard rammenta, però, che nella partita che chiamiamo vivere non è possibile imboccare qualunque via. Inoltre, decidere di essere passivi, di farsi trascinare dagli eventi, senza ponderare le decisioni in modo critico, è, in realtà, una scelta: si tratta della scelta di non scegliere.

In Undertale questa possibilità è rappresentata da un finale neutrale. Se durante la partita è mancato un progetto coerente con cui motivare la nostra azione, l’esito sarà un “the end salmastro”. Se i nemici sono stati indiscriminatamente eliminati o salvati solo per fattori stocastici, anche in questo caso, però, Undertale ci pone di fronte alla responsabilità di aver generato un finale in linea con le nostre azioni. Scegliere o non scegliere resta una decisione carica di conseguenze.

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