La società attuale viene trasformata vieppiù dalle tecnologie digitali, in particolare dall’intelligenza artificiale (IA), quale tecnologia ubiquitaria. Ma questa trasformazione pone un inquietante enigma: l’IA non ha finora svolto un ruolo determinante nella redistribuzione della ricchezza così come si paventa la possibile sostituzione della forza lavoro, vi è un problema crescente di up/re-skilling e si accrescono le discriminazioni algoritmiche a livello sociale e culturale.
L’impatto dell’IA su lavoro e produttività
In linea generale, l’IA ha un impatto sostanziale sull’economia in termini di produttività, crescita, disuguaglianza, innovazione e occupazione. In molti casi, la sostituzione delle macchine con il lavoro umano porta all’espansione economica e a un aumento della domanda di lavoro in attività non automatizzate poiché il costo di produzione diminuisce e ciò è chiamato effetto di produttività. A questo riguardo, la redistribuzione derivante dalla ricchezza dell’IA potrebbe essere equa e inclusiva, oppure parziale e favorire solo alcuni gruppi sociali, i quali beneficiano del potere socio-economico che si concentra sempre più nelle loro mani. In un contesto siffatto, ci si può chiedere, dunque, del perché l’IA attuale non riesca a generare una redistribuzione diffusa nell’intera società e del perché vengono alimentate le diseguaglianze economiche soprattutto nel caso specifico dello spiazzamento della forza lavoro a opera delle “macchine intelligenti” (smart machines).
IA e aumento della diseguaglianza economica
Tuttavia, la situazione non è stata sempre così. Fino a qualche tempo fa, molti studiosi credevano che il progresso tecnologico generasse automaticamente una prosperità diffusa una volta che l’economia avesse attraversato un periodo di distruzione creatrice (Schumpeter). Nonostante ciò, a partire dagli anni Ottanta, il progresso tecnologico è stato accompagnato da un significativo aumento della disuguaglianza. Ad esempio, David Autor in un articolo del 2015 “Why are there still so many jobs? The history and future of workplace automation”, nell’esaminare un’ampia letteratura economica giungeva alla conclusione che l’automazione aveva portato a una polarizzazione del mercato del lavoro, in cui le occupazioni a medio reddito, collegate a mansioni di routine, erano state sostituite da posti di lavoro a basso reddito, mentre quelle al vertice, della distribuzione del reddito, avevano fatto registrare guadagni significativi, portando a un aumento della disuguaglianza economica tra le varie professioni. A ciò si può aggiungere che, negli ultimi due decenni, i salari mediani, ovvero la retribuzione di un lavoratore tipico, sono cresciuti a un ritmo più lento rispetto alla produttività complessiva, e che tale divario è aumentato nel corso del tempo.
Intelligenza artificiale “so-so technologies” e risentimento sociale
Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, in un articolo del 2020 “The wrong kind of AI? Artificial intelligence and the future of labour demand”, forniscono prove convincenti del ruolo sostitutivo (effetto di spiazzamento) dell’automazione e dei robot nei confronti dei lavoratori umani e del decremento della crescita salariale degli stessi. Secondo i loro dati, dal 50 al 70% della crescita della disuguaglianza salariale negli Stati Uniti, tra il 1980 e il 2016, è stata causata dall’automazione. E ciò è avvenuto prima dell’adozione massiva dell’IA per cui, a tutt’oggi, le disuguaglianze potrebbero essersi ancor più accentuate. La spiegazione addotta è che le imprese scelgono spesso di implementare le cosiddette “so-so technologies”, le quali generano piccoli miglioramenti di produttività piuttosto che creare nuove ed estese opportunità di business. E ciò avviene perché l’effetto positivo sulla produttività di queste tecnologie “così così” non è sufficiente a compensare il calo della domanda di lavoro dovuto all’effetto spiazzamento: di fatto, le imprese utilizzano il capitale più economico rappresentato da queste tecnologie nello svolgimento di compiti precedentemente svolti dai lavoratori.
Collaborazione uomo-AI, a che punto siamo? Limiti e prospettive
Erik Brynjolfsson in un articolo del 2022 “The Turing trap. The promise & peril of human-like artificial intelligence”, sostiene, infine, che una sorta di ossessione imitativa dell’intelligenza umana, esemplificata dalla macchina di Turing, teorizzata dal matematico, informatico, logico, crittoanalista e filosofo inglese Alan Mathison Turing [1912-1954], ha portato alla diffusione pervasiva di una IA che troppo spesso ha il mero obiettivo di sostituire i compiti svolti dai lavoratori piuttosto che estendere le capacità umane e consentire così agli stessi di svolgere nuovi compiti collaborativi (human-AI collaboration), evidentemente al netto di tutti i bias cognitivi degli stessi lavoratori. L’eccessiva attenzione ai compiti simil-umani, svolti dall’IA attuale, ha così l’effetto di ridurre i salari, per la maggior parte dei lavoratori e, nello stesso tempo, di amplificare il potere di pochi, concentrando la ricchezza prodotta nelle mani di coloro che possiedono e controllano le tecnologie “così così”.
In tale quadro generale, non può che aumentare il risentimento sociale, alimentato anche nelle echo chambers dei social media, in quanto la percezione diffusa è che i benefici economici vadano sostanzialmente alle élites dei magnati tecnologici e, a cascata, seppur in misura notevolmente ridotta, ai tecnici maggiormente connessi con l’IA i quali costituiscono tuttavia solo una ristretta porzione dell’intero corpo occupazionale/professionale.
L’alternativa è un’IA dal volto umano
Cosa si può proporre in alternativa, a una situazione che rischia politicamente, culturalmente e socialmente di sfuggire di mano? Come si potrebbe impostare un percorso di innovazione tecnologica che abbia anche un “volto umano”, a dir il meno collaborativo, parafrasando il testo di John Budd del 2005 “Employment with a human face. Balancing efficiency, equity, and voice”? Il lavoro è, difatti, un’attività pienamente umana con ricompense materiali, sociali e psicologiche. Come tale, i lavoratori hanno diritto sia all’equità che ad avere una “voce” sul posto di lavoro. L’attenzione all’efficienza economica dovrebbe essere bilanciata, dunque, dall’inclusione di equità e “voce”.
Non è facile, chiaramente, proporre delle soluzioni appropriate ma l’accento potrebbe essere messo sull’eventuale freno alle tecnologie “così così” in direzione di altre che possano rappresentare una migliore integrazione coi lavoratori umani. In questo senso, i decisori politici, anche in ambito comunitario, potrebbero legiferare affinché l’ecosistema normativo disincentivi un’eccessiva diffusione di una IA simil-umana.
All’opposto, potrebbero essere sovvenzionate quelle innovazioni che portino a un “ottimo sociale”, in un’ottica di economia del benessere, in cui si tende a raggiungere il massimo benessere collettivo e in cui anche l’equità e la “voce” abbiano un ruolo significativo oltre la mera efficienza economica. È evidente, infine, che l’individuazione di un “ottimo sociale” presupponga la formulazione di alcuni giudizi di valore e che si tratti di definire preliminarmente “cosa sia giusto” e “cosa sia sbagliato”.
IA e benessere sociale
Nel caso specifico dell’introduzione dell’IA, ci si dovrebbe chiedere, pertanto, quando aumenta e quando si riduce il benessere sociale. In carenza di ciò, si vede assai bene come l’attuale discorso pubblico ed economico ponga l’accento, sull’onere dell’adattamento alle tecnologie ubiquitarie, solo sui lavoratori e sui governi, compresi quelli dei Paesi del Sud globale.
Rispetto ai lavoratori, a essi si chiede di aggiornarsi continuamente (up/re-skilling) per rimanere pienamente occupabili in un mercato del lavoro dinamico che viene velocemente rimodellato dalla diffusione dell’IA. Rispetto ai governi, a essi si chiede che, ad esempio, rafforzino vieppiù le reti di sicurezza sociale, espandano e finanzino i programmi di formazione e occupabilità quali la “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (GOL) e il “Fondo Nuove Competenze” (FNC), promossi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Tutte queste iniziative sono finanziate, in genere, dai contribuenti – a prescindere dalla situazione contingente delle risorse messe a disposizione dal PNRR – vale a dire dalla società intesa nel senso più ampio.
Ma sarebbe così impopolare e antieconomico se si chiedesse di sostenere una parte di tali oneri, in vista di un “ottimo sociale”, anche alle piattaforme estrattive che realizzano ingenti profitti tramite la diffusione delle tecnologie “così così”?
Conclusioni
In conclusione, non resta che sottolineare un’evidente implicazione di policy rispetto a quanto sin qui sostenuto, vale a dire che le istituzioni governative, anche in ambito comunitario, dovrebbero perseguire con convinzione gli obiettivi di una crescita socio-economica inclusiva non solo mediante l’attivazione di una serie di politiche attive quali, a solo titolo esemplificativo, l’accesso alla formazione continua e i servizi pubblici per l’impiego in un’ottica di up/re-skilling, quanto piuttosto incentivare progetti di collaborazione human-AI nonché prevedere delle modalità di partecipazione agli “oneri” sociali della transizione digitale, da parte delle piattaforme estrattive, da versare a organismi pubblici o privati erogatori di prestazioni di politiche attive a favore dei lavoratori interessati dall’introduzione di tecnologie “così così” e IA simil-umane.
*Le opinioni qui espresse sono strettamente personali e non coinvolgono quelle dell’Ente di appartenenza.