Facendo leva sull’abusato aggettivo “virtuoso”, anche questo Governo, come quelli che si sono susseguiti negli ultimi venti anni, sta perseguendo la politica di accentrare nel nord Italia le risorse finanziarie e intellettuali per poter sorreggere uno sviluppo economico che trova sempre più difficoltà dal punto di vista dell’innovazione.
Lo si vede con le misure della Legge di Bilancio 2019, che stabilisce le risorse da assegnare alle università in base a un algoritmo opaco e arbitrario.
Il tutto mentre il nostro Paese continua a essere caratterizzato da uno dei più bassi tassi di laureati nella fascia d’età tra 24 e 35 anni e tantissimi fra i giovani che si laureano continuano a fuggire all’estero in cerca di occupazione.
Un quadro desolante, che induce a riflettere su quali dovrebbero essere le strategie per rilanciare davvero università e ricerca: serve, prima di tutto, una rivoluzione culturale.
Con la Legge di Bilancio 2019 risorse alle università del Nord
Le risorse sono poche e non devono essere sprecate. In base a quell’algoritmo, i virtuosi devono essere premiati e chi virtuoso non è, deve essere punito ricevendo meno finanziamenti.
Questa è la ricetta prima teorizzata e quindi negli ultimi anni messa in atto nel sistema nel sistema universitario e della ricerca negli ultimi venti anni e questo è quello che sta facendo anche questo governo.
Sembrerebbe la via giusta, ma una riflessione più attenta mostra che non lo è per niente e che questa politica è del tutto insensata. Il Ministro dell’Istruzione Bussetti qualche giorno ha fa ha annunciato che le assunzioni tornano, finalmente, a crescere nelle Università così che gli atenei “virtuosi” potranno andare ben oltre il normale turn over grazie alle misure previste dal decreto sulla distribuzione dell’organico nell’università nel 2018.
A bene vedere però le misure adottate dal Governo, non comportano una crescita complessiva dell’organico, ma solo un travaso da un ateneo all’altro: mentre alcuni atenei ci guadagnano, altri saranno costretti a ridurre ulteriormente il loro organico.
In pratica c’è una ripartizione delle risorse che segue una direttrice sud-nord: è come se nel corso del 2019 l’equivalente di 280 ricercatori dovesse abbandonare gli atenei meridionali per essere trasferiti nelle più ricche università settentrionali. Vogliamo premiare i virtuosi si dirà: ma cosa vuole dire “virtuoso”?
Non certo chi fa didattica eccellente o ricerca d’avanguardia. Il governo Monti stabilì che i pensionamenti avvenuti in un ateneo A possono essere rimpiazzati da assunzioni in un ateneo B, se B ha un bilancio più solido del (più virtuoso) ateneo A. In questa maniera gli atenei milanesi incamerano l’equivalente di 168 ricercatori in aggiunta al rimpiazzo dei propri pensionamenti: si tratta di un organico sottratto agli atenei del Centro-Sud (Napoli, Palermo e Roma).
Un ateneo per diventare più virtuoso deve semplicemente aumentare le tasse universitarie, senza curarsi del tetto massimo prescritto dalla legge e sulla cui violazione nessuno vigila ma anzi viene bellamente ignorato.
I danni delle misure del Governo
Nella neolingua della politica italiana l’aggettivo “virtuoso” serve dunque per giustificare una politica ispirata dal versetto 25,29 del Vangelo di Matteo che recita: «Perché a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha».
L’«effetto san Matteo» indica, infatti, il processo per cui le risorse sono ripartite fra i diversi attori in proporzione a quanto hanno già: «i ricchi si arricchiscono sempre più, i poveri s’impoveriscono sempre più». Si tratta della stessa logica della “trickle down economics”: questa maniera di distribuire le risorse avvantaggerebbe, attraverso un effetto di sgocciolamento dall’alto verso il basso, l’intera società.
Nel caso dell’istruzione superiore, molti governi considerano obiettivo principale della loro politica quello di avere università nel top delle classifiche mondiali degli atenei, come se questa fosse la panacea per garantire il successo dei propri paesi nell’economia globale.
Siamo di fronte alla sostituzione di una politica universitaria e educativa nazionale con algoritmi automatici che dovrebbero fornire una misura quantitativa sullo stato del sistema in relazione a certi criteri (l’eccellenza, la virtuosità), la cui strutturazione e il modo di impiego rimane oscuro e sottratto al controllo democratico.
Tuttavia, l’algoritmo restituisce ciò che gli si mette dentro; e quel che gli si mette dentro lo decidono gli uomini. Quindi l’algoritmo è un’arma letale buona solo a celare la mano di chi l’impugna.
Bisognerebbe invece considerare che tra le dieci regioni europee con i valori più bassi di laureati (fascia di età tra 30/34 anni, dati 2014) ci sono la Sardegna (penultima) la Sicilia, la Campania e la Basilicata e che gli immatricolati nel mezzogiorno sono crollati rispetto a quello del Nord Italia (erano 100 sia al Nord che al Sud nel 2001, sono diventati 95 e 83 nel 2013).
Il problema è che se in una situazione di sottosviluppo si usano degli indicatori come l’ammontare delle tasse universitarie come parametro per distribuire le risorse si sta facendo una scelta politica in linea con l’effetto San Matteo. È questo il motivo per cui nell’ultimo decennio l’università italiana è stata ridimensionata in modo selettivo: più al Sud che al Nord e poiché si partiva già da una situazione sottodimensionata, l’impatto sistemico al Sud finisce per compromettere le prospettive civili ed economiche d’interi territori.
Perché si sminuisce il ruolo dell’Università
La realtà è che la formazione universitaria è considerata, dal mondo produttivo e dunque dalla politica, servire a ben poco nel mercato del lavoro del nostro paese. Abbiamo il più basso tasso di laureati nella fascia d’età tra 24 e 35 anni (poco più della metà della media dei paesi OCSE, siamo recentemente stati superati anche dalla Turchia) eppure i nostri laureati non trovano un lavoro al livello del loro grado di istruzione. C’è un’ignobile e persistente campagna di stampa secondo cui i giovani laureati non trovano lavoro perché sono “mammoni” e non hanno voglia di “sacrifici” ma in realtà questo avviene perché il mercato del lavoro non richiede persone con alto tasso di istruzione (o ne richiede troppo poche), dato che le imprese che fanno beni di alta tecnologia sono poche e piccole e sono scomparsi i traini delle grande imprese statali.
È dunque in atto un’emigrazione spaventosa di giovani laureati verso l’estero (decine di migliaia all’anno da quasi un decennio), che non è bilanciata da un flusso di stranieri con pari titoli di studio.
Nessuno sperava che questo governo avrebbe aumentato la spesa in ricerca sviluppo al 3% com’era stato fantasticato all’inizio degli anni 2000 (trattato di Lisbona), o recuperato quel 30% di produzione industriale persa dalla fine degli anni 90 ad oggi, ma era certamente possibile che facesse qualche passo per dare ossigeno al sistema universitario nazionale e soprattutto alle sue componenti più deboli, i precari e gli studenti, anche solo per volontà di reazione e contrapposizione nei confronti dei governi precedenti.
Una rivoluzione culturale
Il fatto che ciò non sia avvenuto mostra che per rilanciare l’università e la ricerca c’è bisogno di una rivoluzione culturale che metta al centro dell’azione politica uno sviluppo economico che punti all’innovazione piuttosto che al taglio del costo del lavoro; una rivoluzione che, vista la straordinaria continuità finora riscontrata lungo tutti i governi e con ogni forza politica, deve investire prima di tutto la società, facendo crescere una nuova consapevolezza dell’importanza di ricerca e cultura, così contrastando tutte le sirene che invece invitano al disimpegno e al sapere acritico.
E ci vorrebbe anche il miracolo che le diverse parti del mondo universitario maturassero questa consapevolezza e la mettessero al centro della loro azione politica.