Nell’arcipelago delle università italiane, emergono isole digitali con esperienze interessanti, ma non esiste una linea comune, né una una visione d’insieme. Nemmeno al MIUR conoscono nel dettaglio le sperimentazioni e i progetti portati avanti dai singoli Atenei.
La pratica più diffusa è quella dei MOOC (Massive Open Online Courses), corsi basati quasi sempre su registrazioni video, che attraverso la rete raggiungono un numero pressoché illimitato di studenti (con una sola barriera: quella linguistica). “Vanno bene le piattaforme di e-Learning, ma non bastano i MOOC, non è quello il punto centrale, i ragazzi delle scuole secondarie stanno sempre più cambiando il loro approccio allo studio, usano le rete per condividere, scambiare, creare contenuti, fare gruppi di lavoro virtuali – spiega Dianora Bardi, docente di latino e italiano al Liceo Scientifico Lussana di Bergamo e tra i fondatori del Centro Studi Impara Digitale, con cui avevamo già affrontato il tema della scuola digitale –. Temo che le Università non abbiano piena coscienza di quello che succederà tra due o tre anni, che tipo di studenti arriverà sui loro banchi. Sarà un vero e proprio shock e non sono i MOOC che possono aiutare ad attutire l’urto”.
Una visione non sempre condivisa dal mondo universitario. “Magari arrivassero tanti di questi studenti, con abitudini di studio digitali, aiuterebbero a dare una scossa al mondo Universitario, ancor molto legato alla tradizione – auspica Gino Roncaglia, docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze presso l’Università degli Studi della Tuscia –. Casi di sperimentazione digitale nel mondo della scuola ce ne sono parecchi, ma sono ancora pochi quelli che portano rivoluzioni notevoli”. Scettico, non solo sui numeri, anche Juan Carlos De Martin, professore del Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino, dove ha cofondato e co-dirige il Centro Nexa su Internet e Società: “Da quando esiste l’Università, ogni volta che è stata introdotta una nuova tecnologia, partendo dal grammofono alla radio, fino ai computer, si credeva che la didattica sarebbe stata stravolta e ogni volta si sono rivelati fenomeni di nicchia. Per fare qualsiasi rivoluzione nella didattica, prima di tutto è necessari investire sui docenti, devono essere, preparati, motivati e aggiornati costantemente”. Concorda su questo punto Roncaglia: “La prima rivoluzione dovrebbe riguardare le competenze dei docenti, che spesso sono scarse anche dove si fa sperimentazione. Poi bisogna creare le infrastrutture necessarie, rete, banda larga; riorganizzare gli spazi della didattica e non ultimo ci vogliono i contenuti, siamo ancora molto lontani dall’avere contenuti multimediali efficaci”. Ma tutto questo richiede fondi e investimenti, che al momento sono molto difficili da reperire. “Quello che si fa strada è l’idea del riuso della didattica, che prima avevamo l’abitudine di sprecare ed era un peccato perché la nostra è una didattica di alto livello. Attraverso le videoregistrazioni delle lezioni il materiale viene messo a disposizione di chi non ha potuto seguire la lezione, ma anche di vuole aggiornarsi pur non essendo iscritto all’Università. In quest’ottica i MOOC sono esperienze interessanti, anche se al momento, credo difficilmente collegabili con la didattica tradizionale. In Italia rappresentano più una forma di recupero della didattica, che una vera e propria pratica didattica”.
Al Politecnico di Torino Marco Mezzalama, professore del Dipartimento di Automatica e Informatica è stato tra i primi a registrare e mettere on-line le lezioni. Inoltre, sempre in ottica di condivisione e Open education, è stato creato PORTO, l’archivio aperto delle pubblicazioni prodotte dalla comunità scientifica dell’ateneo. A Pisa, Enrica Salvatori, professore associato dell’Università di Pisa, ha creato Historycast, il primo podcast italiano di argomento storico.
Una delle realtà più consolidata e livello italiano per quanto riguarda i MOOC è certamente quella dell’Università Federico II di Napoli, che ha attivato nel 2006 Federica Web Learning, prima piattaforma per mettere in condivisione dei contenuti accademici, in maniera organizzata e sistemica. “Nel progetto sono stati coinvolti 300 docenti, per i quali sono stati avviati percorsi di avvicinamento all’open access e di alfabetizzazione informatica – racconta Rosanna De Rosa, direttore tecnico-scientifico del progetto di Ateneo “Campus Virtuale” –. Si è trattato di un’operazione difficile dal punto di vista organizzativo e piuttosto dispendiosa. Siamo stati la prima università italiana a offrire contenuti completamente open access, senza la necessità di alcuna password”.
A livello europeo negli ultimi due anni è in atto un processo di emulazione di quanto sta accadendo negli Stai Uniti, e dal 2012 sono state avviate una decina di piattaforme di MOOC, che però sono “country based”, con una forte connotazione territoriale, a partire dal limite rappresentato dalla lingua. Se si vuole ragionare a livello europeo dunque, per superare questa barriera, è necessario ricorrere l multilinguismo. In quest’ottica è nato il progetto EMMA, che il 29 settembre ha lanciato i primi 10 Massive Open Online Courses multilingue, disponibili in 8 diverse lingue, tra cui anche l’estone, con traduzione e trascrizione dei contenuti. L’Università Federico II riveste il ruolo di coordinatrice del progetto. “Era un passo necessario per entrare in un mercato nuovo, internazionale, prevalentemente presidiato dalle università americane – spiega Rosanna De Rosa –. In termini pedagogici, EMMA vuole rispettare le differenze culturali che caratterizzano l’ampio bacino europeo, dunque i contenuti variano in base all’utente. Non sono presenti solo 8 diverse lingue, ma abbiamo pensato a modelli e approcci pedagogici diversi, con l’intento di coniugare l‘aspetto ‘massive’ con la dimensione individuale, perché siamo convinti che l’apprendimento, anche in un ambiente social, resta un fatto individuale”.
Dall’esperienza di Federica emerge però che i principali utenti dei MOOC non sono gli studenti universitari, bensì laureati o lavoratori che desiderano accrescere le proprie competenze o aggiornarsi professionalmente. Non si propongono dunque come risposta a quella domanda di innovazione didattica che, stando alle previsioni di Dianora Bardi, arriverà a breve nel mondo accademico dai nuovi “studenti digitali”. La cosa però, non sembra preoccupare Rosanna De Rosa, che scherza, ma non troppo: “Internet non è un ambiente per lo studio, è uno spazio anarchico, per fare la rivoluzione, è uno spazio di libertà. I quasi nativi digitali, come li chiamo io, hanno ben presente la distinzione degli strumenti e dei rispetti utilizzi, usano la rete quando serve, ma per studiare il libro è ancora il mezzo dominante. In fondo sono due lingue, una cartacea, una digitale; gli studenti di oggi le conoscono entrambe, sarebbe sciocco perderne una a discapito dell’altra. Quello ce si sta cercando di fare è integrare i due linguaggi”.
Percorso interessante, che tenta di utilizzare la didattica digitale come supporto alla didattica in presenza, è quello avviato dal Politecnico di Milano, attraverso la piattaforma Be e-Poli (Beep), gestita dal METID. “Lavoriamo su tre fronti: e-Learning, MOOC e digitalizzazione dei processi di apprendimento, anche in aula – racconta Susanna Sancassani, presidente del METID –. In quest’ultimo ambito, abbiamo dato vita a una piattaforma che offre a tutti i docenti la possibilità di avere uno spazio virtuale per condividere materiali, informazioni e approfondimenti. Beep è strutturata per ospitare attività di tipo collaborativo: i docenti possono completare la dinamica di dialogo con gli studenti attraverso wiki, blog, forum, sessioni live, web conference. L’obiettivo è quello di ampliare lo spazio dell’aula in dimensioni diverse”. Su Beep anche gli studenti possono condividere materiali e diventare parte attiva del processo di apprendimento. Si tratta di uno strumento molto prezioso anche per i docenti, perché si trovano decine di migliaia di file didattici condivisi, un potenziale patrimonio di open knowledge. “La piattaforma utilizza Liferay, uno dei motori open source leader nell’e-collaboration – spiega Sancassani –. Inoltre tutti i materiali sono visibili a tutti gli studenti by default, si tratta di una gestione particolarmente interessante di open content”.
In tema di e-learning, il Politecnico di Milano ha attivato nel biennio 2000 / 2001 la prima laurea di ingegneria informatica totalmente online, che offre un livello di insegnamento e test paritari a quelli dell’insegnamento in presenza. In questo caso però, come per i Mooc della Federico II, il target principale non è rappresentato da universitari, ma da diplomati che non si iscrivono all’Università, magari perché hanno già iniziato a lavorare, o lavoratori che desiderano riprendere il percorso di studi.
Altra proposta particolarmente interessante è rappresentata da Polimi Open Knowledge, portale di Massive Online Open Knowledge aperto, pensato, come recita il sottotitolo “to bridge the gap”, per colmare i vuoti di competenza nei momenti di transizione. “Pok è stata pensata per affiancare gli studenti, prima, durante e dopo il percorso universitario – specifica Sancassani –. Si rivolge principalmente a tre tipologie di utenti: gli studenti in uscita dalla scuola superiore, che vogliono prepararsi ai test di ammissione; quelli che stanno passando dalla laurea di primo livello a quella di secondo, e infine a chi sta uscendo dall’Università e deve entrare nel mondo dl lavoro. Li abbiamo attivati lo scorso mese di giugno e stanno registrando un successo che non avremmo immaginato. Sono molto interessanti i modelli d’uso, perché sono gli studenti a stabilirli e inventarli”. Il numero di corsi disponibili è destinato a crescere e da novembre il vanale sarà bilingue: italiano e inglese.
Inoltre il Politecnico di Milano, con Elene2Learn ha avviato un percorso che fa incontrare le Università con le scuole superiori, per ragionare in modo congiunto sullo sviluppo della didattica per obiettivi. “Credo che il filone dei MOOC aiuterà a rivoluzionare la didattica, facilitando il passaggio da quella per contenuto a quella per obiettivi – conclude Sancassani –. Sarà sempre più importante concentrarsi sull’attività, su quel che deve avvenire in aula, su quali dinamiche devono instaurarsi tra docenti e studenti. L’effetto più ovvio sarà il passaggio a dinamiche flipped”.
Altra esperienza degna di nota è quella in atto al Dipartimento di Architettura e Design del politecnico di Torino, che “Rappresenta un’isola abbastanza felice, in una situazione generale piuttosto schizofrenica, in cui c’è chi investe nella sperimentazione e chi invece non si muove – racconta Fabrizio Valpreda, referente dell’area informatica per il Design –. Nei corsi di design abbiamo introdotto il concetto di open da almeno 8 anni, attraverso l’impiego di software open source per la progettazione. Inoltre collaboriamo col FabLab Torino, col TechLab di Settimo e con quello di Chieri. Tutte esperienze volte a toccare con mano le nuove tecnologie e a sperimentarle in concreto”. I laboratori informatici si sono ridotti negli ultimi anni per effetto della Legge Gelmini, ma si trovano soluzioni alternative. “Lavoriamo molto con le aziende del territorio – spiega Valpreda –. Funziona bene tanto dal punto di vista della sostenibilità economica, quanto per la possibilità che offre agli studenti di sporcarsi le mani e conoscere come si muove il mondo digitale, direttamente sul campo”. A breve, grazie a un bando di finanziamento, 5 o 6 stampanti 3D entreranno nel laboratorio Virtual Lab di Mirafiori, diventando parte integrante della didattica. “Inoltre, con i laboratori di ingegneria che fanno prototipazione e con una cordata di architetti, grazie a un finanziamento del Politecnico, abbiamo messo in piedi una rete interna di laboratori, denominata Make Lab – aggiunge Valpreda –. L’intento è quello di sperimentare interconnessioni interdisciplinari su diverse tematiche, coinvolgendo gli studenti non solo nel processo didattico, ma anche nell’attività di ricerca, perché didattica e ricerca devono necessariamente viaggiare assieme”.