L’Unione Europea ha intensificato la sua azione regolatoria contro le Big Tech, con Apple e Google al centro delle ultime indagini della Commissione Europea.
Una mossa che va inquadrata nel contesto di crescente tensioni tra Usa ed Europa, sul piano dei dazi e la difesa. L’Europa sceglie insomma di andare dritta sulla sua strada regolatoria, anche se il presidente Usa Trump ha già equiparato le nostre regole big tech a dazi.
L’applicazione del Digital Markets Act (DMA), progettato per limitare il dominio dei cosiddetti “gatekeeper” digitali, ha scatenato una nuova ondata di tensioni con gli Stati Uniti, che vedono queste normative come un attacco diretto alle proprie aziende tecnologiche.
Indice degli argomenti
La Commissione Ue contro Apple e Google
La commissione ha affermato mercoledì che i risultati di ricerca di Google visualizzati, e i suoi termini per gli sviluppatori di app che utilizzano il suo Play Store sui telefoni Android, violino le regole del Digital Markets Act. Ossia danno alla tecnologia di Google un vantaggio ingiusto rispetto ad altri.
In base al DMA, le aziende che l’UE designa come “gatekeeper” non sono autorizzate a trattare i propri servizi in modo più favorevole nella classifica rispetto a servizi simili di terze parti.
Google ha affermato in un post sul blog che le regole di concorrenza dell’UE stanno “danneggiando consumatori e aziende”. L’azienda ha già apportato diverse modifiche ai suoi risultati di ricerca nel tentativo di conformarsi alle regole. La commissione, tuttavia, ha affermato di pensare che il gigante della tecnologia tratti i propri servizi, come Google Shopping e la prenotazione di hotel, in modo più favorevole nei risultati di ricerca rispetto a siti Web simili che offrono prodotti concorrenti.
Apple
La commissione ha anche detto ad Apple cosa fare per rendere i suoi dispositivi iOS interoperabili con i prodotti dei rivali, dalle cuffie agli smartwatch e ai visori per realtà virtuale, per conformarsi al DMA. Ciò include l’obbligo per Apple di migliorare l’esperienza dei produttori di smartwatch e cuffie sui sistemi operativi iPhone e iPad e di semplificare l’associazione dei dispositivi da parte degli utenti.
Un portavoce di Apple ha affermato che le decisioni “ci avvolgono nella burocrazia, rallentando la capacità di Apple di innovare per gli utenti in Europa e costringendoci a distribuire gratuitamente le nostre nuove funzionalità ad aziende che non devono rispettare le stesse regole”.
Apple ha affermato che avrebbe continuato a collaborare con la Commissione europea per aiutarla a comprendere questi timori.
Gli enti regolatori del blocco hanno avviato due cosiddette procedure di specifica lo scorso settembre per dare istruzioni ad Apple per rendere i suoi prodotti più accessibili agli sviluppatori terzi. Apple è legalmente tenuta a implementare le misure specificate dalla commissione.
Si prevede che la commissione arriverà alle fasi finali delle sue indagini su Apple e Meta la prossima settimana, avendo già accusato le aziende di aver potenzialmente violato le regole l’anno scorso.
Il braccio di ferro tra Bruxelles e le Big Tech si intensifica, trasformandosi in un confronto che va oltre la semplice regolamentazione, intrecciando questioni di concorrenza e geopolitica nelle relazioni tra UE e Stati Uniti.
Il conflitto, tuttavia, come si diceva si inserisce in un più ampio scontro commerciale tra UE e USA, con l’amministrazione Trump che minaccia ritorsioni, incluse nuove tariffe sui prodotti europei, in risposta alle sanzioni imposte ai colossi digitali americani.
L’Antitrust campo di battaglia di un conflitto più ampio
Questa nuova fase della battaglia antitrust potrebbe ridefinire il futuro del mercato digitale, spingendo le aziende tecnologiche a ripensare le proprie strategie e mettendo alla prova l’equilibrio economico tra le due sponde dell’Atlantico.
Il confronto tra Stati Uniti ed Europa sulle regole, specialmente quelle antitrust nel settore tecnologico, è infatti diventato un campo di battaglia chiave per l’equilibrio di potere economico globale. Da un lato, l’UE si è posizionata come regolatore severo, con normative come il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA), che mirano a contenere il dominio delle Big Tech e a garantire una concorrenza più equa. Dall’altro, gli USA, pur avendo recentemente intensificato il loro approccio antitrust, restano più flessibili e meno inclini a regolamentazioni stringenti che potrebbero ostacolare le proprie aziende.
Regole come strumento di potere e negoziazione
Le normative, lungi dall’essere solo strumenti di equità e trasparenza, sono spesso usate come leve geopolitiche ed economiche. L’UE ha dimostrato di saper dettare le condizioni per l’accesso al proprio mercato, costringendo aziende come Apple, Google e Meta a rivedere (almeno in apparenza) i propri modelli di business per conformarsi ai nuovi regolamenti. Tuttavia, l’approccio europeo rischia di scontrarsi con l’interesse strategico americano orientato a proteggere le proprie imprese tech.
Gli USA, tradizionalmente più favorevoli a un modello di mercato libero, si trovano ora in una posizione ambivalente. Da un lato, l’amministrazione Biden ha avviato azioni antitrust in modo particolare contro Google e Amazon, segnalando una crescente attenzione al tema. Dall’altro, Washington vede con preoccupazione il fatto che le regolamentazioni europee possano frenare la crescita delle proprie aziende, mentre competitor cinesi come TikTok continuano a espandersi con meno vincoli. E certamente con l’avvento dell’amministrazione Trump, lo scontro tra Stati Uniti ed Europa sulle regole del settore tecnologico sta assumendo nuove e più rigide dinamiche.
Durante il suo primo mandato, Trump aveva mostrato una scarsa propensione ad adottare misure antitrust aggressive contro le Big Tech, preferendo concentrarsi su attacchi mirati a specifiche aziende ritenute ostili, come TikTok o Twitter (prima dell’acquisizione da parte di Elon Musk). Oggi, il ritorno di Trump alla Casa Bianca segna però una netta evoluzione nel suo approccio, con l’amministrazione che sembra ancora adottare una linea dura nei confronti dei colossi tecnologici, e in particolare di Google, ma con una visione che si distingue nettamente da quella europea.
Antitrust Usa e Google
Proprio il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente ribadito la sua richiesta di smantellare Google, accusandolo di aver mantenuto illegalmente un monopolio nella ricerca online tramite accordi con produttori di smartphone e browser web. Questo sviluppo che per molti segna un ritorno all’approccio statunitense alla regolamentazione delle Big Tech, simile a quello intrapreso sotto l’amministrazione Biden, indica in realtà una netta presa di posizione nei confronti dell’UE. Se infatti l’Europa ha da tempo adottato un approccio fortemente interventista con l’introduzione di normative come il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA), gli Stati Uniti sembrano perseguire e farsi convinti promotori di un’altra logica: sostenere le proprie regole antitrust, ma con una visione che, al contrario, lascia intendere che le regole possano essere valide, ma solo se vengono imposte da Washington.
In questo contesto, le accuse di monopolio contro Google, che ruotano attorno agli accordi che l’azienda ha stipulato per assicurarsi una posizione privilegiata nei browser e negli smartphone, si inseriscono in un quadro in cui gli Stati Uniti sembrano affermare una supremazia nella definizione delle regole del mercato. L’idea che l’approccio antitrust americano sia quello giusto, mentre quello europeo – troppo severo e centrato sulla protezione della concorrenza interna – sia meno efficace, sta infatti emergendo come uno dei temi centrali.
Il rischio cui si espone Google in questa vicenda è particolarmente significativo, poiché potrebbe subire conseguenze strutturali ed economiche di grande impatto, a cominciare dal rischio di scorporamento e perdita di asset strategici. Se la giustizia americana imponesse a Google di vendere Chrome o altri asset strategici, l’azienda perderebbe una delle sue principali fonti di raccolta dati e controllo sull’ecosistema web. Chrome non è infatti solo un browser, ma un punto di accesso basilare per la pubblicità online e per il monitoraggio delle abitudini degli utenti. La sua cessione indebolirebbe il modello di business basato sulla pubblicità mirata e ridurrebbe il vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
Seguendo le indicazioni della giustizia americana, il rischio per Google è quindi cospicuo, sia in termini di perdita di asset fondamentali che di limitazione della sua capacità di innovare e mantenere la leadership di mercato. L’esito di questa battaglia legale non solo potrebbe ridefinire il futuro dell’azienda e l’intero panorama tecnologico e normativo globale, ma rappresenterebbe anche un test cruciale per l’approccio della nuova amministrazione alla regolamentazione del settore. Inoltre, diventerebbe un precedente simbolico del predominio delle normative statunitensi sulle Big Tech a livello mondiale.
Le regole nella sfida geopolitica
Il conflitto normativo tra Stati Uniti ed Europa sulla regolamentazione delle Big Tech va ben oltre una semplice divergenza di approcci giuridici: rappresenta una sfida geopolitica con implicazioni economiche, strategiche e tecnologiche di ampia portata.
Non solo infatti la contrapposizione tra Stati Uniti ed Europa ha effetti diretti sulle aziende tecnologiche, che si trovano a dover operare in due sistemi regolatori divergenti, bensì oltre agli aspetti economici, il confronto normativo tra Stati Uniti ed Europa preoccupa molto per le implicazioni geopolitiche di rilievo. Da un lato, l’UE si presenta come un leader nella regolamentazione digitale, cercando di imporre standard globali che tutelino in primis i diritti e le le libertà fondamentali. Dall’altro, gli Stati Uniti sembrano voler riaffermare il loro controllo sul settore, fermamente determinati a evitare che siano le regole europee a diventare il modello di riferimento mondiale. Ed è in questo contesto che la regolamentazione delle Big Tech si trasforma in una battaglia per l’influenza globale.
Se il conflitto normativo tra USA ed Europa dovesse intensificarsi, con il rischio di una crescente frammentazione del mercato digitale, le aziende sarebbero costrette a seguire regole diverse a seconda del territorio in cui si trovano ad operare. Questo potrebbe causare una duplicazione degli investimenti, un aumento dei costi operativi e una conseguente riduzione dell’efficienza complessiva dell’ecosistema digitale.
Un altro scenario possibile sarebbe inoltre la creazione di alleanze normative tra Europa e altre economie, come la Cina o l’India, proprio per contrastare l’egemonia americana nel settore digitale. E ciò potrebbe portare a una ridefinizione degli equilibri globali e ad una maggiore competizione tra diversi blocchi regolatori.
Libertà o censura? Il DSA al centro dello scontro tra USA ed UE
E non c’è solo il DMA.
Il Digital Services Act (DSA) si mostra come il nuovo fronte dello scontro tecnologico globale.
Un protagonista chiave in tal senso è Brendan Carr, il presidente della Federal Communications Commission (FCC), che ha recentemente dichiarato di voler proteggere le aziende tecnologiche statunitensi dalle normative europee, in particolare per quanto riguarda il Digital Services Act (DSA) dell’Unione Europea.
Secondo Brendan Carr, il DSA, che impone alle piattaforme online obblighi stringenti in materia di moderazione dei contenuti, lotta alla disinformazione e trasparenza, si configura più come uno strumento di censura che come una misura regolatoria. A suo avviso, la normativa europea limita la libertà di parola e penalizza le aziende statunitensi, ostacolandone l’operatività e l’innovazione.
Le critiche al DSA, tuttavia, non provengono solo da funzionari governativi americani. Anche i leader delle principali Big Tech statunitensi hanno espresso forte opposizione alle leggi europee, ritenendole particolarmente dannose per le loro attività. Mark Zuckerberg, CEO di Meta, ha manifestato apertamente il suo dissenso, sostenendo che le normative UE colpiscono in modo sproporzionato le aziende americane e invocando un intervento dell’amministrazione Trump per contrastarne gli effetti negativi. A rafforzare questa posizione, Joel Kaplan, responsabile degli affari globali di Meta, ha dichiarato che l’Europa non può imporre regole restrittive che compromettano la libertà di espressione.
I richiami delle Big Tech si concentrano soprattutto sul rischio che la regolamentazione europea imponga vincoli eccessivi alla gestione dei contenuti, obbligando le piattaforme a una moderazione troppo rigida e limitando di conseguenza i diritti di espressione degli utenti.
Durante il World Economic Forum di Davos, anche Donald Trump ha difeso con forza le aziende tecnologiche statunitensi, criticando le autorità europee per le numerose indagini condotte contro giganti come Apple, Google e Meta, che hanno già portato a sanzioni miliardarie. Secondo Trump, queste azioni, unitamente ai regolamenti imposti, hanno come unico intento quello di penalizzare ingiustamente le imprese americane e altresì dimostrano la volontà dell’Europa di esercitare un controllo arbitrario ed eccessivo sul mercato digitale globale. Una posizione condivisa anche da JD Vance, che all’AI Action Summit di Parigi ha descritto il DSA come una minaccia alla libertà economica e tecnologica.
Intanto, secondo quanto riportato da Mark Gurman di Bloomberg, Tim Cook, CEO di Apple, avrebbe cercato il sostegno di Trump per contrastare le misure europee, probabilmente nella speranza di un intervento diretto che scongiuri ulteriori sanzioni o restrizioni. Le Big Tech statunitensi sono infatti convinte che l’UE voglia imporre un quadro normativo troppo vincolante, limitando la loro capacità di operare liberamente nel mercato globale e accentuando così lo scontro tra la visione regolatoria europea e quella americana.
L’intervento di Brendan Carr rischia dunque di esacerbare ulteriormente le tensioni. Il commissario della FCC definendo il DSA un caso di “censura governativa”, ha infatti promesso di difendere con determinazione gli interessi delle aziende statunitensi. Le sue dichiarazioni assumono particolare rilievo alla luce delle indagini europee in corso tra cui quelle su X (ex Twitter) e Meta. Se queste dovessero tradursi in nuove sanzioni, una reazione politica da parte del governo americano apparirebbe inevitabile. Carr ha già avvertito che, in caso di provvedimenti contro le Big Tech, gli Stati Uniti non esiteranno a intervenire per proteggerle, segnando così l’inizio di un conflitto politico su larga scala tra Washington e Bruxelles.
La risposta big tech
Trump ha sempre considerato l’Unione Europea più un rivale economico che un alleato strategico. Già in passato ha criticato le normative europee sulle Big Tech, ritenendole strumenti di protezionismo e, oggi più che mai, sembra determinato a contrastare la supremazia regolatoria dell’UE attraverso misure ritorsive, tra cui l’imposizione di dazi e restrizioni commerciali sulle aziende europee.
Ma la sua strategia non si limita a questo. Se da un lato l’Europa introduce nuove regole per le aziende tecnologiche americane e la Cina continua a potenziare le proprie piattaforme digitali, come TikTok e Alibaba, Trump, noto per la sua politica di contenimento della Cina, sta delineando una duplice risposta: da un lato, punta a una deregolamentazione interna per favorire le Big Tech statunitensi, rafforzando il legame tra il governo e la Silicon Valley; dall’altro, porta avanti una battaglia sul controllo dei contenuti online.
Dopo il suo ban da Twitter e Facebook, ha non a caso intensificato gli sforzi per ridurre la responsabilità delle piattaforme nella moderazione dei contenuti, spingendo gli Stati Uniti verso una deregolamentazione dell’informazione digitale. Questo approccio è ovviamente in netto contrasto con il modello europeo imposto dal Digital Services Act, che introduce regole più stringenti per il controllo e la trasparenza delle piattaforme. Il risultato è un sistema normativo diviso tra USA ed Europa, con le aziende tecnologiche costrette ad adattarsi a standard differenti nei due mercati.
Questa strategia – da un lato la protezione delle Big Tech americane attraverso misure economiche contro l’UE, dall’altro la deregolamentazione della gestione dei contenuti online – rischia dunque di ampliare ulteriormente il divario normativo tra le due sponde dell’Atlantico. L’effetto di tanto potrebbe essere un ecosistema digitale sempre più frammentato, segnato da crescenti tensioni geopolitiche ed economiche.
Verso una guerra normativa Usa-UE?
Se con Biden il confronto tra USA ed UE sulle normative tecnologiche è stato gestito con una certa dose di diplomazia, l’amministrazione Trump sembra determinata a rompere gli equilibri, inasprendo il conflitto. Tuttavia, almeno per ora, questo scontro non sembra avvantaggiare nessuna delle due parti direttamente coinvolte, anzi: da una parte la crescente frammentazione normativa sta mettendo le Big Tech di fronte a regole contrastanti e onerose, mentre dall’altra la Cina, in veste di spettatrice di questa guerra regolatoria tra “occidente e occidente”, sembrerebbe essere la vera beneficiaria della situazione.
Scontro, compromessi e divergenze
Il confronto normativo tra Stati Uniti e Unione Europea nel settore tecnologico si sviluppa lungo due direttrici parallele: conflitto e negoziazione. Da un lato, Washington vede le nuove regole europee come un attacco diretto alle proprie aziende di punta, minacciando ritorsioni commerciali. Dall’altro, Bruxelles considera la regolamentazione non solo uno strumento per garantire una concorrenza più equa, ma anche un mezzo per rafforzare la propria sovranità economica e tutelare i consumatori europei. Nel frattempo, le Big Tech si trovano strette tra due visioni opposte, cercando di adattarsi senza compromettere il proprio modello di business.
Il Digital Markets Act: una legge per riequilibrare il mercato o un attacco diretto alle Big Tech USA
Questa dinamica di scontro e compromesso si manifesta chiaramente nell’applicazione del Digital Markets Act (DMA), una normativa che l’Unione Europea considera essenziale per riequilibrare il mercato digitale e limitare il potere delle Big Tech, mentre per gli Stati Uniti rappresenta un attacco diretto alle loro aziende leader del settore tecnologico, alimentando le tensioni transatlantiche.
A conferma di questa crescente frizione, un gruppo di legislatori europei ha recentemente inviato una lettera ai massimi funzionari statunitensi, respingendo le accuse secondo cui il DMA penalizzerebbe ingiustamente le aziende americane. Al contrario, l’UE sostiene che la normativa favorisca una concorrenza più equa, ponendo limiti a chi esercita un dominio sproporzionato sul mercato digitale. Questo scambio, indirizzato al Procuratore generale del Dipartimento di Giustizia, Pamela Bondi, e al Segretario al Commercio, Howard Lutnick, evidenzia come il dibattito normativo tra USA e UE non sia solo una questione di regolamentazione economica, ma anche un terreno di confronto geopolitico, dove ciascuna parte cerca di affermare la propria visione sul futuro della tecnologia globale.
Nella lettera firmata da nove membri del Parlamento europeo, tra cui la francese Stéphanie Yon-Courtin e il tedesco Andreas Schwab, si sottolinea come il Digital Markets Act (DMA) non sia una misura mirata esclusivamente contro le aziende statunitensi. A sostegno di questa tesi, vengono citati i casi di Booking.com, con sede nei Paesi Bassi, e TikTok, di proprietà della cinese ByteDance, anch’esse oggetto di indagini. I legislatori ribadiscono dunque quanto la normativa non sia mirata contro specifiche aziende o Paesi, ma punti a regolamentare in modo equo tutte le piattaforme digitali dominanti, indipendentemente dalla loro nazionalità, in vista di un mercato più competitivo e aperto.
Aziende americane favorevoli all’applicazione del DMA
Contrariamente alla narrazione statunitense, che descrive il Digital Markets Act (DMA) come un attacco alle Big Tech americane, la lettera dei legislatori europei sottolinea anche come molte aziende statunitensi considerino invece questa legge un’opportunità per spezzare il dominio dei colossi tecnologici e riequilibrare il mercato digitale.
In effetti, il DMA è visto come uno strumento che può stimolare una maggiore concorrenza nel mercato digitale, offrendo alle aziende più piccole e alle startup un ambiente più equo in cui operare. Un esempio emblematico di come le aziende statunitensi stiano sfruttando il DMA è Epic Games, creatore del popolare gioco Fortnite, che ha avviato lo sviluppo di un proprio app store alternativo per i dispositivi iPhone e Android in Europa. Questo nasce dall’obbligo imposto dal DMA a Apple e Google di consentire marketplace alternativi, un passo che potrebbe ridurre il monopolio delle due piattaforme e aprire la strada a nuove opportunità per altri sviluppatori di app.
Anche DuckDuckGo, il motore di ricerca focalizzato sulla privacy, ha preso una posizione attiva, co-firmando una lettera ai regolatori dell’UE per chiedere un’indagine su Google per presunti abusi del DMA. L’azienda rimprovera Google di non offrire agli utenti un’alternativa chiara al proprio motore di ricerca, ostacolando così la concorrenza attraverso il controllo dei dati di ricerca. In questo caso, DuckDuckGo sostiene che il DMA possa contribuire a riequilibrare il mercato, permettendo agli utenti di avere più opzioni nel panorama dei motori di ricerca, senza la preminenza di Google.
Altresì nel settore dello streaming, giganti come Netflix e Disney vedono il DMA come un’opportunità per ridurre le elevate commissioni imposte dagli store di Apple e Google. Queste commissioni, che rappresentano una barriera significativa per i fornitori di contenuti digitali, limitano la capacità delle piattaforme di offrire prezzi più competitivi o di investire ulteriormente nei loro servizi. La possibilità di operare al di fuori dei marketplace dominati da Apple e Google potrebbe rendere il mercato più competitivo, permettendo a nuovi attori di entrare nel settore senza dover affrontare gli ostacoli imposti dalle commissioni.
Secondo i legislatori europei, l’applicazione rigorosa del DMA potrebbe invero avere effetti positivi proprio per molte startup statunitensi, che attualmente trovano difficoltà a competere con i giganti tecnologici a causa delle pratiche anticoncorrenziali. La normativa, se pienamente attuata, potrebbe infatti abbattere le barriere che limitano la crescita di nuove aziende, stimolando un ambiente più dinamico e competitivo, e riducendo la concentrazione del potere nelle mani di poche piattaforme dominanti.
Le pressioni dell’amministrazione Trump e lo scontro con l’UE
La lettera inviata dall’UE giunge in risposta alle crescenti pressioni dell’amministrazione Trump, che ha intensificato la propria opposizione alle normative europee in materia di tecnologia. Il mese scorso, il governo statunitense ha incaricato le autorità di regolamentazione di esaminare l’impatto delle leggi europee, esprimendo preoccupazione per il fatto che il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA) possano essere visti come misure protezionistiche, che, di fatto, agirebbero come una tassa indiretta sulle Big Tech americane, penalizzando le loro operazioni in Europa.
In particolare, Jim Jordan, presidente della Commissione Giustizia della Camera degli Stati Uniti, ha sollevato forti dubbi sulla legittimità delle normative europee. Jordan ha non a caso chiesto formali chiarimenti all’Autorità garante della concorrenza dell’Unione Europea, Teresa Ribera, riguardo all’applicazione del DMA. Nella sua richiesta, Jordan ha fissato una scadenza decorsa il 10 marzo per ottenere risposte dettagliate su come il DMA verrà implementato, chiedendo spiegazioni precise anche sui criteri che verranno adottati per definire cosa costituisce una “concorrenza leale” e come verranno trattate le pratiche di mercato delle aziende dominanti. Il presidente della Commissione ha esortato l’UE a chiarire se le sue normative siano realmente orientate a garantire la concorrenza o se stiano piuttosto mirando a ridurre il predominio delle aziende statunitensi, creando un contesto normativo che, secondo lui, potrebbe nuocere alle imprese americane e distorcere il mercato digitale globale.
Le preoccupazioni espresse da Jordan rispecchiano pertanto il sentimento crescente tra i legislatori e le aziende statunitensi, che temono che le normative europee, pur avendo obiettivi legittimi come la protezione dei consumatori e la promozione della concorrenza, possano avere un impatto sproporzionato sulle loro operazioni internazionali.
La richiesta di chiarimenti sull’applicazione del DMA rappresenta solo l’ultimo tassello dell’intenso confronto tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea su come regolamentare il settore digitale, con la possibilità di una rivalità sempre più acuta tra le due potenze economiche.
Il nodo della sovranità digitale
Al cuore dello scontro tra Stati Uniti e Unione Europea si trova una questione di sovranità digitale, in cui entrambe le parti difendono le proprie visioni su come dovrebbe essere regolato il mercato tecnologico globale.
Washington addebita a Bruxelles il fatto di adottare una posizione protezionista, prendendo di mira in particolare le aziende statunitensi come Google, Apple, Amazon e Meta. Dall’altra parte, l’UE ribatte che gli Stati Uniti stanno semplicemente difendendo gli interessi delle loro multinazionali, senza considerare i benefici di un mercato digitale più equo e competitivo, che potrebbe favorire anche le piccole imprese e le startup globali. La lettera firmata dai legislatori europei mira proprio a chiarire che il DMA e altri quadri regolatori non sono misure protezionistiche, ma normativa pensate per favorire un ambiente tecnologico più sano e rispettoso leale. Resta da vedere se questo appello riuscirà a stemperare le crescenti tensioni tra le due potenze economiche, o se, al contrario, lo scontro normativo continuerà a intensificarsi nei prossimi mesi. L’incertezza riguarda non solo l’applicazione e l’efficacia del DMA, ma anche le possibili ripercussioni che una divisione più netta tra gli approcci normativi statunitensi ed europei potrebbe avere sul mercato digitale globale, portando a una frammentazione che avvantaggerebbe potenze come la Cina.
L’Europa di fronte alla sfida americana: strategie e strumenti per un confronto con gli Stati Uniti
Se la tensione con Washington dovesse intensificarsi, l’UE potrebbe sfruttare una serie di strumenti economici, strategici e normativi per tutelare i propri interessi. Ursula von der Leyen ha già ribadito la necessità di una risposta ferma, ma finora Bruxelles ha adottato un approccio prudente, limitandosi a misure di ritorsione contenute, come l’imposizione di tariffe su alcuni beni americani.
Tuttavia, ogni mossa comporta conseguenze potenzialmente controproducenti. Un’escalation commerciale potrebbe danneggiare non solo le aziende statunitensi, ma anche quelle europee, molte delle quali dipendono dalle forniture e dai mercati americani. Inoltre, una risposta troppo aggressiva rischierebbe di rafforzare la narrativa americana secondo cui l’UE sta usando la regolamentazione per colpire le Big Tech statunitensi, alimentando ulteriori ritorsioni.
Anche sul piano strategico, l’UE deve muoversi con cautela. Un irrigidimento delle relazioni con Washington potrebbe spingere gli Stati Uniti a ridurre la cooperazione su altri dossier cruciali, come la sicurezza energetica o le politiche di difesa nel contesto NATO. Parallelamente, un atteggiamento eccessivamente morbido potrebbe essere interpretato come una debolezza, esponendo l’UE a pressioni sia da parte degli USA che da altri attori globali, come la Cina.
Di fronte a questo scenario, Bruxelles si trova dunque di fronte a un delicato equilibrio tra fermezza e pragmatismo, cercando di difendere la propria sovranità economica senza compromettere alleanze strategiche vitali per la stabilità europea.
Uno dei principali strumenti di pressione dell’UE risiede nella vastità del suo mercato unico, un pilastro essenziale per molte aziende statunitensi. Gli Stati Uniti esportano ingenti quantità di beni in Europa, e numerose multinazionali, soprattutto nel settore tecnologico, hanno un’esposizione significativa alle normative europee. Bruxelles potrebbe colpire questi giganti con misure mirate, come un inasprimento delle regolamentazioni sulla concorrenza o una tassazione più severa sui colossi digitali, costringendoli a rivedere le loro strategie operative. Ma come detto una simile stretta rischierebbe di alimentare la visione americana secondo cui l’UE utilizza la regolamentazione come arma protezionistica.
Un altro settore in cui l’UE potrebbe esercitare pressioni è quello energetico. Attualmente, una quota rilevante del petrolio e del gas naturale liquefatto (GNL) statunitense viene esportata in Europa, e una riduzione degli acquisti metterebbe in difficoltà l’industria energetica americana. Tuttavia, questa mossa potrebbe ritorcersi contro Bruxelles, compromettendo la sicurezza energetica del continente, ancora fragile dopo la crisi del gas russo.
L’Europa detiene anche un ruolo chiave nel settore dei semiconduttori, grazie al quasi-monopolio dell’azienda olandese ASML nella produzione di macchinari avanzati per la fabbricazione di microchip. Un eventuale blocco delle esportazioni di queste tecnologie agli Stati Uniti creerebbe gravi difficoltà all’industria americana, ma rischierebbe di innescare una guerra commerciale con ripercussioni sull’intero settore tecnologico globale.
Anche il sistema finanziario potrebbe diventare un fronte di scontro. L’UE potrebbe rendere più complesso l’accesso delle banche americane al mercato europeo, imporre restrizioni ai circuiti di pagamento gestiti da Visa e Mastercard, o persino sfruttare il proprio controllo sul sistema SWIFT, cruciale per le transazioni finanziarie internazionali. Tuttavia, qualsiasi azione su questo fronte andrebbe valutata con estrema prudenza, poiché le ripercussioni potrebbero destabilizzare l’intero sistema economico globale, colpendo anche le stesse istituzioni finanziarie europee.
Un altro punto di forza dell’UE è il suo ruolo nel commercio marittimo globale. Le principali compagnie di trasporto container e di assicurazione marittima sono europee, e Bruxelles potrebbe ostacolare le esportazioni americane imponendo restrizioni sulle polizze assicurative o sulle rotte commerciali. Inoltre, l’Europa ospita basi militari strategiche fondamentali per le operazioni statunitensi in Medio Oriente e nell’Atlantico settentrionale. Un’eventuale riduzione del sostegno logistico europeo complicherebbe significativamente la capacità operativa delle forze armate americane.
Nonostante la vasta gamma di strumenti a disposizione, è comunque improbabile che l’UE voglia spingersi verso una guerra economica totale con gli Stati Uniti, data l’interdipendenza tra le due economie. Tuttavia, se Trump dovesse adottare un atteggiamento ancora più aggressivo nei confronti dell’Europa, Bruxelles potrebbe essere costretta a ricorrere a queste leve per proteggere i propri interessi e rafforzare la propria autonomia strategica. Ogni decisione, però, avrebbe un costo elevato e potrebbe ridefinire gli equilibri geopolitici globali in modo imprevedibile.
Il ritorno di Donald Trump e le nuove tensioni nelle relazioni transatlantiche
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha innescato una serie di previsioni sul rafforzamento delle tensioni nelle relazioni transatlantiche, che sono rapidamente divenute realtà. E’ recente l’annuncio del Presidente Trump relativo all’imminente introduzione di dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, senza distinzioni di provenienza. Sebbene tanto non fosse una totale sorpresa, dato che durante il suo primo mandato Trump aveva già imposto misure simili, la mossa non ha mancato di sollevare preoccupazioni in Europa, dove già si paventava l’inizio di una nuova fase di conflitto commerciale. La speranza di una tregua, mediata dall’amministrazione Biden, sembrava aver portato a un periodo di stabilità commerciale, ma con il ritorno di Trump alla presidenza, quella visione è stata rapidamente sconvolta.
Come già evidenziato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha risposto tempestivamente dichiarando che le tariffe ingiustificate imposte contro l’UE non sarebbero state ignorate e che sarebbero state adottate contromisure adeguate per proteggere gli interessi economici europei. Tuttavia, la situazione rimane complessa, poiché l’UE dovrà navigare con cautela per evitare l’escalation in una vera e propria guerra commerciale con gli Stati Uniti.
Ad ogni modo, durante il Summit sull’Intelligenza Artificiale a Parigi, la presidente della Commissione Europea e il vicepresidente americano JD Vance hanno ribadito la volontà di mantenere salda la relazione transatlantica, pur riconoscendo le divergenze sulle questioni commerciali. Ursula von der Leyen ha sottolineato l’impegno dell’UE per una “relazione commerciale equa” e una “pace giusta e duratura” per l’Ucraina, aprendo al tempo stesso alla possibilità di una maggiore cooperazione in settori strategici. Tra questi, l’energia occupa un ruolo centrale, con l’UE che valuta un aumento delle importazioni di gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti; una mossa che contribuirebbe a bilanciare il surplus commerciale europeo e rafforzare la sicurezza energetica del continente.
Malgrado però la reazione europea alle misure su acciaio e alluminio, l’Europa si dichiara pronta a rispondere a qualsiasi ulteriore estensione dei dazi da parte degli Stati Uniti, inclusi settori cruciali come l’automotive e i farmaci. La Commissione Europea ha già considerato contromisure, tra cui la possibilità di ripristinare i dazi del 2018 su prodotti come il Bourbon, i jeans e le Harley-Davidson.
Tutto ciò avendo ben presente che il panorama commerciale europeo è estremamente complesso: la politica commerciale è di competenza esclusiva dell’UE, ma le decisioni devono essere approvate dai 27 membri, che non sono tutti esposti allo stesso modo alle tensioni con gli Stati Uniti. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato che, se gli Stati Uniti non dovessero fare marcia indietro, l’UE risponderà unita.
Il conflitto commerciale potrebbe espandersi anche al settore dell’economia digitale. L’Unione Europea dispone di uno strumento aggiuntivo per affrontare la coercizione economica: l’ACI (Strumento Anti-Coercizione), introdotto nel 2023. Questo strumento consente a Bruxelles di reagire alle pressioni economiche con misure come la revoca della protezione dei diritti di proprietà intellettuale, il blocco degli investimenti esteri diretti o la limitazione dell’accesso ai mercati finanziari. L’ACI potrebbe essere utilizzato per colpire le multinazionali tecnologiche statunitensi, tacciate di contribuire al deficit commerciale nei servizi e di approfittare di normative fiscali favorevoli in paesi come l’Irlanda per rimpatriare i guadagni. Sebbene l’UE mantenga un surplus commerciale con gli Stati Uniti sui beni, registra ciò nonostante un significativo deficit nei servizi, settore dominato dalle grandi aziende tecnologiche americane. Intervenire su quest’area potrebbe permettere all’Europa di rispondere in modo mirato, sebbene l’efficacia di questa strategia resti ancora da valutare.
Stato, tecnologia e il ruolo delle piattaforme nella governance globale
Lo scenario in cui prodiga la crescente digitalizzazione dell’economia ha trasformato la regolamentazione in un’arena di competizione. Ma gli attori non sono solo pubblici, bensì anche privati.
Lo stesso concetto di governance muta forma e sostanza.
Nell’Unione Europea, negli Stati Uniti e in Cina, la regolamentazione dei mercati digitali procede a ritmi diversi e con approcci distinti. Tuttavia, al di là di queste divergenze istituzionali, la competizione normativa non si gioca solo tra stati sovrani, ma anche tra regolatori privati e pubblici, con le grandi piattaforme tecnologiche che continuano ad imporre standard di fatto attraverso termini di servizio, algoritmi e protocolli proprietari. In questo scenario, la tecnologia stessa diventa uno strumento normativo, esercitando un’influenza paragonabile a quella del diritto tradizionale.
Seguendo la prospettiva di Lawrence Lessig, il “codice” assume un ruolo normativo centrale, plasmando comportamenti e mercati in modi che spesso sfuggono a qualsivoglia regolamentazione statale. L’ascesa dei contratti intelligenti basati su blockchain e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ad esempio, introducono meccanismi di autoregolamentazione che sfidano le giurisdizioni tradizionali, sollevando interrogativi critici sulla sovranità normativa e sull’efficacia delle leggi nel contesto digitale.
Questa competizione normativa nel digitale solleva perciò interrogativi fondamentali: fino a che punto le aziende devono adeguarsi a normative diverse e talvolta contrastanti? Come possono gli stati mantenere la sovranità normativa in un contesto in cui la tecnologia stessa diventa normativa? E quale sarà l’impatto di queste dinamiche sul benessere delle società, sulla tutela dei diritti fondamentali e sull’equilibrio tra innovazione e sicurezza? La risposta a queste domande definirà il futuro della governance digitale, determinando se il diritto riuscirà a mantenere il suo ruolo primario o se, al contrario, la regolamentazione del digitale sarà sempre più dettata dagli attori privati e dagli strumenti tecnologici che essi sviluppano.
Un futuro instabile
Aldous Huxley[1], noto scrittore e filosofo britannico, nel sostenere che molteplici scuse sono sempre meno convincenti di una sola, mette in luce una verità che si applica perfettamente al conflitto sulle normative relative alla concorrenza digitale tra USA e UE.
Il panorama normativo attuale, tanto in UE quanto negli USA, sembra motivato da molteplici obiettivi, ma a un’analisi più attenta, la giustificazione di queste normative risulta spesso più debole. Le leggi antitrust tradizionali mirano principalmente a correggere le distorsioni del mercato e proteggere i consumatori, ma in primis le normative recenti, come il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA) dell’Unione Europea, vanno oltre questa logica. Queste regole, pur apparendo come una naturale evoluzione delle normative antitrust, sembrano in realtà affrontare un fallimento morale piuttosto che economico. L’intervento legislativo non pare limitarsi a risolvere le inefficienze del mercato, ma chiaramente mira a riequilibrare il potere geopolitico tra Stati e imprese globali.
Il vero obiettivo di queste normative non è infatti solo la protezione dei consumatori, ma anche la ridistribuzione del potere tra le multinazionali e i singoli Stati, dove il controllo dei mercati digitali gioca un ruolo cruciale.
Le regolazioni attuali non sembrano più focalizzarsi sulla crescita economica o sull’efficienza del mercato, ma piuttosto su un “livellamento” delle opportunità, volto a ridurre le barriere d’ingresso per le nuove imprese, indipendentemente dalla loro reale capacità di competere. Questo approccio segna un cambiamento profondo nella concezione del ruolo dello Stato nell’economia, con un intervento che non si limita a correggere le distorsioni del mercato, ma si spinge fino a determinare i vincitori e a ridistribuire le risorse.
Peraltro una tale visione richiama, seppur in un contesto diverso, la tradizione dell’antitrust risalente allo Sherman Act, che mirava a limitare il potere delle aziende ritenute troppo grandi o dominanti. Nel tempo, le motivazioni economiche sono state affiancate – e in alcuni casi sostituite – da obiettivi di giustizia sociale e redistribuzione del potere. Il risultato è un’idea di concorrenza che non punta più esclusivamente a massimizzare il benessere del consumatore, ma ad ampliare il numero di aziende in grado di operare, anche a scapito dell’efficienza complessiva del mercato.
Ebbene, questa dinamica diventa particolarmente delicata nel settore tecnologico, dove le nuove regolamentazioni incidono direttamente su tre aspetti cruciali: il controllo dei dati, l’innovazione e la competitività globale. Ed è qui che si scontrano due modelli contrapposti: da un lato, gli Stati Uniti, che favoriscono un mercato più libero con minori restrizioni; dall’altro, l’Unione Europea, che punta a limitare il dominio delle Big Tech, riequilibrando il potere tra i grandi attori del digitale. In questo scenario, il controllo delle regole non si limita più a definire i parametri della concorrenza, ma ridefinisce gli equilibri geopolitici globali, trasformando il confronto tra USA ed UE in una battaglia per la supremazia normativa e per il controllo della sovranità digitale.
[1]Per approfondimenti si veda https://laweconcenter.org/resources/regulate-for-what-a-closer-look-at-the-rationale-and-goals-of-digital-competition-regulations/