I rapporti con la Cina sono stati uno dei temi “caldi” della campagna elettorale statunitense. Se Donald Trump si è infatti distinto per una politica aggressiva nei confronti di Pechino, incentrata in particolare sui dazi alle importazioni e, a più ampio raggio, sul settore tecnologico, Joe Biden è stato attento a non scoprire troppo le proprie, forse cercando di catalizzare le speranze (e i voti) di chi non vuole una guerra commerciale con la Cina, ma al contempo evitando di perdere consensi da chi auspica una continuazione delle ostilità.
Questo ha permesso a Trump di affermare, durante la propria campagna elettorale, che la vittoria di Biden sarebbe stata una vittoria per Pechino e che con Biden presidente gli USA sarebbero diventati “proprietà” della Cina.
Nonostante tali affermazioni, però, è molto probabile che l’approccio rigido di Trump nei confronti del colosso asiatico troverà continuità nella politica di Biden. Quello che molti si attendono, però, è un cambiamento di “stile”.
La (imprevedibile) strategia di Donald Trump verso la Cina
Le imprevedibili scelte politiche di Donald Trump hanno pesato sui rapporti fra USA e Cina negli ultimi quattro anni.
Sebbene questa strategia di rottura abbia avuto effetti controversi (sono state numerose le aziende statunitensi a lamentarsi dei dazi imposti – che avrebbero minato produzioni statunitensi fondate su quelle forniture – e della perdita di partner tecnologici cinesi) è evidente che Pechino non abbia saputo costruire una risposta efficace (quantomeno nel breve periodo) all’inedita aggressività USA e sia apparsa a tratti in difficoltà e in crisi di soluzioni.
Il campo tecnologico è diventato presto il luogo più significativo di scontro fra le due superpotenze, con gli Stati Uniti che hanno approfittato della dipendenza cinese dalla tecnologia USA.
I chip e gli OS statunitensi in effetti, nonostante le peculiarità tecnologiche del Celeste Impero (protetto dal cosiddetto “grande firewall” dalle ingerenze esterne), muovono una grande fetta del settore tech cinese e, in particolare, di quella parte del settore tech cinese che si sta affermando al di fuori della Cina, con primari player di livello internazionale.
Questo nervo scoperto nell’infrastruttura imprenditoriale e tecnologica cinese ha colto Pechino di sorpresa, lasciando il paese senza soluzioni immediate.
La strategia di Trump nella guerra tecnologica con la Cina si è dipanata su diversi filoni.
In primo luogo, l’amministrazione Trump ha puntato su divieti e sanzioni. La guerra è iniziata con Huawei e si è di lì estesa ai fornitori dell’azienda cinese fino ad includere una lunga lista di soggetti coinvolti perché, a vario titolo, legati al colosso di Shenzhen.
Ulteriori divieti hanno poi interessato società cinesi che si occupano di intelligenza artificiale, accusate di fornire al governo cinese strumenti tecnologici di controllo utilizzati per la repressione della popolazione uigura in Xinjiang.
Tali divieti, emessi nell’ottobre 2019, hanno riguardato quattro compagnie che realizzano software di riconoscimento facciale (SenseTime, Megvii, iFLYTEK e Yitu) che sembrerebbero essere stati impiegati in Xinjiang.
Le altre compagnie coinvolte (Hikvision e Dahua Technology) invece producono dispositivi di sorveglianza basati su software dotati di intelligenza artificiale.
La minaccia di un ban ha inoltre spinto ByteDance (la compagnia titolare del social TikTok) a cedere la propria divisione americana a un soggetto statunitense (da ultimo si parla dell’interessamento di Walmart e Oracle).
Inoltre, l’amministrazione Trump ha puntato sull’imposizione di dazi che, in questo come in numerosi altri settori, hanno interessato molti prodotti cinesi.
Una simile imposizione, nel contesto della guerra commerciale che ne è seguita, ha spinto la Cina alla ricerca di un componimento. Un primo accordo (“Economic and Trade Agreement between the United States of America and the People’s Republic of China”) è stato raggiunto nel gennaio 2020 e contiene garanzie (sebbene generiche) su trasparenza, protezione delle proprietà intellettuali USA, trasferimento tecnologico e altri aspetti.
Fin qui la strategia di Trump sembrerebbe vincente, ma dobbiamo considerare che le scelte dell’amministrazione USA hanno scatenato una reazione cinese che solo nel lungo periodo potrà mostrare i propri frutti.
Se quando questa “guerra” è iniziata, la Cina era in difficoltà dal punto di vista dell’autosufficienza del proprio sistema tecnologico (e di questo l’amministrazione Trump ha approfittato, mettendo in difficoltà il gigante asiatico), è evidente che Pechino è stata anche spinta verso un’autonomia tecnologica che potrebbe rendere il paese refrattario a future iniziative di questo tipo.
I rapporti tra Biden e Xi Jinping
Biden e Xi Jinping si sono incontrati nel 2011, quando erano entrambi vice-presidenti dei rispettivi paesi, sviluppando un rapporto personale (Xi era arrivato a chiamarlo “vecchio amico” nel 2013) Va però anche detto che più di recente Biden ha definito il leader di Pechino “un teppista” (“thug”), auspicando che a livello internazionale si formi una coalizione per far pressione alla Cina, isolarla e “punirla”.
Altro punto critico è quello del massacro degli uiguri in Xinjiang, una questione su cui Biden ha già avuto modo di esporsi definendo apertamente genocidio quello compiuto dalla Cina.
La reazione cinese all’elezione di Biden è quindi all’insegna di un cauto ottimismo, nonostante il ritardo nelle congratulazioni ufficiali da parte di Xi Jinping al presidente eletto.
La Cina non si attende certo una distensione nei rapporti fra i due paesi, ma confida che Biden sia un avversario meno imprevedibile e che sia quindi più facile raggiungere un assetto duraturo.
Detto questo, va anche considerato che la politica di Trump ha messo in moto meccanismi che oramai non possono essere fermati e che cambieranno profondamente la politica cinese nel settore tecnologico e, di riflesso, i rapporti fra le due nazioni.
La Cina non può infatti permettersi di subire i capricci della politica americana, che apre o chiude le maglie del proprio mercato a seconda del partito al governo.
Il contrattacco cinese
Mentre gli USA sfruttavano un vantaggio temporaneo per mettere in difficoltà la Cina, il colosso asiatico ha studiato una soluzione di lungo termine che, benché difficile da realizzare in un mondo sempre più interconnesso ed interdipendente, mira a rendere la Cina impermeabile alle influenze esterne.
Il settore tecnologico cinese subirà un cambiamento all’insegna di due grandi linee guida politiche: “doppia circolazione” e “disaccoppiamento”.
La “doppia circolazione” prevede di dare priorità al mercato interno cinese, da cui poi dovrebbe maturare l’ulteriore “circolazione” del made in China all’estero, mentre il “disaccoppiamento” prevede la progressiva riduzione delle dipendenze da asset stranieri.
Entrambi i concetti verranno presto tradotti nel nuovo piano quinquennale relativo agli anni dal 2021 al 2025.
Un primo effetto dell’applicazione di questi principi sarà verosimilmente un fiume di investimenti teso alla creazione di un mercato nazionale dei chipset.
L’amministrazione Trump potrebbe quindi aver svegliato il dragone dormiente creando, nel lungo periodo, un avversario molto più temibile di quello che gli USA avrebbero dovuto affrontare altrimenti.
Cosa possiamo aspettarci da Biden
Come anticipato, da Biden ci si attende un atteggiamento duro verso la Cina quasi quanto quello tenuto dall’amministrazione Trump, ma anche un deciso cambio di stile e strategia.
Secondo molti commentatori, da Biden potremo attenderci una strategia meno spregiudicata e più organica, senza colpi di testa, anche se il percorso aperto da Trump appare ormai tracciato ed un “cessate il fuoco”, specie nel campo tecnologico, settore chiave, è davvero lontano.
Quel che ci si aspetta è quindi un cambiamento di toni (non sentiremo più un politico parlare del fatto che “non permetteremo alla Cina di violentare il nostro paese”) e un ritorno allo strumento diplomatico.
Di fatto il terreno di scontro a livello tecnologico vedrà i due paesi coinvolti sui temi del 5G (o del 6G visto il recente lancio del primo satellite sperimentale cinese), dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie.
Se quanto detto da Biden in campagna elettorale verrà confermato, poi, dovremo attenderci un ruolo centrale della questione uigura, con conseguenze nel settore tecnologico che vedranno una maggiore attenzione sui rapporti fra aziende USA e aziende cinesi che operano nel settore della sorveglianza evoluta.
Uno sguardo all’Europa
Questo “cambio di stile” dell’amministrazione Biden potrebbe avere riflessi che vanno ben oltre la forma, consentendo di raccogliere intorno agli USA un fronte tecnologico alternativo alla Cina (eventualità temuta a Pechino), fronte che includerà senz’altro l’Europa.
Mentre Trump non ha brillato nel costruire relazioni nel vecchio continente (anche a causa del contegno imprevedibile), verosimilmente Biden (che già ha menzionato in campagna elettorale la necessità di stringere relazioni per creare un fronte comune di contrasto alla Cina) cercherà di riallacciare questi rapporti, cercando di spingere i partner europei a limitare le ingerenze cinesi (anche nel settore tecnologico) facendo leva non tanto sulla paura di illecite intrusioni, quanto sulla necessità di limitare uno sviluppo tecnologico che verrà, a latere, utilizzato per compiere violazioni sistematiche di diritti umani.
Questo “fronte” potrebbe poi includere numerosi altri soggetti, come Giappone, Corea del Sud e Taiwan (storici alleati degli Stati Uniti), al fine quantomeno di rendere biunivoco il disaccoppiamento tecnologico cui pare indirizzata la Cina, per evitare che gli USA si trovino un domani nella spiacevole situazione in cui si è trovato il gigante asiatico oggi.