La sinergia tra scienze cognitive e sviluppo tecnologico sta aprendo scenari fino a poco tempo fa impensabili nel campo del controllo e del condizionamento dei comportamenti umani, in particolare di massa. Ecco perché molti esperti pensano che è la matematica la chiave delle guerre (fredde e non) del presente, mentre in passato si pensava alla fisica (bomba atomica).
Dai dati e dagli algoritmi matematici necessari ad analizzarli dipende il futuro delle super potenze mondiali.
Questo ha un impatto enorme sia in ambito commerciale e di marketing, che in ambito di comunicazione politica, generazione di consenso e amministrazione del potere (si cita ormai sempre il celeberrimo caso di Cambridge Analytica a dimostrazione che si parla di fenomeni attuali).
Proprio per questo il controllo dei flussi di dati relativi alle popolazioni è diventato un punto di rilevanza tale da muovere le diplomazie internazionali, e da essere una delle questioni al entro del contendere nel confronto tra USA e Cina.
Si tratta di vincere una competizione per il controllo dei dati che può rappresentare il perno per la costruzione di una nuova egemonia globale, alla quale – peraltro – partecipano quasi da concorrenti Stati e compagnie private, in particolare i colossi dell’ICT quali Apple, Microsoft, Facebook o Huawei, pur con diverse modalità e modelli.
L’Europa, in questo contesto, appare isolata nella sua strenua volontà di mettere al centro la difesa dei diritti fondamentali tutelati dal Gdpr. I cittadini Ue, perciò dovrebbero prestare maggiore attenzione al dualismo Usa-Cina e alle varie e variegate ragioni che lo animano.
Tecnologie digitali e conflitti
Per capirci di più, partiamo dal ruolo sempre più centrale delle tecnologie digitali nei conflitti della nostra era.
Da un lato il tema enorme della cyberwar, in riferimento alla quale è consigliatissima la lettura della notevole pubblicazione di G. Suffia “Geografia delle cyberwars. Uomini e Stati alla prova dello spazio digitale”. Dall’altro il tema dell’intelligence e dell’information war, anch’esso non certo sconosciuto agli analisti, dai tempi della traduzione e diffusione in area atlantica di “Guerra senza limiti” fino alle recenti analisi sull’utilizzo delle fake news via social a scopo di deception e ingerenza politica.
La cronaca recentissima ci consegna un contesto politico internazionale caratterizzato da una conflittualità crescente tra USA e Cina, sfociata nelle ultime accuse di spionaggio portate dall’Amministrazione USA al governo di Pechino, che avrebbe operato mediante due spie in USA al fine di sottrarre informazioni strategiche relative a uno dei tanti vaccini contro il Covid-19 in corso di sviluppo. Sulla scorta di tali accuse, si è giunti al gesto diplomatico dimostrativo della chiusura della sede diplomatica cinese a Huston.
Non solo, gli strali statunitensi, interpretati con particolare attivismo da Mike Pompeo, investono la già nota questione relativa a TikTok, da tempo contestato da diverse autorità statali (India, Inghilterra) perché sospettato di trasferire i dati ricavati dal traffico generato alle autorità di Pechino.
A completare i punti salienti del panorama “informativo-tecnologico” dello scontro in atto tra le due potenze c’è poi la questione ormai di lungo corso connessa allo sviluppo del 5G, che ha recentemente visto numerosi Paesi europei assumere decisioni in linea con quanto auspicato dalle autorità USA diverso tempo fa, negando a Huawei la possibilità di partecipare, come fornitore di infrastrutture, all’adeguamento tecnologico in atto, pur nonostante le notevoli problematiche in termini di costi e tempistiche di realizzazione conseguenti a tale scelta.
Cosa stia accadendo sullo scacchiere globale è oggetto di numerose attenzioni e il dato ormai chiaro è che, sotto il profilo dello scontro tra potenze, la cifra di inizio millennio è quella della contrapposizione tra USA e Cina, come peraltro ampiamente previsto nei decenni precedenti, per lo meno a seguito del collasso sovietico.
Interessante, tuttavia, notare – come evidenziato in apertura – il sempre maggior rilievo delle nuove tecnologie digitali e del fattore informativo in queste forme di confronto violento tra diverse potenze. Ad attirare l’attenzione, infatti, è il dato per il quale la contesa relativa a infrastrutture e servizi informatici abbia trasceso il perimetro essenziale delle linee di approvvigionamento elettrico e di accesso al cyberspace e stia investendo anche il comparto specifico dell’informazione e della socialità online di massa.
Lotta all’ultimo dato
Il punto, cioè, di rilevanza tale da muovere le diplomazie internazionali, non è più (solo) quello riguardante la garanzia del funzionamento dei software di supporto a ospedali e centrali nucleari, ma quello dei servizi idonei ad assicurarsi il controllo dei flussi di dati relativi alle popolazioni.
Ciò accade per diverse ragioni. La più diretta è evidentemente quella più strettamente connessa alle strategie e tattiche di indebolimento dell’avversario mediante operazioni di disinformazione e influenza o di consent-making, veicolate attraverso i social media. Ve n’è poi una meno evidente ai non addetti ai lavori, connessa agli aspetti più tecnici dello sviluppo delle nuove tecnologie, che passa per il controllo stesso dei dati, più che dei servizi su di essi basati.
Per quanto concerne la prima, vi sono diverse considerazioni che possono essere qui sintetizzate. Difficile non notare come, negli ultimi anni, le caratteristiche dei nuovi media abbiano stimolato l’attenzione di diversi attori emergenti (o, comunque, svantaggiati sul piano della proiezione di potenza classico) sia nel teatro internazionale/interstatale che nei diversi scenari interni (competizioni politiche). Dalla Corea del Nord alla Russia, passando per la Cina, fino – sul piano interno – a movimenti politici come il Movimento 5 Stelle, la Lega di Salvini, Trump in USA (dove prima di lui si era per contraddistinto per l’attivismo anche Obama), tutti questi soggetti hanno colto alcune peculiarità del fenomeno digitale che hanno loro permesso di essere competitivi (o, comunque, meno irrilevanti) nei confronti dei poli di potere consolidati con i quali si sono confrontati.
Dapprima l’elemento novità e la scarsa attenzione dei soggetti più datati, poi il vantaggiosissimo rapporto tra costo ed efficacia degli strumenti mediatici online hanno fatto sì che venisse ridotto in maniera notevolissima il vantaggio strategico di chi poteva vantare il controllo sui mezzi di proiezione di forza classici. Ciò sia per quanto concerne la possibilità di operare veri e propri attacchi ai propri competitor (cyberwar) o per operazioni di cyberintelligence, che – ed è questo l’elemento di maggior novità – per quanto riguarda il terreno delle competizioni politiche e, comunque, delle contese per il sostegno dell’opinione pubblica (si pensi a campagne operate da organizzazioni politiche verso opinioni pubbliche estere, ma anche di operazioni di comunicazione operate da multinazionali e soggetti spuri).
Le dinamiche attraverso le quali questo avviene sono numerosissime. Per fare alcuni esempi, si pensi all’utilizzo di chatbot, che consentono la diffusione di contenuti via social a tappeto, simulando peraltro consenso diffuso e stimolando perciò un effetto “gregge” tra gli utenti. I chatbot, infatti, sono software utilizzati per simulare account di utenti sui social network attraverso i quali diffondere (mediante post e commenti) contenuti desiderati, simulando l’attività di utenti umani, a volte in modo talmente fedele da risultare sostanzialmente indistinguibili da utenti umani (grazie a tecnologie di artificial intelligence).
Armi di disinformazione di massa
A questi, poi, può essere associato il fenomeno della diffusione di fake news, nelle più diverse accezioni al termine conferite dalla notevolissima produzione analitica sul tema degli ultimi anni. Inoltre, questi strumenti possono essere utilizzati per favorire la formazione tempestiva di “movimenti” temporanei e apparentemente indipendenti, uniti da obiettivi contingenti, utili a condurre battaglie di indebolimento verso avversari o a portare consensi verso una causa o una parte politica, anche mascherando dietro movimenti di opinione realtà o organizzazioni politiche ben connotate e, per questo, più divisive.
Sempre mediante i social media, è possibile dare poi risalto a simili movimenti e/o manifestazioni (a volte anche solo virtuali), facendoli circolare al di fuori del circuito mediatico classico (costretto, poi, a rincorrere per ragioni di audience). Si pensi alla quantità enorme di contenuti (più o meno veritieri) circolata su episodi degli ultimi anni a partire dalla guerra in Ucraina, passando per le questioni relative ai vaccini, fino ad arrivare alle ultime vicende USA connesse al movimento Black Lives Matter e al controverso boicottaggio della pubblicità su Facebook da parte del movimento Stop Hate for Profit.
La geopolitica dei big data
Se tutto ciò ha rilevanza, in particolare nel breve e medio termine, ne ha per certi versi molta di più – in particolare sul lungo termine – la seconda delle ragioni in precedenza accennata. Infatti, la big data analytics consente oggi di elaborare in tempi brevissimi moli di informazioni enormi ed eterogenee ricavando elementi informativi di primissima utilità dall’analisi di dati e metadati relativi a qualunque fenomeno o circostanza ambientale. Fenomeni e circostanze che, peraltro, sono sempre più idonei ad essere “digitalizzati” in modo completo e continuo, grazie ai progressi nel campo dell’interazione tra realtà virtuale e analogica (IoT).
Oggi è possibile disporre in modo proficuo di volumi informativi inimmaginabili ed elaborare, sulla base di questi, strategie puntuali circa ogni campo dell’agire umano. Si pensi a quanto accade anche in ambito privato, nel mondo del business, come buon termine di paragone. Le imprese, grazie a software di business intelligence sempre più evoluti e alla digitalizzazione di progetti e flussi documentali, sono in grado oggi di produrre analisi dettagliatissime, anche predittive, circa la loro supply chain, le strategie commerciali, la gestione delle risorse umane.
Lo stesso è possibile fare in ambito pubblico o, comunque, di espansione politica. Monitorando un individuo nei suoi movimenti, nelle sue scelte, nei suoi comportamenti online, nei suoi stati emotivi è infatti possibile profilarlo in modo molto dettagliato e prevederne (se non influenzarne) le scelte, attraverso la manipolazione delle sue paure e aspettative. Se a livello individuale il processo conserva ovvi limiti (che non lo rendono, tuttavia, inefficace oggi e probabilmente ancor meno domani, con il procedere dello sviluppo dell’I.A. e delle tecniche di analisi e di machine learning), a livello di massa offre risultati sempre più incentivanti e costituisce quindi un enorme asset in termini di generazione e gestione di influenza politica.
Per queste ragioni anche le più grandi potenze economiche e militari globali sono condizionate in modo rilevante nelle loro scelte di politica estera dalle dinamiche in materia di infrastrutture digitali e social media.
Conclusioni: il ruolo dell’Europa
Concludendo, ciò che certamente ricopre un interesse rilevante, per l’osservatore europeo, è comprendere che i modelli a confronto nello scontro sopra descritto non coincidono, in nessuno dei casi, con quello che anima lo spirito del vecchio continente e dell’UE.
La tutela, come fine ultimo, dei diritti fondamentali e delle libertà delle persone fisiche, come indicato nella norma che meglio incarna l’applicazione del sentire europeo in ambito di ecosistema digitale, il GDPR, non è infatti prioritaria in nessuno dei paradigmi a confronto.
Il modello realizzato in Cina, che in ambito di data governance è ben incarnato dal Social Credit System, è quello di un controllo di massa fondato su miti comuni interpretati e diffusi dal potere pubblico, incarnato dal Partito, la cui egemonia è sottratta a dinamiche di contrappeso e controllo democratico.
Per contro, il “modello statunitense”, prevede anch’esso una prevalenza del volere collettivo legittimante un controllo di massa, pur meno esplicito e con forme diverse, in quanto affidato a stakeholder privati, perseguenti in primo luogo interessi particolari e, comunque, non sottoposti al controllo democratico diretto. Che tale fatto non sia facilmente contestabile è testimoniato da numerosi episodi, basti pensare al datagate, e, d’altro canto, se ne trova traccia anche nella ricostruzione operata dalla recentissima sentenza con cui la Corte di Giustizia europea ha archiviato il Privacy Shield.
L’osservatore europeo, dunque, dovrebbe guardare con estremo interesse a questo dualismo (che è tale solo in campo di puro contrasto tra potenze sovrane, perché se analizzato in termini più ampi vede partecipare, come detto anche player di natura diversa con ruoli a volte vassalli e a volte molto meno) di inizio millennio con l’obiettivo di percepirsi come parte autonoma e gerente interessi ben differenziati da tutte le parti in conflitto.
Nessuno dei paradigmi di cui sono foriere le parti in causa rappresenta, infatti, una equilibrata trasposizione dei valori europei, che non possono certo tradursi in un atteggiamento di chiusura verso le opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico ma che impongono, allo stesso tempo, un’applicazione delle stesse che sia sempre confinata entro un perimetro che garantisca al di là di ogni ragionevole dubbio la conservazione dello spazio di libertà minima della persona umana.
Né l’aristocrazia dei grandi gruppi privati, né il grande fratello orientale lasciano infatti intravedere scenari coerenti con quanto ogni cittadino europeo, a prescindere dai diversi orientamenti politici, parrebbe disposto a tollerare.