Importanti sviluppi, che potrebbero mutare in maniera significativa il quadro internazionale negli anni a venire, si prospettano in tema di tassazione della digital economy: nel corso del G20 tenutosi all’inizio del mese di giugno, infatti, i ministri delle finanze dei Paesi aderenti hanno definito un accordo di principio per elaborare entro la fine del 2020 una soluzione comune alle questioni di natura fiscale correlate alla digitalizzazione, soluzione che dovrebbe concretizzarsi nell’introdurre una digital tax (più corretto rispetto a “web tax”) a livello globale.
Una prospettiva importante, in vista della quale, tuttavia, non può non essere evidenziato lo scarso commitment dell’Unione europea, la quale rischia di non avere un ruolo incisivo nel processo di formulazione di una proposta congiunta e quindi di dover “subire” un orientamento internazionale che rischia di privilegiare i grandi “campioni digitali” extra-europei.
La proposta di “web tax” globale e l’attuale contesto economico
I recenti sviluppi non possono che valutarsi favorevolmente. Secondo quanto discusso all’ultimo G20, dovrebbe essere introdotto un sistema di tassazione che consenta agli Stati di assoggettare ad imposta i redditi che le multinazionali della digital economy realizzano, anche se non fisicamente presenti nelle giurisdizioni in cui operano, dagli utenti e dai consumatori ivi localizzati.
Sebbene non sia ancora stato definito uno standard di digital tax, si è trovato il consenso su una road map piuttosto puntuale (e sfidante, vista la tempistica relativamente stretta, ovverosia la fine del 2020) e sono stati convenuti i due principi fondamentali, o “pilastri” (pillars) ai quali ci si dovrà attenere nella formulazione di una proposta congiunta in sede OCSE/G20, e cioè:
- modificare le attuali regole di allocazione della tassazione tra gli Stati, sulla base dei concetti di “user participation”, “marketing intangibles” e “significant economic presence”;
- introdurre un meccanismo globale volto a contrastare l’erosione della base imponibile e la localizzazione dei redditi in giurisdizioni a bassa fiscalità, inserendo in sostanza una minimum digital tax su scala globale.
Ciò è particolarmente importante se si considera che, anche in ambito tributario, la digital economy ha rappresentato un punto di svolta. L’economia digitale è stata infatti in grado di mettere in crisi gli “ordinari” principi di tassazione che sin dagli anni ’20 del Novecento hanno regolato l’imposizione fiscale delle imprese nel contesto internazionale, poiché tali principi – basati sul modello economico industriale che ha caratterizzato il contesto economico sino alla “rivoluzione digitale” – presuppongono che i redditi che una impresa estera consegue in uno Stato siano soggetti ad imposizione in detto Stato solamente se l’impresa ha ivi un livello sufficiente di presenza fisica, in forma di “sede fissa d’affari” o di “agente dipendente” (ovverosia, in termini di stabile organizzazione).
Di fatto, quindi, gli attuali schemi impositivi sono in gran parte svincolati dal luogo in cui vengono generati i ricavi.
E’ evidente che questo modello non si può adattare ad un contesto economico in cui non è necessaria neppure una minima presenza fisica (o in cui tale presenza minima può essere frazionata su diverse giurisdizioni) per poter operare su un mercato e generare ricavi, qual è appunto il contesto che caratterizza la digital economy, in cui taluni operatori riescono a convogliare la maggior parte dei redditi imponibili verso giurisdizioni (anche europee) a bassa fiscalità.
La necessità di una risposta coordinata in ambito Ocse/G20
Da quanto appena descritto deriva la necessità di una risposta coordinata da parte dell’OCSE e dei Paesi del G20, poiché è di tutta evidenza che ad un fenomeno che interessa la comunità internazionale non può che essere data una risposta sovranazionale – risposta che, appunto, la comunità internazionale sta iniziando a dare a livello unitario.
E’ quindi importante sottolineare che la condivisione di un comune orientamento internazionale appare tanto più importante se si considera che diversi Stati, anche europei, hanno provato a fornire risposte prettamente “nazionali” alle distorsioni di cui si è dato conto in precedenza, ovverosia ad introdurre unilateralmente una sistema di digital tax.
Generalmente questi sistemi di tassazione unilaterale si caratterizzano per alcuni elementi:
- imposizione basata sui ricavi (e non sui redditi) mediante l’applicazione di una aliquota contenuta (pochi punti percentuali);
- focalizzazione su alcuni specifici servizi resi in via digitale (quali ad esempio la pubblicità online e cessione di dati);
- tassazione solo oltre un elevato ammontare di ricavi complessivi (ad esempio, ricavi oltre 5 miliardi di Euro annui).
La web tax all’italiana (in attesa delle norme attuative)
Anche l’Italia ha introdotto, con la Legge di Bilancio 2019 (legge 30 dicembre 2018, articolo 1, commi 35 e seguenti), una web tax modellata sulla base degli elementi sopra indicati, una “imposta sui servizi digitali” quali pubblicità online, intermediazione e trasmissione di dati, ispirata ai criteri per una web tax europea contenuti in una proposta di Direttiva del marzo 2018, proposta che tuttavia non ha ancora avuto seguito in sede europea.
Ad oggi, tuttavia, non sono state ancora emanate le norme di attuazione, e pertanto l’imposta italiana sopra descritta non è ancora entrata in vigore, presumibilmente anche in ragione del fatto che i soggetti chiamati ad attuare tali norme (e financo lo stesso legislatore) hanno inteso, prima di emanare tali norme, prendere atto dei recenti sviluppi avvenuti a livello internazionale di cui si è dato conto in precedenza.
Lo scarso impegno dell’Europa
Infine, occorre menzionare il fatto che se l’approccio, per così dire, “attendista” del Governo italiano e del legislatore è comprensibile alla luce del contesto internazionale, meno comprensibile è il finora scarso commitment che si è finora riscontrato in sede europea su tali materie.
Infatti, oltre ad alcune proposte di direttiva per una web tax comune ad oggi senza seguito, è necessario osservare che le web tax implementate unilateralmente da diversi Stati dell’Unione Europea rischiano di violare le regole in materia di concorrenza, ed in specie il divieto di aiuti di Stato, perché normalmente le soglie di fatturato di tali imposte nazionali sono state congegnate al fine di colpire unicamente gli operatori “esteri” e non anche quelli “nazionali”.
Vi è invero un procedimento instaurato dinanzi alla Corte di Giustizia Europea, volto ad accertare l’illegittimità dell’imposta ungherese sui servizi digitali, per il quale sono state depositate le conclusioni dell’Avvocato Generale il 13 giugno scorso; è quindi possibile che l’Unione attenda la pronuncia della Corte prima di elaborare una propria proposta da sostenere in sede internazionale.
Nondimeno, sarebbe opportuno che, anche senza attendere la pronuncia della Corte al riguardo, i nuovi organi dell’Unione Europea si facessero sin d’ora concretamente e attivamente portatori nel contesto internazionale delle esigenze dell’Unione stessa e degli Stati membri, poiché la stretta tempistica definita in sede OCSE/G20 non pare compatibile con l’attuale commitment dell’Unione.