cultura informatica

Vibe coding: programmare con le vibrazioni e altre tragedie digitali



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Con il “vibe coding” si celebra l’incompetenza mascherata da innovazione. I risultati sono software instabili, risorse sprecate e l’illusione che l’intuizione possa sostituire il metodo

Pubblicato il 16 apr 2025

Walter Vannini

Data Protection Officer autore del podcast DataKnightmare – L'algoritmico è politico (https://www.spreaker.com/show/dataknightmare)



vibe coding

Per parlare di vibe coding, l’ultima moda fra gli allucinati dell‘intelligenza artificiale della Silicon Valley, avrei bisogno di Benigni ai testi. Quel Benigni che in uno spettacolo cercò di spiegare il senso culturale, molto più che anticlericale, della bestemmia nel carattere toscano.

Benigni, le bestemmie e il valore del metodo nell’informatica come nella comunicazione

Fece un esempio che mi ricordo a distanza di decenni: iniziò dicendo “porca” e fini qualcosa come due minuti dopo dicendo “madonna”.

Nel mezzo, una sequela infinita di aggettivi, subordinate relative, coordinate e di tutto di più. La cosa collateralmente divertente è che nessuna singola parte poteva venire censurata, primo perché grammaticalmente nessuna costituiva una bestemmia completa. E secondo perché prendersela con la madonna o i santi non era reato nemmeno quando bestemmiare una divinità lo era.

Perché va bene giullare, ma in un paese come l’Italia meglio non rischiare che nella foga dello spettacolo inciampiamo nel codice penale.

Ecco. Direi che quella gag sarebbe il sottofondo ideale per l’episodio di oggi.

Veniamo a noi.

I cervelli californiani che “sentono la AGI”: il mito dell’AI come religione del progresso

Fra quelli che contano, o magari che vorrebbero contare di più nella Silicon Valley, gira questo modo di dire “I feel the AGI”. Significa che il parlante percepisce quasi la presenza della Intelligenza Artificiale Generale, quell’entità mitologica che ha rimpiazzato la seconda venuta di Cristo nelle menti labili.

L’Intelligenza Artificiale Generale secondo il mito sarebbe una AI con prestazioni superiori a qualunque essere umano in ogni campo dello scibile, e specificamente in ogni attività economicamente rilevante.

Questo va sempre chiarito, perché l’essenza del fascino della AGI, prima ancora della singolarità che porterà tutti a vivere in forma digale dentro un supercomputer, senza peraltro mai chiarire chi lo terrebbe acceso, è che la AGI produrrebbe ricchezza gratis.

E quindi quando sono a corto di argomenti tangibili, o quando vogliono fare quelli che sono troppo avanti, i nostri bravi cervelli californiani dicono che “sentono la AGI”.

Ovviamente al di fuori della loro testa non c’è niente di tangibile a cui possano riferirsi, e quindi l’interlocutore si ritrova con questa professione di fede che, le sole repliche razionali essendo accuse durissime nei confronti della Vergine o rivelazioni scioccanti sulla reale professione della genitrice della controparte, di solito chiude la conversazione.

Ecco. “Feeling the AGI” va nella categoria “fa fico e non impegna”. Una frase che non dice niente dell’argomento specifico, molto del parlante, e che mette al sicuro da qualsiasi discussione.

Il salto concettuale come strategia di fuga

Non so da quanti anni lo ripeto, ma la sola vera chiave di lettura per questi tempi è quella clinica.

Siamo di fronte a gente che ha perso ogni contatto con la realtà e che è disposta a qualsiasi salto concettuale pur di razionalizzare le proprie allucinazioni e di mantenere la propria immagine del mondo.

Non serve a nulla seguirli sulla loro strada e dimostrare che nessuna delle loro convinzioni ha un riscontro reale. Come in ogni discussione con un folle, non c’è modo di avere la meglio sul castello di logiche circolari che difende la sua psicosi dalla realtà.

Quando la fede nell’IA sostituisce il metodo scientifico

E se si trattasse di amici invisibili che vivono in cielo potremmo anche lasciar perdere. Almeno noi europei, che dopo la pace di Vestfalia del 1648, abbiamo capito che il solo modo di mettere fine alle guerre di religione è davvero che ognuno ha il diritto di pregare chi gli pare e nessuno ha quello di discutere gli dèi degli altri.

Il problema è che la religione della IA pretende di essere scienza e la sua stramaledetta industria assorbe risorse economiche di cui ci sarebbe un enorme bisogno altrove, per esempio… in qualsiasi cosa che avesse dei risultati tangibili sulla vita delle persone.

C’è anche un’altra cosa da dire. Ed è che le psicosi e, storicamente le religioni, non reagiscono bene a un approccio dialettico. Ho un po’ timore di cosa potrà succedere quando la loro allucinazione crollerà.

Ma non divaghiamo.

Il vibe coding: genesi di un delirio operativo

A fare il paio con questa cosa di sentire la AGI che cammina al tuo fianco, ma come Gesù non lascia impronte sulla sabbia, ce n’è un’altra, più una nota di colore se volete, ma tutta la discussione sulla IA non dovrebbe mai essere uscita dai tabloid, quindi alla fine non è che ci siano argomenti più alti e più frivoli, sempre a parlare di fumo stiamo.

E il fumo si chiama “vibe coding”.

Quando ho scoperto il concetto la mia prima reazione è stata di trovarmi di fronte a un meme di quelli divertenti. Poi invece ho scoperto che è qualcosa che esiste, l’ultima moda fra gli allucinati della IA.

L’idea di “vibe coding” è stata inventata, o almeno messa in una forma precisa, da un certo Andrej Karpathy, che un paio di mesi fa su X ha scritto questo (la traduzione è mia).

Esiste un nuovo tipo di coding che io chiamo “vibe coding”, in cui ci si abbandona completamente alle vibrazioni, si abbracciano gli esponenziali e ci si dimentica dell’esistenza del codice. È possibile perché gli LLM (ad esempio Cursor Composer e Sonnet) stanno diventando troppo bravi. \[…\] non si tratta di vero e proprio coding: vedo solo cose, dico cose, eseguo cose e copio e incollo cose, e per lo più funziona.

Andrej Karpathy, 3 February 2025, [X message]

L’informatica come disciplina culturale tradita

Il mio maestro, Gianni Degli Antoni, la prima volta che lo incontrai disse “l’informatica è la scienza e l’arte di risolvere i problemi, a volte con l’uso del computer.”

In oltre quarant’anni non ho mai trovato un motivo per allontanarmi da quella definizione.

Al punto che ogni volta che sento la parola “coding” mi si rizzano i peli, perché programmare è un modo di indagare un problema, mentre il codice è solo uno dei prodotti tangibili di quel processo, purtroppo quasi sempre l’unico a essere remunerato. Ma un informatico che approccia un problema torna a casa non solo con un po’ di codice, ma con una comprensione assoluta e profonda del problema, del suo contesto, e del funzionamento della soluzione che ha realizzato.

Questa è la bellezza dell’informatica: è una disciplina intellettuale, prima ancora che ingegneristica.

Ecco, di questo oggi magari non parliamo.

Parliamo invece di questo “vibe coding”, in cui ci si abbandona completamente alle vibrazioni, si abbracciano gli esponenziali e ci si dimentica dell’esistenza del codice.

La retorica del fondatore come strategia di potere

Ora, fino a dimentcare l’esistenza del codice ci posso arrivare. Ma sentire le vibrazioni e abbracciare gli esponenziali…

DI COSA C***O STIAMO PARLANDO?

Risposta: sono solo frasi a effetto, fatte per impressionare chi ascolta dando l’impressione di avere detto qualcosa di profondo. Sono puttanate da venditore, da ciarlatano, da founder, se vogliamo usare un termine alla moda.

Karpathy stesso, che ha un dottorato, dice che è qualcosa che va bene per i progettini da weekend e per gli hobbisti.

Ora perché qualcuno con un dottorato, qualcuno che è stato direttore dell’Intelligenza artificiale di Tesla e che presumibilmente sa di cosa parliamo quando parliamo di programmare dovrebbe dire delle scemenze simili?

Perché gli fa comodo. Perché dopo Tesla è passato a fondare OpenAI, e adesso ha una società di AI e didattica, dio ci salvi. E a uno così, adesso, fa comodo seminare ignoranza e stupidità perché sa che mieterà soldi. Sempre lì si va a parare.

Io prego gli dèi perché gli venga un ascesso, e finisca nelle mani di un serio professionista che applica la “vibe dentistry”.

Il mito del funzionamento occasionale

Torniamo un attimo all’ultima frase:

> vedo solo cose, dico cose, eseguo cose e copio e incollo cose, e per lo più funziona.

a parte gli echi di Nanni Moretti, a me atterrisce la chiusura.

Per lo più funziona.

Qui c’è uno con un dottorato che ci dice che genera codice a casaccio, che per lo più funziona, e che a lui va bene così.

Non serve a niente che ci siano gli incisi che dicono che va bene per gli hobbisti. Il messaggio che passa è chiarissimo. Metti assieme cose a casaccio finché il risultato non è per lo più quello che volevi. Sottinteso, buono abbastanza per fare una demo e convincere un finanziatore.

La cultura del codice usa e getta: il disastro è servito

Se servisse un altro chiodo nella bara della cultura informatica, questo lo è.

L’informatica è il solo ambito in cui cialtronerie di questo livello vengono consentite.

E i risultati li vediamo. Programmare è defecare codice, una cosa che si impara come hobby, che bisogno c’è di studiare o di una metodologia qualsiasi.

Bachi? C’è il Continuous Development, quelli che non fissi oggi c’è sempre domani.

Documentazione? È sempre indietro, e comunque ormai il codice te lo spiega Copilot, a cosa vuoi che serva la documentazione.

E tutto sta in piedi perché per farlo impieghiamo una quantità così favolosa di risorse che potremmo costruire un grattacielo con gli stuzzicadenti, tanto è lo scotch con cui li teniamo assieme.

Questa è la ricetta per il disastro, non mi stancherò mai di ripeterlo. Una volta dicevo “quando gli aerei cominceranno a cadere, capiremo”.

Poi i Boeing 737 Max hanno cominciato a venire giù come pere mature, e non è successo niente.

L’illusione dell’efficienza nell’era del vibe coding

Adesso siamo arrivati al punto che dei ragazzotti allucinati guidati da un imbecille sotto ketamina vogliono riscrivere la codebase della Social Security Administration statunitense. Sessanta o forse ottanta milioni di linee di COBOL testate per oltre cinquant’anni.

Non sanno nemmeno cosa facciano, quei milioni di linee di codice, ma se lo fanno spiegare da chatGPT o da Grok.

E vogliono riscriverle in un linguaggio “più moderno”. Che gli dèi abbiano pietà di noi.

Hobbisti in preda a visioni mistiche, mai andati al di là dei linguaggi di scripting e del paradigma della programmazione a martellate, arrivano e si mettono a giocare con una codebase che sta in piedi da quando. loro genitori prendevano il biberon.

E decidono di riscriverla per “renderla più efficiente”.

A parte che l’efficienza è quella cosa che cerchi quando sei sicuro di stare facendo la cosa giusta, ho serissimi dubbi che quello che passa oggi per “efficienza” possa anche solo lontanamente competere con codice compilato e testato per cinquant’anni.

Questa è gente che per scrivere “hello, World” crea un eseguibile da qualche megabyte, usa sistemi operativi che “preferiscono” 32 gigabyte di RAM e CPU con un minimo di otto core, e si permettono pure di parlare di efficienza.

Il problema di fondo degli LLM, e per estensione di tutto quello che passa per “AI” oggi, inclusa questa idiozia del vibe coding, è che ci troviamo di fronte a un gigantesco culto del cargo as a service.

Tutta l’apparenza di qualcosa che funziona, e niente dietro.

E ci stiamo giocando sopra le nostre intere economie.

Il risveglio arriva sempre, prima o poi. Questo sarà durissimo.

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