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Videogame, robotica ed education: un rapporto sempre più stretto



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La tecnologia ci educa, il videogame può insegnare il coding e a programmare, quindi a sviluppare pensiero critico, a collaborare mettendo insieme background diversissimi: musica, arte figurativa, storytelling, materie STEM, ma anche filosofia, marketing, robotica. Ecco come diventa un ponte per creare classi aperte

Pubblicato il 21 giu 2023

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons



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Robot e videogame cosa c’è in comune? Un robot è una macchina programmabile, il videogame è un programma. Quindi innanzitutto il linguaggio computazionale è ciò che questi due oggetti hanno in comune. Ma c’è molto di più…

Lorenza Saettone - Gamics Carrara, intervista con Brotherhood: "robotica, gaming ed educazione"

In realtà, i personaggi non giocabili che popolano i videogame sono molto simili a un robot virtuale: essi reagiscono, sulla base di istruzioni tipo “se si verifica questo… allora fai quest’altro…”, a quello che accade nell’ambiente simulato. Se queste procedure vengono inserite dentro a una macchina, dotata di sensori con cui può captare le precondizioni nell’ambiente reale, un elaboratore interno e dei motori che eseguono tali risposte, beh, quel personaggio non giocabile si trasforma in un robot. Infatti, molte volte i ricercatori in scienze cognitive e computer science testano le architetture cognitive, cioè un insieme di strutture e modelli integrati per simulare comportamenti intelligenti nei robot, proprio dentro a sandbox, ad ambienti videoludici.

La simulazione

Simulazione… sia videogiochi sia robot sono rappresentazioni. Il videogame simula un contesto, un ambiente di azioni, reazioni, oggetti e leggi fisiche credibili o incredibili, a seconda di quello che vogliamo ottenere; il robot deve tener conto di quelle leggi fisiche, meccaniche, altrimenti non funziona.

Nel videogame abbiamo il solo vincolo del computer, dell’hardware: deve rispondere alle sue regole. In secondo luogo, ogni singola macchina, a seconda del contesto, non simulato, in cui va a inserirsi, viene dotata di sensori e motori; quindi, prende ispirazione dalle strategie di risposta e quindi di sopravvivenza per quell’ambiente degli individui già selezionati dalla Natura da milioni di anni. Il robot per essere tale deve essere autonomo o semiautonomo quindi deve avere connessioni con l’ambiente, tramite sensori e motori e quindi deve avere una certa estetica che meglio lo fa rispondere ai vincoli ambientali, ma anche sociali. In effetti se ci aspettiamo che un robot si interfacci con gli esseri umani, allora deve funzionare anche socialmente, incorporando caratteristiche che siano sicure e piacevoli per gli individui.

Le interfacce

Interfacce. I robot sono interfacce, essenzialmente, tra stimoli esterni e l’algoritmo interno alla macchina. Anche i videogame necessitano di interfacce tra noi e l’algoritmo. Tali interfacce sono tastiere, mouse, controller, i quali sono macchine dotate di sensori, che convertono l’intenzione del gamer in un’informazione che il computer e quindi il programma saprà interpretare: troviamo sensori tocco, i bottoni, sensori movimento, giroscopi, accelerometri e molto altro. Sono tutti sensori che i robot a loro volta hanno. Poi appunto la differenza è che il robot reagisce e sente nel nostro ambiente, nel videogame siamo noi che assumiamo la fattezza di un robot virtuale ed entriamo nell’ambiente simulato per agire in esso.
In ambedue i casi si tratta di tecnologie che si relazionano agli esseri umani. Come ho detto ogni tool, se vuole entrare nella società, non deve solo funzionare come oggetto fisico, ma deve andare bene anche come oggetto sociale. Significa che il rapporto con gli esseri umani va pensato criticamente e compreso a fondo in che modo gli oggetti comunicheranno di essere utilizzati.

Se li osserviamo bene, gli strumenti che escono dalle fabbriche presentano già un’impugnatura, una traccia, un’impronta prima che una mano li abbia afferrati. Cosa significa questo? Che l’idea che sottende alla produzione delle tecnologie, qualunque esse siano, si imprime nell’oggetto in modo oltremodo fisico: quindi, sì, ogni strumento, anche prima dell’uso, è già usato dall’idea di mano. Ma quale mano? Quale corpo?

Il progetto Gameability

Io collaboro anche al progetto Gameability, iniziativa del ricercatore Giacinto Barresi dell’IIT, dell’Istituto Italiano di Tecnologie di Genova. Gameability ha l’obiettivo di formare i ragazzi delle affordances che i controller comunicano. Normalmente si tratta di informazione di utilizzo per un determinato tipo di corpo dotato di due mani, dieci dita e capacità sensoriali e movimenti performanti al 100 percento. Insomma, i controller sono oltremodo esclusivi, perciò rappresentano ostacoli, barriere per chi non è dotato di quel corpo. Sono protesi per “persone sane”. Barresi, che all’IIT si occupa proprio di protesi e di usabilità, con questo progetto mira a portare nelle classi questo punto di vista sulle cose, sul rapporto uomo-macchina che comunicano tramite la loro estetica. È un percorso per educare i ragazzi a osservare gli enti artificiali in modo critico, facendo emergere il tipo di umano preso a modello per quella costruzione, proponendo poi un percorso di progettazione e creazione di interfacce alternative, capaci di includere altri corpi, altre menti, che possano finalmente funzionare senza diventare barriere per l’ingresso nel videogioco.

Anche con Scuola di Robotica perseguiamo scopi simili. Siamo un ente formatore del MIUR, oltre a seguire diversi progetti nazionali e internazionali, in cui al centro c’è sempre l’educazione a tecnologie human-centered, in cui l’etica sia data by design. Nei corsi che tengo con Scuola di Robotica porto avanti lo scopo di Gameability di contestualizzare ogni strumento e creare insieme a docenti e alunni contesti di gioco inclusivi, tramite sensori movimento, microfoni, o modelli di machine learning, perché la community del gaming si arricchisca di giocatori e giocatrici dalle individualità più disparate. La diversità è sempre un vantaggio per la ricerca stessa – il mio dottorato è essenzialmente focalizzato sulla diversity awareness nelle sue più ampie (e diverse) accezioni.

Avete presente il pyramidion? È quel puntale, quella cuspide a forma di piramide e posta sulla loro sommità. In realtà sarebbe meglio dire che la piramide è fatta a somiglianza del pyramidion. Parrebbe un giocattolino dorato, esemplare in scala di quell’enorme struttura che poi lo ospiterà, mentre il rapporto modello-copia è da invertire: è la tomba faraonica, una delle meraviglie del mondo, a prendere le sue misure dal pyramidion. Quest’ultimo, dopo aver definito le proporzioni della piramide, va a collocarsi sulla sommità della costruzione, entrando quindi nella rappresentazione di cui era archetipo, modello. Lo stesso mi sembra essere il rapporto umano-robot e umano-videogame. L’umano è il modello a cui il gioco elettronico si ispira e che entra in quella rappresentazione, che, di contro, finisce per comprenderlo, modificandone il significato, il ruolo.

Il rapporto uomo-robot o uomo-videogame

Non a caso affermo che il rapporto uomo-robot o uomo-videogame comprende l’essere umano. Ogni tecnologia è una rappresentazione di qualche aspetto del bios, che serve anche per conoscerci meglio e per migliorarci. Le tecnologie, l’arte, la filosofia, qualunque meta-rappresentazione serve per pensarci e poi strutturarci in forma ottimale. Pensiamo allo specchio: prima di questa tecnologia il nostro viso era il più ignoto. Pertanto, mettevamo in scena espressioni facciali spontanee e incoscienti. Quando ci siamo specchiati e abbiamo preso coscienza di quella rappresentazione, la spontaneità si è legata indissolubilmente alle espressioni controllate, decise, regolate, ottimizzate. Lo stesso vale per qualunque tecnologia. Se vogliamo sia utilizzata e che catturi (come prede) i soggetti per cui è destinata, è necessario comprendere il funzionamento dei destinatari, analizzandone le caratteristiche, la routine, i bias stessi; questo oltre a fare sì che la tecnologia funzioni socialmente, permetterà al soggetto di specchiarsi in quella tecnologia, nata con già la sua impronta.

Ogni gioco è una simulazione di qualche attività a cui poi ci dedicheremo in forma estesa; è un contesto non stringente in cui possiamo dedicarci all’apprendimento e all’ottimizzazione di qualche agire senza che nell’immediato ci siano conseguenze. Possiamo fare smorfie davanti allo specchio e comprendere la risposta muscolare, acquisendo una memoria motoria che verrà utile in a tu-per-tu, non dico veri, ma non simulati.

Il rapporto tra rappresentazione e vita

La stessa paura per i robot dipende dal fatto che ci riconosciamo, avendo paura di essere troppo simili a degli oggetti, o che quegli oggetti siano troppo simili a noi. Io in questo momento mi sto occupando di Architetture Cognitive, di come modellare in esse una mente come quella umana. Per farlo in primo luogo io devo partire dall’essere umano, da me stessa, facendomi problema e sottoponendomi al mio tribunale. Faccio filosofia. Dopodiché, la teoria deve trovare una messa a terra, sfruttando la metafora computazionale. In questo processo mi continuo a specchiare, conscia che ogni riflesso resti una simulazione e che non potrò mai conoscere se effettivamente nel flusso del vivere, in quel a-tu-per-tu io sono in quel modo. La mente non è rappresentabile in maniera disincarnata, statica, e non è interna, al contrario fa parte di un processo chiamato Vita tra mente, corpo e società. È chiaro che ogni rappresentazione della mente non può essere la mente. Il divenire, il flusso non può che trascendere qualunque nostro tentativo di simbolizzarlo e staticizzarlo attraverso descrizioni filosofiche, racconti, raffigurazioni, modelli scientifici o simulazioni robotiche. Tuttavia, tra rappresentazione e Vita esiste un rapporto: il mio obiettivo è proprio quello di indagare fenomenologicamente questo legame. A mio parere le rappresentazioni delle attività dell’essere umano e dei suoi modi di essere-nel-mondo, quelli che l’arte, la filosofia, la tecnologia, in particolar modo i robot sociali (per esempio Pepper, NAO o altri), ci restituiscono, hanno la funzione di portarci a riorganizzare il processo della vita in modi più efficienti.

Lo stesso vale per un romanzo: grazie all’immedesimazione nel vissuto altrui, in contesti che potremmo vivere, sviluppiamo connessioni profonde che ci rendono poi più abili nell’agire sociale e dotati di una competenza emotiva empatica forte. Gli stessi videogame allenano problem solving, decision making, attenzione, riflessi, ma anche competenze empatiche e prosociali.

Quindi, sì, ci permettono di conoscerci, in modo sia implicito, senza rendercene conto, sia esplicito, se inseriti in un contesto di meta-riflessione attenta.

Tecnologie, gaming e pensiero critico

La tecnologia ci educa. In effetti più volte ho raccontato come il videogame possa insegnare a gradi diversi di una gerarchia. Il livello più generale può insegnare il coding e a programmare, quindi a sviluppare pensiero critico intorno alle tecnologie e il pensiero computazionale, pensiero fondamentale per la risoluzione step-by-step dei problemi, applicabile in ogni ambito. Il pensiero computazionale insegna a organizzare le idee, a non tralasciare, a schematizzare, migliora la logica e la matematica, essenziali anche per non farsi ingannare da fallacie e da fake news. Inoltre, il videogame è veramente un luogo in cui è possibile per team eterogenei di collaborare, mettendo insieme background diversissimi: musica, arte figurativa, storytelling, materie STEM, ma anche filosofia, marketing, robotica… Diventa un ponte per creare classi aperte.

Un altro elemento da cui si può prendere spunto è la struttura dei giochi: sfida, premi, avanzamenti, competizione, problema chiaro e abilità da sviluppare con progressione crescente, per mantenere in equilibrio frustrazione e noia. In breve gamification. Qualunque materia può essere adattata alla struttura del videogioco. Ne va della motivazione e dell’appagamento dell’alunno, che impara mantenendo però il divertimento di farlo.

I videogame come laboratori

A livello più alto possiamo utilizzare i videogame come laboratori. Io stessa ho usato più volte giochi commerciali per spiegare storia e filosofia. Pentiment è un esempio tra tanti per la storia, o The Last of Us per le etiche deontologica e utilitaristica nel trolley problem affrontato da Joel. Altro livello di utilizzo dei videogiochi sono le soft skill che essi permettono di sviluppare. Come dicevo problem solving e reattività, coordinazione sensomotoria, ma anche, grazie alle trame profonde di molti titoli, competenze empatiche e sociali. Gli eSport e i videogame in generale creano community intere, connessioni profonde tra individui che condividono uno stesso concetto di bello. Grazie a questo è possibile instaurare legami profondi che portano scambi di conoscenze ulteriori. È quello che Mizuko Ito definisce connected learning, un apprendimento connesso, inter-generazionale, in cui i ragazzi, alla ricerca di mentori, possono approfondire conoscenze e fare orientamento per il proprio futuro. La community del gaming non è solo tossica. Io in classe le volte che ho concordato sul concetto di bello con i miei alunni ho sviluppato un legame profondo grazie al quale l’insegnamento e il benessere dei miei alunni ne hanno tratto grande vantaggio educativo. I ragazzi hanno bisogno di essere visti per quello che sono. È essenziale che i docenti riconoscano la cultura delle nuove generazioni, che la discutano dall’interno, senza uno snobistico rifiuto tout court. I ragazzi se sentono di poter scambiare con l’adulto qualcosa che gli è stato riconosciuto come degno di essere raccontato sono più inclini a dare fiducia, a ricevere gli insegnamenti e quindi ad aprirsi alla relazione educativa, che mai deve essere asimmetrica. Se il loro vissuto continua a essere screditato, chiaramente non possono che provare vuoto, senso di inferiorità, innescando comportamenti anomici, impedendo che si generi lo scambio educativo, che è sempre basato sul dono: io ti do perché ti restituisco, altrimenti il legame non può che chiudersi. E tutto questo grazie al bello, che ha la primaria funzione di creare una comunità di fiducia.
Quindi come trasformare la sfiducia in fiducia ponderata? Umberto Eco parlava di apocalittici e integrati, cioè della tendenza umana ad accogliere o a rigettare a prioristicamente la cultura di massa. L’ideologia polarizzata la si è sempre vista applicata a ogni tecnologia. Gli estremi sono facili a livello intellettuale, basta un manifesto di postulati per andare d’accordo con i firmatari di quella verità. Peccato che la virtù sia stare in mezzo, in mezzo a una fune di cui non si conosce la misura, quindi quella medietà si sposta necessariamente. Stare nel mezzo è fare il Funambolo, ma non è affatto semplice, come anche ci spiega lo Zarathustra di Nietzsche.

Nella paura per il digitale c’è sempre quell’idea che la digitalizzazione sia una perdita di informazione, quindi in realtà l’apocalittico, che biasima il digitale per un fantomatico analogico, sede della Verità, della presenza, della felicità, ripropone solo il mito delle origini sotto un’altra forma. L’infelicità è resa sopportabile con l’idea che al di fuori dei bit si possa tornare alla pienezza che il computer, nella sua codifica, ha lasciato fuori. Basterebbe spegnere i dispositivi e torneremmo all’età dell’oro.

È insomma oppio dei popoli anche questo, nascosto dietro alla parvenza di un ragionamento dimostrabile scientificamente. Come dicevo, il funambolo è colui che, dopo la morte di dio, viene spaventato dal pagliaccio, Aion, dal Gioco, dal Divertimento possibile e quindi precipita. Non è facile avere a che fare con l’accettazione che la Verità con la v maiuscola non ci sia, danzando nella metà del filo: il punto più pericoloso per il funambolo, perché il più distante dagli estremi su cui non può saltare.

La fede è una scommessa; la fiducia è di questo mondo, è la pistis greca, un accordo tra pari. Infatti, non è punibile dagli Dei cercare prove di questa affidabilità, anzi è processo fondante della ricerca scientifica e tecnologica.

Concedere fiducia è sempre il dono per un dono ricevuto, un servizio reso dall’oggetto (o dal soggetto) che procura “comfort”. Non è un caso, in effetti, che “trust” derivi dall’antico norvegese “traust” che oltre a fiducia, significa ‘aiuto’, ‘protezione’ e che sia vicino al tedesco troost, comfort. Se avesse qualche legame con Truth, sarebbe comunque una verità scritta a lettere minuscole, contestualizzata, relativa, da problematizzare costantemente. La verità dei filosofi, per intenderci, anche quando credono di aver trovato quella Assoluta sarebbe solo la funzione capitaize() in python!

Conclusioni

Il videogame non è un oggetto incomprensibile, anzi, vuole essere compreso. Il fine di ogni gamer è proprio quello di riuscire a capire, a interpretare l’algoritmo che sorregge la partita. Il videogame è allora in pieno un oggetto semiotico: il fine del gameplay è interpretare l’algoritmo, agendo contro e insieme alla macchina. Lo scopo è disvelare il senso che racchiude, le sue regole, per vincere. Ecco allora che per vincere la paura si fa necessario comprendere, problematicizzando i possibili “e se”, anticipando danni a qualunque interessato, anche distante.

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