gaming e psicologia

Videogame Therapy: Hellblade e gli effetti benefici dei videogiochi sulla psiche

Il famoso Hellbalde: Senua’s Sacrifice, frutto della collaborazione di game designer, neuroscienziati e pazienti, è la dimostrazione che esista un link diretto tra mente e videogame e che questi ultimi non siano più da considerare una pericolosa perdita di tempo un efficace sollievo per la psiche

Pubblicato il 02 Feb 2022

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

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I videogame stanno uscendo dalla loro nicchia e dal pregiudizio mainstream, diventando, al contrario, il canone dominante per l’educazione, per la cura, per la vita sociale, comunicativa ed economica in senso lato.

Durante la pandemia di Covid il supporto psicologico da remoto ha accelerato l’utilizzo di strumenti digitali come i videogiochi. A promuovere questi utilizzi al di là del momento emergenziale c’è Geek Therapy, no profit che supporta la diffusione di pratiche di play therapy, dimostrando l’efficacia dei videogame nel trattamento di determinati disturbi psicologici, come per esempio la depressione.

Sono, inoltre, molti gli studi che dimostrano l’efficacia dei videogiochi sulla psiche. Puzzle come Tetris, per esempio, contribuirebbero a evitare disordini di stress post-traumatico. Il fatto che esista un link diretto tra videogame e mente si può intuire anche da un titolo famoso: Hellbalde: Senua’s Sacrifice, frutto della collaborazione di game designer, neuroscienziati e pazienti.

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Prima di entrare nel merito dei pregi di quest’ultimo, proviamo a capire come e perché i videogiochi stanno diventando uno strumento privilegiato per trattare i pazienti affetti da disturbi di ansia.

Perché i videogame fanno bene alla mente

Nella Play Therapy sono usati specialmente MMO quali Roblox e Minecraft. Grazie agli Open World si può viaggiare, socializzare senza troppo stress per un soggetto affetto da disturbi di ansia. Giocando, inoltre, si compiono decisioni immediatamente rilevanti per la storia, il che consente di aumentare l’autostima e le risorse steniche per uscire dal disagio emotivo.

La cura dei videogame è stata sperimentata in primo luogo dal terapista Monet Goldman durante i momenti di distanziamento sociale. Giocare ai multiplayer online fu per lui efficace per vincere lo stress. Questo insight lo portò ad adottare tale pratica anche con i suoi pazienti.

Gli MMO garantiscono modalità di interazione alternative, che permettono una temporanea sospensione delle attività offline stressogene, per risperimentarsi in una simulazione della vita decurtata di quelle urgenze che creano cascate emotive nel soggetto. Il paziente impara così a riacquistare consapevolezza di sé come di un individuo competente e attivo. La fiducia appresa nella simulazione viene poi dilatata negli altri ambiti dell’esistenza, un po’ come accade negativamente per le fobie, quando il terrore per un determinato oggetto si amplia a tutte le classi contigue: è frequente che la paura per un insetto diventi fobia per gli insetti in senso lato e magari anche per gli aracnidi. Analogamente anche i comportamenti proattivi, positivi, diventano competenze “traghettabili” nella vita più ampia, quella che era stata momentaneamente sospesa dal gioco.

Eppure, i videogame sono situazioni estremamente obbliganti, piene di regole, di corse contro al tempo. In ballo c’è sempre la vita. Le caratteristiche di questi ambienti li dovrebbero trasformare in trappole molto ansiogene, eppure, sortiscono l’effetto opposto nei gamer. Siccome sono interpretate ab initio quali contesti ludici, non necessitanti, scelti volontariamente al solo fine di distrazione, diventano cure all’ansia stessa. In questo a mio avviso sta la loro forza: nel far sperimentare diversi sensi emotivi alla sfida, da cui ne conseguono risposte opposte a quelle che normalmente ci annichiliscono nel quotidiano.

L’educazione del bushi nella cultura nipponica

Un’altra spiegazione a questo paradosso del videogame può essere presa dalla cultura nipponica, dall’educazione del bushi. Il guerriero aveva l’obbligo di imparare la musica, perché la rudezza di un guerriero, capace di decidere della vita altrui, doveva essere mitigata da uno spirito gentile, benevolente, mite. Conoscere uno strumento, in effetti, è un esercizio che porta ad avere a che fare con una grande quantità di regole, con la disciplina, con la tradizione e con una profonda gestione dell’attenzione e dei riflessi. Apprendere uno strumento musicale, allora, ne andava della fermezza sul campo di battaglia. Non insegnava solo ad amare l’arte, l’armonia e quindi la gentilezza dell’animo. La musica forgiava un guerriero che fosse cortese e eticamente non brutale. Imparare a suonare era anche imparare a mantenere compostezza fisica e mentale in situazioni al limite come quelle sul campo di battaglia, dove una minima disattenzione e una minuscola perdita di controllo fisico significava soccombere. Allo stesso modo sperimentarsi con un joypad, in contesti carichi di bivi decisionali, rapidi è una prova di forza per resistere alla vita: più estesa, rischiosa, ma comunque a velocità di bullet time.

Inoltre, la terapia dei videogame si può dimostrare particolarmente buona per i bambini e per gli adulti che esibiscono resistenze ad aprirsi in un contesto terapeutico tradizionale. Attraverso il gioco i meccanismi di difesa potrebbero allentarsi naturalmente, perché ingannati da una disposizione non asimmetrica medico-paziente. Il videogame porta il soggetto sotto cura a non percepirsi come “malato”, ma come gamer. In effetti è classico che molti individui siano portati a confidarsi dal parrucchiere o online con sconosciuti ma evitino sedute terapeutiche freudiane, questo accade perché il contesto li aiuta a non leggersi da pazienti, ma da interlocutori qualunque.

Hellblade: la rappresentazione della mente e del disagio

Hellblade tratta del viaggio di Senua, un’eroina celtica che decide di avventurarsi avventura nel tetro Helheim, l’inferno della mitologia norrena. Lì andavano solo le anime di chi non moriva sul campo di battaglia, come l’amato di Senua, morto in seguito a una nota tortura vichinga, l’aquila di sangue. Senua è la versione femminile di Orfeo e come lui si reca nell’Oltretomba per recuperare l’anima dell’amato. Come Orfeo anche Senua al termine dell’avventura lascerà andare, lei di sua volontà, l’amato per sempre.

La guerriera delle Orcadi, in realtà, sembra essere la scusa per un viaggio nella psicosi, un percorso che il medium videoludico e l’expertise di neuroscienziati, tra cui Paul Fletcher, rendono appieno. Hellblade è allora un percorso interiore, come del resto ogni viaggio, fisico o letterario che sia. In questo caso il contesto nordico è solo l’apparenza di quello che, invece, è il tema della psicosi. La scelta di ogni dettaglio del game-play è pensata per generare in noi la simulazione della psicosi e del disagio: dai suoni, ai colori, dagli accostamenti analogici, alle prosopopee e personificazioni, dal contenuto manifesto mistico-religioso, al modo di procedere di Senua, un po’ obliquo, come a farci sembrare di star perdendo appiglio e sicurezza su quello che sta accadendo intorno. Tutto è strutturato per farci vivere l’esperienza disarmonica di una malattia mentale. Pertanto, se un videogame può indurci senso di malessere, è chiaro possa anche fare il contrario. Ecco perché non deve striderci che un videogame possa essere concepito terapeuticamente, con un design volutamente progettato allo scopo. Se sa accedere alla coscienza per farci sperimentare il disagio, sa essere via di ingresso per riportare l’equilibrio.

In Hellblade l’ansia e la perdita di realtà vengono indotte con il ricorso al panpottaggio. L’ingegneria del suono ci permette di sentire voci da ogni luogo della stanza, voci che si fanno più calme o violente a seconda degli eventi esterni (e quindi interni). Sono chiamate Furie nel gioco stesso. In questo si può leggere un riferimento al mito greco e romano, in particolare Le Eumenidi di Eschilo.

Le Furie, o Erinni in Grecia, erano divinità punitrici, dee della vendetta. Causavano disastri sociali e nell’intimità dello spirito, punivano il soggetto con il rimorso e la pazzia, proprio come Senua. Quando, però, il colpevole si pentiva e si purificava della sua colpa, le Furie diventavano benevole, prendendo il nome di Eumenidi. Nella tragedia di Eschilo si narra di Oreste, reo di aver vendicato il padre Agamennone uccidendo la madre Clitennestra. Per questa colpa è perseguitato dalle Furie. Al termine di un processo al cospetto degli Dei viene perdonato e assolto. Atena, giudice finale, fa in modo che le Erinni diventino Eumenidi, finalmente benevolenti. In effetti nella trama di Hellblade, come anche riporta in un’intervista Fletcher, il problema non è sentire le voci, ma soffrire per esse. Nel corso del videogioco si impara a mettersi nei panni di un soggetto malato di psicosi, la cui malattia esiste dal momento in cui è vissuta come tale. Che siano Erinni o Eumenidi non importa, loro restano sempre. Il problema è soffrirne, sentirsi perseguitati e questo dipende solo da noi.

Anche il fidanzato di Senua è un’apparizione frequente, una prosopopea: è una presenza costante nel percorso, una voce contemporanea che guida Senua rassicurandola che la sua non è pazzia. Senua è speciale, dice, sapendo vedere ciò che per i più si cela, in quello che sembra l’Essere per Heidegger: un misto di svelamento e nascondimento e non l’essere dei tecnici: una somma di enti colti dal pensiero e dal linguaggio senza scarti.

La sua battaglia contro la malattia è rappresentata da visioni, un  paesaggio cangiante e il tentativo di ordinarlo attraverso simboli, analogie come quando cerca di collegare rune a elementi simili nello spazio al fine di aprire porte che forse si sarebbero comunque aperte. Una rassicurazione psicologica per frenare questa Oscurità, personificazione della malattia mentale, che le prende le membra poco a poco.

Il videogame prodotto da Ninja Theory è stato di aiuto anche per i pazienti. Questi hanno esibito la loro gratitudine perché finalmente possono disporre di un riferimento concreto per descrivere il loro stato mentale ai “sani”. Se non si condivide un’uguale percezione, uno stesso mondo comune e reazioni sovrapponibili, la traduzione è impossibile. Comunicare passa attraverso la possibilità di indicare un questo e un quale e per un soggetto affetto da psicosi è praticamente impossibile farlo. Il loro problema nasce proprio laddove ciò che percepiscono non è conforme con l’ontologia altrui. Eppure, la traduzione del vissuto psicotico diventa finalmente possibile con Senua’s Sacrifice. Il videogame stesso fa in modo che le Erinni diventino Eumenidi. Senua’s sacrifice fa in modo che sia possibile l’empatia e la condivisione di orizzonti di sofferenza e quindi fa in modo che sia possibile una parziale liberazione e guarigione dalla psicosi: anche tu puoi sentire come mi sento, allora la mia realtà si fa meno distante.

Conclusioni

Ci sono ancora resistenze da parte della società civile, che pensano ai videogame come perdite di tempo, addirittura dannose, ma la situazione sta cambiando velocemente. Basti pensare al Metaverso, agli exergame, ai serious game, alla gamification applicata a ogni ambito: dal turismo a Shein, uno dei motivi per cui il sito e-commerce è diventato tanto potente nello scenario globale. Le ultime resistenze contribuiscono, tra l’altro, a rendere meno efficaci le stesse cure psicologiche offerte dai videogiochi: il gamer che “perde tempo” su Roblox non vive il flow benefico che ricalibra la sua dinamica emotiva, ma sperimenta nuovamente inadeguatezza e senso di colpa.

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