Uno dei motivi per cui i videogiochi sono guardati con sospetto dai non-giocatori risiede nel timore che il loro contenuto, talvolta violento, sia diseducativo, e che favorisca in chi li usa abitualmente comportamenti e atteggiamenti aggressivi.
Si tratta di una preoccupazione da sempre connessa al mondo videoludico, tutt’oggi condivisa da molti genitori, che si chiedono se il tempo che i loro figli dedicano alla console di gioco ogni giorno non li renda più riottosi e recalcitranti.
Ma è davvero così? Può un videogioco dal contenuto aggressivo essere diseducativo? Può indurre a delinquere, se non addirittura ad uccidere? Ha davvero in sé questo potere?
Videogiochi e aggressività: una questione controversa
L’idea che i videogiochi violenti influenzino negativamente i loro fruitori è talmente radicata nel senso comune che sovente i mezzi di comunicazione l’hanno rafforzata, indicando nei media videoludici la causa scatenante di alcuni omicidi, talvolta con titoli a effetto. Certi articoli di giornale, in questo modo, hanno fatto credere ai lettori che i videogame violenti costituiscano, per la condotta comportamentale dei giovani, un rischio più grande di quanto in realtà non sia. Ma, s13ebbene sia intuitivo pensare che i videogame violenti accrescano l’aggressività dei giocatori, nella letteratura scientifica esistono pareri discordanti su questo argomento.
Infatti, le ricerche che si sono occupate della questione presentano risultati in contrasto tra loro, e gli studiosi sembrano dividersi in due “fazioni” opposte: chi è a favore dell’ipotesi che i videogiochi violenti incrementino atteggiamenti e comportamenti aggressivi, e chi sostiene che le prove a favore di questa tesi non sono abbastanza consistenti.
In questo “conflitto”, a chi bisognerebbe dare ragione? Purtroppo, tutt’oggi la linea di demarcazione tra i due orientamenti sembra marcata, anche se molti si auspicano un dialogo tra le parti, da cui la ricerca non potrebbe che trarre benefici. Ma come sono nate queste due fazioni e perché sembrano così distanti tra loro? Lontani dall’addentrarsi in una rassegna dettagliata delle principali ricerche sugli effetti dei videogiochi violenti, si presenteranno di seguito le acquisizioni scientifiche che maggiormente hanno influenzato il pensiero della comunità degli psicologi.
Per di più, oltre ad una sintesi di alcuni studi sull’argomento, si vogliono condividere con il lettore delle recenti scoperte che potrebbero portare la letteratura ad una svolta sulla visione dei videogiochi violenti.
Bandura e gli altri classici: i videogiochi aumentano l’aggressività
Storicamente, i ricercatori hanno cominciato a mostrare interesse per i videogame fin dalla loro comparsa, intorno agli anni ’70 del secolo scorso (Ferguson, 2010). Proprio in quel periodo si stava diffondendo la Teoria dell’Apprendimento Sociale, elaborata da Albert Bandura (1965), secondo la quale alcuni comportamenti, come quelli aggressivi, possono essere imparati osservando un modello di riferimento metterli in atto.
Famosissimo è l’esperimento in cui dei bambini, dopo aver visto un adulto picchiare con calci e pugni una bambola, si comportarono in modo identico davanti alla stessa. Dati tali presupposti, si può capire quale orientamento assunsero le ricerche di quegli anni sulla violenza nei videogiochi: gli studiosi si chiesero come avrebbero reagito le persone giocando a dei videogame in cui venivano mostrate sparatorie e aggressioni, assumendo che quanto osservato sarebbe stato appreso e riproposto in seguito.
In particolare, tra i maggiori esponenti di questo filone di studio troviamo il professor Craig A. Anderson, i cui lavori rappresentano un punto di riferimento per la letteratura sui videogame, anche se i giocatori potrebbero non apprezzare i suoi risultati, dal momento che rientra tra i più severi critici dei videogiochi violenti.
Secondo questo autore, la violenza proposta dai media, come la televisione, non solo può essere appresa e influenzare il nostro sistema cognitivo (Bushman & Anderson, 2001), ma tale rischio sarebbe superiore nel caso in cui si avesse a che fare con un videogioco.
Procediamo con ordine, e analizziamo con cura le osservazioni di Anderson ponendoci due domande:
- Come è possibile venire influenzati dal contenuto violento presentato dai media?
- Perché i videogiochi lo aumenterebbero?
Stando alle conclusioni dello studioso, il contenuto violento presente in un medium potrebbe causare un’imitazione diretta da parte di chi lo osserva. Inoltre, Anderson ha rilevato come tale contenuto sia generalmente associato alla produzione di pensieri aggressivi da parte dello spettatore, che potrebbero generare, di conseguenza, delle rappresentazioni altrettanto aggressive delle realtà, degli “script”, cioè dei “copioni”, delle sequenze di comportamento immagazzinate in memoria in cui sono registrati dei piani d’azione da utilizzare automaticamente nella vita di tutti i giorni (Anderson & Bushman, 2001).
L’autore ha mostrato che i media influenzano l’aggressività degli spettatori dal punto di vista comportamentale, cognitivo ed emotivo. E con questo si trova risposta alla prima domanda che ci siamo posti.
Per quanto riguarda il secondo quesito, va ricordato che Anderson ha sostenuto che i videogiochi presentano lo stesso effetto degli altri media, ma in misura maggiore e potenzialmente più nociva: infatti, nel videogame il giocatore non è un semplice spettatore passivo, ma controlla attivamente un personaggio con cui si identifica, esperendo in prima persona i suoi comportamenti aggressivi.
Inoltre, nei videogiochi le azioni violente messe in atto ricevono un premio, un incentivo che potrebbe innescare un apprendimento condizionato, venendo quindi “insegnate” e promosse al fruitore (Anderson & Bushman, 2002; Triberti & Argenton, 2013).
Sarebbero proprio gli alti livelli di immedesimazione e coinvolgimento tipici dei videogiochi a renderli più influenti, e quindi più “temibili” nella misura in cui il loro contenuto consista in atti immorali, se non criminali.
I risultati raggiunti da Anderson sono ancora oggi un punto di riferimento, e hanno avuto un’importanza tale da non poter essere evitati per chi vuole approcciarsi ai videogiochi in maniera scientifica.
A queste ricerche si aggiungono i contributi di altri autori. In particolare, non vanno dimenticati quegli studi in cui si afferma che i videogiochi sarebbero coinvolti nel promuovere la desensibilizzazione della violenza nei loro fruitori, e nella riduzione dei loro comportamenti prosociali, ovvero quelli orientati ad aiutare gli altri (Anderson, Berkowitz, Donnerstein & co., 2003; Bartholow, Bushman & Sestir, 2006).
Le argomentazioni sopraesposte sono quelle che vengono citate con maggiore frequenza per sostenere che i videogame violenti influenzino l’aggressività dei giocatori.
Se la letteratura sul tema si interrompesse a tali risultati, sicuramente le persone sarebbero più scoraggiate a videogiocare, e i genitori più restii ad acconsentire questo passatempo ai loro figli, ritenendo che una sana educazione dovrebbe respingerlo vigorosamente.
Ferguson: i videogiochi migliorano le competenze cognitive
Fortunatamente per tutti i gamer, queste ricerche non sono le uniche che si sono occupate degli effetti della violenza contenuta nei videogiochi, e i loro risultati non sono orientati verso le stesse conclusioni. Al contrario, sembrerebbero proporne una visione meno “pessimista”, più rincuorante poiché inseribile in un’ottica che propone il videogioco come medium positivo, capace di migliorare alcune funzioni cognitive, i cui rischi legati alle influenze aggressive sul comportamento dei fruitori sarebbero ridimensionati.
Si tratta di un orientamento recente, il cui valore aggiunto non è stato solo quello di aver letto criticamente i risultati conseguiti dai precedenti studi sui videogame, ma anche quello di essersi posti delle domande di ricerca innovative rispetto ad una tradizione di studi che, tendenzialmente, ha preferito focalizzarsi sugli aspetti di criticità dei videogiochi.
Tra gli autori più illustri che hanno studiato gli effetti dei videogame seguendo quest’ottica rientra il professor Christopher J. Ferguson, che ha criticato alcune delle precedenti ricerche sui videogiochi violenti sostenendo che fossero presenti errori di ricerca, viziati sia dall’aver riportato informazioni in modo parziale, che da criteri metodologici rivedibili (Ferguson e Kilburn, 2010; Ferguson, 2015).
Una meta-analisi pubblicata nel 2007 ad opera dello stesso Ferguson riassume molto bene le sue posizioni sulla questione, e fa comprendere i limiti degli studi che apparentemente sostengono i rischi dei videogiochi violenti.
Il suo studio ha cercato di riesaminare i risultati di quelle ricerche compiute sul tema successivamente al 1995, anno a partire dal quale i videogiochi hanno conosciuto, rispetto ai loro predecessori, una maggiore diffusione, ma anche grafica, intelligenza artificiale e impatto audio-visivo più performanti; pertanto, le raffigurazioni delle scene di violenza erano più realistiche, e si pensava che questo aspetto incrementasse i loro effetti negativi sui giocatori.
Ferguson, tuttavia, ha fatto notare come molte ricerche di questo periodo abbiano analizzato aspetti che poco avevano a che fare con l’aggressività nella vita reale, come ad esempio fantasie o pensieri aggressivi, solo parzialmente riconducibili a comportamenti violenti: l’autore ha deciso dunque di escludere dalle analisi le ricerche che non avevano considerato come “aggressività” un comportamento aggressivo a tutti gli effetti.
Dopo questa selezione, ha esaminato la dimensione dell’effetto stimata da ogni ricerca, calcolandola laddove ciò non fosse stato fatto. La dimensione dell’effetto è un indice psicometrico che fornisce una stima della probabilità con cui un certo effetto, studiato generalmente in laboratorio, possa presentarsi nella popolazione reale, ed è fondamentale riportarlo ai fini di una corretta comunicazione scientifica dei risultati raggiunti (Angiolini e Furlan, 2009).
L’autore si è accorto, tuttavia, che molte delle ricerche esaminate non fornivano risultati che confermassero un effetto sufficientemente “perturbante” da parte dei videogiochi violenti. Quando la dimensione dell’effetto veniva calcolata, l’influenza stimata dei videogiochi violenti sull’aggressività dei giocatori veniva incredibilmente ridimensionata, dimostrando che l’asserzione per cui essi condurrebbero le persone ad assumere un comportamento più aggressivo non è sostenibile.
Al contrario, era stato notato che giocare a videogame considerati “violenti” migliorava discretamente le competenze visuo-spaziali delle persone. L’analisi della potenza dell’effetto, per quanto riguardava quest’ultimo punto, aveva dato esito positivo.
In altre parole, non è emersa nessuna prova significativa che l’uso di videogiochi violenti incrementasse l’aggressività nelle persone; al contrario, i calcoli sembravano sostenere che gli unici aspetti influenzati – in meglio, anziché in peggio – fossero alcune competenze cognitive. Si può dire che le ricerche degli anni precedenti, per riprendere parte del titolo di una successiva pubblicazione di Ferguson, avessero fatto “tanto rumore per nulla” (Ferguson, 2010).
I contributi di Ferguson sono solo parte di quella letteratura scientifica che, recentemente, si sta attivando per promuovere una rappresentazione dei videogiochi come strumento positivo, promotore di benessere. Se il suo obiettivo è stato, in parte, mostrare i punti di debolezza di quello che per anni ha costituito il punto di riferimento della bibliografia psicologica sui videogiochi, non va dimenticato che, in anni recenti, anche altri autori si sono inseriti brillantemente su questa scia.
Alcune ricerche moderne, infatti, hanno avuto il merito di indagare il rapporto tra videogiochi violenti e aggressività nei fruitori andando ben oltre una revisione degli studi “classici” sull’argomento, raccogliendo dati che potrebbero consistere in una svolta per la letteratura. Se è vero che a lungo è stato contestato ai videogiochi violenti di promuovere una desensibilizzazione dell’empatia, ovvero di alterare la percezione di un evento aggressivo facendolo sembrare erroneamente innocuo (Greitemeyer, 2013), alcuni studiosi sembrerebbero aver sfatato anche questo timore.
Gli studi sugli effetti a lungo termine dei videogiochi violenti
Szycik, Mohammadi, Muente e te Wildt (2017) hanno contestato quelle conclusioni per cui i videogiochi violenti rendano meno empatici di fronte a situazioni di violenza reale nella vita di tutti i giorni. Gli studiosi tedeschi, interessati alla questione per via della diffusione crescente dei videogiochi violenti e del timore che un loro uso compulsivo arrechi disagi emotivi, si sono contraddistinti dai loro predecessori evitando di misurare gli effetti prodotti da questi videogame nei minuti o nelle ore immediatamente successive alla loro fruizione, in favore di tempistiche più generose.
I ricercatori, quindi, hanno preferito studiare gli effetti a lungo termine dei videogiochi violenti, piuttosto che quelli a breve termine; proprio questa scelta ha contraddistinto il loro studio rispetto ad altri condotti in passato.
È stato esaminato un campione costituito da partecipanti maschi abituati all’uso frequente di sparatutto in prima persona (ad esempio “Call of Duty”, “Battlefield”, o “Counter-Strike”) da almeno quattro anni, e con un minutaggio di gioco giornaliero non inferiore alle due ore.
Questi quindici soggetti sono stati affiancati ad un gruppo di controllo, i cui membri non erano abituati ai giochi violenti, né all’uso quotidiano di un qualunque tipo di videogame. Fruitori abituali di videogiochi violenti da un lato, persone senza esperienza di gioco dall’altro. L’esperimento è stato condotto quando ogni persona era in “astinenza” dall’uso di videogiochi da almeno tre ore. I partecipanti hanno dovuto rispondere a delle domande che rilevassero i loro livelli di aggressività ed empatia, per poi commentare delle immagini che presentavano sia stimoli neutri che emotivamente significativi, spiegando come si sarebbero sentiti al posto dei protagonisti delle vignette; tutto questo avveniva mentre i erano sottoposti ad una risonanza magnetica funzionale (fMRI), al fine di studiare cosa effettivamente accadesse nei loro cervelli.
In pratica, gli studiosi, dopo aver misurato i livelli di aggressività ed empatia di ogni soggetto, hanno cercato di osservarne l’attività cerebrale nel momento in cui erano impegnati a immedesimarsi nei panni di un’altra persona. Arrivati a questo punto, i ricercatori si aspettavano che i gamer abituati ai giochi violenti avrebbero riportato maggiori difficoltà empatiche e livelli di aggressività superiori rispetto a chi non era abituato a videogiocare. I risultati? Praticamente equivalenti.
Non sono risultate differenze significative nei livelli di aggressività ed empatia tra i giocatori accaniti e i non-giocatori, sia per quanto riguardava i livelli di aggressività rilevati dai test, sia per quanto riscontrato dall’utilizzo della fMRI, che sembrava indicare risposte neurali simili tra i due gruppi.
Insomma, secondo questo studio non ci sarebbero conseguenze a lungo termine sull’empatia e l’aggressività in seguito all’utilizzo di videogame violenti. Le conclusioni di questa ricerca potrebbero avere un effetto potentissimo, dal momento che si tratta di una delle poche ad aver studiato le conseguenze dei giochi non negli attimi immediatamente successivi al loro utilizzo, ma in persone abituate a un loro uso intenso da molti anni.
La questione giace proprio su questo aspetto: come sottolineato dagli stessi autori, varie ricerche hanno studiato l’effetto dei videogiochi violenti su empatia e aggressività, ma la maggior parte di queste non ha esaminato tali variabili in un arco di tempo a lungo termine, preferendo invece una distanza ravvicinata tra le sessioni di gioco.
Se, in queste ricerche, sembrerebbe che i videogame desensibilizzino l’empatia e aumentino l’aggressività dei giocatori, tali effetti scomparirebbero quando le rilevazioni vengono fatte dopo una pausa di alcune ore dall’attività di gioco. Anche gli autori dello studio sembrano sorpresi: evidentemente, ipotizzano, potrebbero esserci delle differenze nelle conseguenze dell’uso di questo tipo di prodotti videoludici tra il breve e il lungo periodo che non sono state ancora colte dalla comunità scientifica.
Gli studi su GTA V e The Sims 3
Sono queste le stesse conclusioni a cui è giunto il team di ricerca composto da Kühn, Kugler, Schmalen e colleghi (2018). I ricercatori hanno deciso di esaminare gli effetti a lungo termine dei videogiochi violenti confrontando le influenze esercitate da due videogame: “Grand Theft Auto V (GTA V)” da un lato, e “The Sims 3” dall’altro, entrambi nelle loro edizioni per Playstation 3.
Il primo videogioco citato, “GTA V”, è ambientato nel mondo del crimine, ed è noto per essere particolarmente violento: permette ai giocatori di immedesimarsi nei panni di personaggi dai tratti anti-sociali, i quali, per avanzare con successo nel gioco, devono delinquere, uccidendo, pestando le persone a sangue, derubando, e altro.
“The Sims 3”, invece, diametralmente opposto, consiste in una vera e propria simulazione di vita, in cui il giocatore deve personalizzare degli avatar che daranno vita ad una famiglia e che potranno far parte di una comunità sociale. I ricercatori hanno notato che gli adulti che avevano giocato, quotidianamente e per due mesi consecutivi, al violentissimo GTA V non subivano influenze significative sui loro livelli di aggressività e di empatia, così come inalterate erano le loro competenze interpersonali, la loro impulsività, l’ansia, l’umore e il loro controllo esecutivo.
I punteggi ottenuti nei questionari che misuravano questi costrutti, somministrati sia all’inizio dell’esperimento che alla fine dei due mesi di gioco giornaliero, non riportavano differenze significative rispetto a quelli compilati dal gruppo che aveva giocato, negli stessi due mesi, a “The Sims 3”, o da chi non aveva giocato affatto. Non vi erano differenze nemmeno in seguito a un follow-up di controllo realizzato dopo due mesi dalla fine della procedura. A quanto pare, i videogiochi violenti non sembrano avere conseguenze a lungo termine significative negli adulti.
Maggiore irascibilità o minore sensibilità a stimoli violenti, conseguenze dei giochi dal contenuto aggressivo, sembrerebbero non perdurare oltre qualche ora dalla fine della sessione di gioco, e non arrecare conseguenze neurali di alcun genere. Certamente, andrebbe fatta maggiore luce sulla questione: dovrebbero essere svolti più studi sulle conseguenze a lungo termine che questi giochi potrebbero avere sui loro fruitori, siano essi adulti o ragazzi di ogni età.
Nonostante questi risultati rincuorino, va ricordato che gli effetti dei videogiochi violenti rilevati dalle ricerche di Anderson non vengono smentiti del tutto, ma contestualizzati con più precisione: sembrerebbe che questi videogame non arrechino conseguenze a lungo termine sul versante cognitivo o comportamentale, ma ciò non toglie che essi costituiscano una (piccola) fonte di aggressività.
Videogiochi violenti e etica: il caso Yakuza Kiwami
Molti videogiochi, anche dal contenuto violento, presentano una narrazione, offrono spunti identificativi per i loro fruitori, permettendo di immergersi nella realtà di personaggi caratterizzati da una storia e da valori morali.
Il videogioco non deve essere svuotato della narrazione di cui è portatore: giudicare un videogame basandosi esclusivamente sui comportamenti che il giocatore vede compiere dai suoi personaggi potrebbe non farci cogliere la ricchezza del suo contenuto.
Il videogiocatore non resta colpito soltanto dalle azioni che i protagonisti dei suoi videogiochi compiono, come sparare o aggredire qualcuno; credere che il videogioco sia soltanto questo è riduttivo, non coglie la complessità dei videogame come medium capaci di trasmettere emozioni.
Le azioni dei personaggi che animano i videogiochi sono inserite in un contesto narrativo, ricco di significati, il quale potrebbe attribuire alle loro gesta un valore diverso da quello che avrebbero se estrapolate e analizzate singolarmente.
Le influenze sull’aggressività da parte di un videogioco il cui protagonista assume comportamenti violenti per difendere i più deboli, ovvero in nome di un principio morale, equivalgono a quelle esercitate da un videogame dove la violenza è espletata per puro piacere sadico? Impersonare un personaggio “buono” che combatte per motivi moralmente leciti equivale a impersonare un personaggio “cattivo”?
Secondo alcune ricerche, le differenze sarebbero significative, poiché gli aspetti che caratterizzano un personaggio, tra cui i valori morali, sembrerebbero proteggere da esperienze emotivamente negative durante l’attività di gioco (Hartmann & Vorderer, 2009; Hartmann, Toz & Brandon, 2010).
Le narrazioni di cui i personaggi di un videogame sono portatori non andrebbero trascurate, perché il videogiocatore si identifica proprio con loro; dunque, una contestualizzazione narrativa dei videogiochi violenti potrebbe far scoprire come l’aggressività che esprimono potrebbe essere mediata. A questo proposito, si vorrebbe portare l’esempio di un noto videogame, Yakuza Kiwami, edito da SEGA.
Il protagonista di questo videogioco, Kiryu Kazama, è un ex-membro della Yakuza (nota associazione criminale giapponese), “espulso” dall’organizzazione per un delitto che non ha commesso, ma di cui si è addossato la colpa per salvare il vero colpevole, il suo migliore amico, che ha agito per salvare la donna amata da entrambi.
Nel corso del gioco si assistono ad uccisioni, scontri a fuoco, mutilazioni e combattimenti all’ultimo sangue. Se ci si soffermasse su questi elementi, sembrerebbe un videogame diseducativo, cosa che in realtà non è: questo gioco, infatti, presenta molti aspetti educativi, se non addirittura “umanizzanti”.
In particolare, si resta colpiti dal fatto che Kiryu abbia un cuore d’oro, e, sebbene inizialmente membro di un’associazione a carattere mafioso, non agisce affatto come un suo affiliato: non intimidisce, non tende ad improntare le sue relazioni sul potere e sull’incutere timore, non disprezza l’altro (e, in particolare, l’alterità), non è egoista ed è capace di provare molte emozioni di tenerezza, come l’amicizia, l’amore, il senso di protezione verso i più deboli e la nostalgia per l’infanzia. Inoltre, sono numerosi gli eventi in cui propone degli insegnamenti morali: spesso si troverà ad aiutare vittime di truffatori, di aggressioni, o, semplicemente, persone in difficoltà incontrate per caso.
Questo personaggio, che dovrebbe essere un criminale con tratti di personalità antisociale, di fatto non lo è: nonostante partecipi ad aggressioni e ad azioni violente, la sua moralità protesa all’aiuto del prossimo lo allontana dall’essere considerato “cattivo”; talvolta, alcuni suoi discorsi o prese di posizione inducono il giocatore a riflettere su temi di solidarietà sociale.
Giocando a questo titolo non si può evitare di ragionare sui valori morali che il suo protagonista esprime, così come non è possibile non ricondurre quelle gesta violente al suo fine superiore di giustizia, il quale, subordinandole, sembra quasi stemperarne l’intrinseca aggressività.
Identificarsi in un simile personaggio potrebbe essere, pertanto, un’esperienza arricchente. Non sempre i videogiochi violenti sono diseducativi, perché, talvolta, promuovono una riflessione su valori eticamente rilevanti, come nel caso di Yakuza Kiwami.
Conclusioni
Se i primi risultati della letteratura scientifica sembravano scoraggiare l’uso dei videogiochi violenti, negli ultimi anni sembra che si stia assistendo ad una svolta. Infatti, le rappresentazioni che dipingevano i media videoludici come diseducativi sono state ridimensionate, e nuovi studi hanno preferito concentrarsi non sui loro aspetti presumibilmente dannosi, ma su quelli benefici.
Infine, ogni videogioco non dovrebbe essere dissociato da una comprensione del contesto narrativo in cui i suoi personaggi agiscono; la moralità che esprimono (o non esprimono), e le motivazioni ad agire che la trama del gioco attribuisce loro potrebbero essere un aspetto di mediazione importante tra il gamer e il contenuto violento del videogioco, ma anche un’occasione per apprendere valori tramite un’identificazione empatica.
Emerge così una concezione del videogioco, anche se violento, come opportunità, come mezzo capace di potenziare gli aspetti cognitivi ed espressivi, uno strumento costruttivo e perfettamente inseribile in uno stile di vita da cui tutti, ragazzi e adulti, possono trarre vantaggio.
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