L’app che avrebbe dovuto registrare i voti per i caucus in Iowa ha fallito. Il Partito Democratico ha fatto una figuraccia e il voto elettronico ha dato un’ennesima pessima prova di sé. Ma l’Italia, intemerata, continua con la sperimentazione da un milioni di euro su questo tema.
Rischiamo un altro flop? Probabilmente.
Dopo 14 mesi di selfie, riunioni, comizi, town meeting e strette di mano, il partito democratico dell’Iowa non riesce a dare i risultati dei caucus di ieri. Per quale motivo? Perché l’app appositamente creata non ha funzionato. Doveva essere il trionfale avvio della stagione delle primarie […], è stato un fiasco totale. (F. Tonello)
Voto in Iowa, app inadeguata e interessi alla base del flop
C’è di più della debacle tecnica. Come ha riportato un’ampia inchiesta di The Intercept, il flop ha scoperchiato un intreccio di interessi non chiari dietro l’adozione dell’app.
La società produttrice è una piccola start-up chiamata Shadow Inc. creata da alcuni appartenenti all’ex staff della campagna presidenziale di Hillary Clinton e di cui l’unico investitore e proprietario sembra essere una no-profit chiamata Acronym, un’agenzia di comunicazione che ha pianificato di spendere ben 75 milioni di dollari per contrastare Trump con finanziamenti dei sostenitori del Partito Democratico.
Nell’inchiesta ci sono testimonianze sull’inadeguatezza dell’app, sulla faciloneria con cui è stata adottata, ma anche —e questo è ben più grave— sul fatto che gli sviluppatori dell’app fossero legati a filo doppio con l’estabilishment democratico e quindi il candidato Buttigieg e contrari all’elezione dello sfidante Sanders.
Il malfunzionamento dell’app ha fatto fare un altro serio passo avanti al movimento abolizionista del voto elettronico negli USA.
Il New York Times, dopo aver riscontrato l’inconsistenza dei conteggi, all’indomani dell’evento ha titolato: “L’unica elezione sicura è un’elezione a bassa tecnologia: la debacle del caucus Iowa dimostra che un’elezione del ventunesimo secolo necessita di tecnologie del diciannovesimo secolo”.
Un articolo con una conclusione lapidaria: “Quindi, a meno che qualcosa non cambi, bisogna abituarsi all’era degli errori software nel giorno delle votazioni. Abbiamo ammesso la tecnologia alle nostre elezioni indipendentemente dal fatto che questa sia o meno all’altezza del compito”.
Voto elettronico, débâcle in tutto il mondo
Sebbene Shadow Inc. fosse già stata ingaggiata (e probabilmente pagata) anche per le primarie del Nevada del prossimo 22 febbraio William McCurdy II, il chairman del Partito Democratico, ha escluso categoricamente che in Nevada la useranno. “Avevamo già sviluppato una serie di backup e sistemi di report ridondanti e stiamo attualmente valutando il percorso migliore”. Backup e sistemi di report ridondanti che, almeno per quanto riguarda l’Iowa, non hanno funzionato. I risultati sono arrivati dopo oltre una settimana anticipati e seguiti da un’ondata di polemiche.
Nel campo del voto elettronico, l’informatica non si sta dimostrando all’altezza del compito e non importa quali schemi vengano usati. Non si fa che mettere in mostra malfunzionamenti ed errori, sollevare dubbi e polemiche e instillare paure che incentivano l’astensionismo invece di ridurlo.
Uno dopo l’altro i “casi d’uso” del voto elettronico hanno vacillato e poi tracollato: Germania, Norvegia, Olanda e più recentemente Svizzera. Oggi, smascherate la fake-news come quella del Sierra Leone, Tsukuba, West Virginia ai sostenitori non resta che aggrapparsi al caso molto controverso dell’Estonia.
L’introduzione del voto elettronico in Italia
L’introduzione del voto elettronico in Italia, sia pure a livello di sperimentazione, dovrebbe avvenire nel voto dei connazionali all’estero e per gli studenti fuori sede. L’ambito essere quello del voto online espresso direttamente su un terminale del cittadino (smartphone o computer) quindi o con un’app (proprio come quella dello Iowa, o in West Virginia) o attraverso una qualche forma di sistema web (come in Estonia).
Recentemente il Sottosegretario Ricardo Antonio Merlo ha affermato che “La riforma del voto all’estero è nel contratto di Governo, si deve fare e si farà. I connazionali voteranno con un nuovo sistema, cento per cento trasparente e sicuro, quanto più possibile a prova di brogli e irregolarità”. Ma questo non avverrà con il prossimo referendum del 29 marzo sul taglio dei parlamentari: le circolari ministeriali fanno ancora riferimento alla procedura di voto per corrispondenza.
Il Presidente della Commissione Affari Costituzionali Giuseppe Brescia ha presentato l’emendamento che assegna al Ministero degli Interni un milione di euro per una sperimentazione dichiarando che il «vero obiettivo» è quello di «andare alle prossime elezioni politiche […] dando la possibilità ai cittadini che in questo momento sono impossibilitati a partecipare al voto politico […] la possibilità di [votare] in maniera sicura e che rispetta le caratteristiche costituzionali del voto».
A dispetto della vaghezza che ha accompagnato il dibattito, questo conferma che l’interesse è verso una soluzione di voto remoto online, in forma di app o web. Una cosa simile quindi proprio a Rousseau del M5S.
eVoting, informatica non all’altezza e sperimentazioni inutili
Questi sono proprio i casi in cui l’informatica si sta dimostrando meno all’altezza del compito ed in cui, come dimostrarono i ricercatori del gruppo del professor Alex Halderman dell’Università del Michigan, invitati come osservatori indipendenti proprio in Estonia, basta sviluppare semplici sistemi di malware per avere un impatto significativo e pervasivo sul voto.
In questo particolare campo, le grossolane semplificazioni dei sostenitori del voto elettronico si infrangono sempre sull’unanime parere dei tecnologi che ritengono inadeguati questi strumenti e del tutto inutile una sperimentazione per ottenere un risultato scontato in partenza.
Mentre quindi si parla di tacitare la superficialità dei politici con un ennesimo (costoso) prototipo per un’inutile simulazione di e-voting sembra che una reale applicazione del voto elettronico in Italia sia molto lontana.
Il precedente di ePoll
Il che lascia ben sperare che al Ministero dell’Interno abbiano fatto tesoro dei quasi venti anni di prototipi e sperimentazioni nel campo.
Si celebrerà infatti tra pochi mesi il ventesimo anniversario della sperimentazione E-POLL, finalizzata a realizzare sul campo l’effettiva possibilità di utilizzare sistemi di “voto remoto” o “voto elettronico” che gestì le reali votazioni dei cittadini di San Benedetto del Tronto nel 2000 e successivamente Avellino nel 2001 (e poi in Francia a Merignàc e Bourdeaux, e Polonia a Czestochowa e ancora in Italia a Cremona e Campobasso) con un sistema finanziato da Siemens Informatica, e Comunità Europea per quasi 4 milioni di euro (nel 1999).
Purtroppo, di quella e delle numerose successive sperimentazioni italiane del voto elettronico (in Trentino, in Puglia, nel Lazio, in Friuli Venezia Giulia), a parte le trionfalistiche e sempre unilaterali affermazioni di entusiasmo da parte dei promotori o dei fornitori, non è seguita mai un’analisi critica pubblica di osservatori indipendenti e imparziali, né mai sono stati messi a disposizione della comunità dei ricercatori informazioni complete e non censurate. Sarebbe ora di farlo se si vuole mostrare quella trasparenza che fin troppo spesso viene invocata, ma poco praticata.
Conclusioni
In definitiva non si può far altro che prendere atto che da questo ventennio di sperimentazioni con notevole dispendio di denaro pubblico non è evidentemente uscita una sola soluzione adeguata. Non si vede quindi perché quella di quest’anno non dovrebbe ricalcare lo stesso schema: denaro speso inutilmente in una sperimentazione che potrà solo confermare l’inadeguatezza teorica del voto elettronico.
Come Comitato per i requisiti del voto in democrazia abbiamo, un po’ provocatoriamente, proposto come non sprecare questo milione di euro: “Poiché nel voto elettronico, con tutta evidenza, manca un substrato teorico che possa permettere l’espressione libera del voto in termini di ricerca matematica delle strutture di rappresentazione delle contrastanti esigenze di anonimato del voto e trasparenza del processo, l’unico vero contributo che potremmo dare in questo campo è se usassimo questi soldi nella ricerca avanzata nel campo della matematica teorica.
Sarebbe un milione di euro comunque sprecato ai fini di qualcosa che non si potrà comunque fare per le sue caratteristiche intimamente antidemocratiche, come sostiene la sentenza della Corte Costituzionale tedesca, ma almeno avremo sicuramente contribuito al benessere della società attraverso il finanziamento della ricerca, nonché al benessere delle nostre povere facoltà scientifiche che purtroppo non riescono a fare abbastanza per allevare una classe dirigente capace di comprendere almeno le determinanti di base delle tecnologie informatiche”.