Negli ultimi anni si è diffuso il termine Web 3 per riferirsi a un modo nuovo di interagire via Internet. Uno dei servizi che il Web 3 si propone di migliorare, decentralizzandolo, è quello dei social network. Vediamo come funziona, come ci siamo arrivati e le problematiche.
Dal Web1 dal Web3
La terminologia deriva dal fatto che nella sua primissima versione (Web 1), prima che i suoi servizi venissero commercializzati, Internet aveva funzionalità piuttosto limitate e per il suo utilizzo ogni utente doveva necessariamente far conto sulle proprie conoscenze e risorse per gestire l’infrastruttura di base. Si trattava in essenza di un sistema di comunicazione e condivisione di documenti tra ricercatori o scienziati dell’informatica che gestivano ciascuno i propri computer e server.
Web3 basato su blockchain: una tecno-utopia che pecca d’ingenuità
Con la sua commercializzazione, Internet si è trasformato in Web 2, uno strumento di comunicazione di massa, accessibile alla maggioranza invece che solo agli esperti del settore, anche grazie ad aziende che hanno deciso di occuparsi delle infrastrutture come servizio per l’utente, il quale ha potuto concentrarsi quindi sulla creazione e condivisione di contenuti. Un sistema, quindi, in cui servizi di acquisto e gestione delle infrastrutture sono centralizzati in aziende come Amazon, Twitter o Facebook (oggi Meta), che forniscono la piattaforma su cui l’utente può esprimersi liberamente.
Questo modello centralizzato è senza dubbio comodo per l’utente, che delega ad un’azienda la gestione ed il mantenimento delle infrastrutture, consentendo così anche ai non esperti di informatica di usufruire degli immensi benefici apportati da un intero mondo connesso ad una rete unica.
La centralizzazione ha tuttavia i suoi costi: le grandi aziende che gestiscono l’infrastruttura di Internet hanno grande potere sulla selezione dei contenuti che circolano o che esse stesse promuovono tramite algoritmi proprietari, e come tali difficili da studiare e valutare; si espone Internet al problema del singolo punto di rottura, ovvero la situazione in cui, se si rompe qualcosa nel server centrale, cade tutta la parte di rete che da esso dipende; si favorisce la crescita a dismisura delle aziende che gestiscono il sistema, con le relative ripercussioni economiche e sociali che vediamo nel mondo di oggi, in cui si è persa la fiducia verso i giganti della tecnologia. Web 3 si ripropone di mettere a disposizione dell’utente tutte le grandi potenzialità di Web 2, aggiungendone molte altre ancora, senza i problemi legati alla centralizzazione: grazie a sistemi distribuiti, Internet torna ad essere di tutti, un Web 1 potenziato con le capacità di Web 2 e più.
Web3 e social network decentralizzati
Negli ultimi anni abbiamo assistito al sorgere di gravi rischi legati agli immensi mondi centralizzati di Facebook o Twitter. Al di là dei problemi ricorrenti dovuti alla mancanza di trasparenza sul trattamento dei dati personali degli utenti, che nelle ultime settimane si sono anche tradotti in annunci da parte di Facebook di dover potenzialmente abbandonare il mercato europeo, protetto da regolamentazioni stringenti come il GDPR e le nuove proposte del Digital Services Act ed il Digital Markets Act, abbiamo visto come queste piattaforme siano state associate a problemi di diffusione di disinformazione o di censura; di campagne pubblicitarie personalizzate contenenti messaggi politici che potrebbero aver influito sul risultato di votazioni fondamentali in Paesi democratici come gli Stati Uniti e il Regno Unito; di salute mentale, specialmente negli adolescenti, o di bullismo. Decentralizzazione e specializzazione sono potenziali soluzioni a queste problematiche: da un lato, decentralizzare un social network impedisce ad un singolo grande gestore di raccogliere e trattare i dati di tutti i propri utenti per scopi pubblicitari e di imporre regole di utilizzo decise dall’alto; dall’altro lato, creare diversi social network dedicati per diverse comunità di utenti risolve il problema della selezione o censura dei contenuti alla radice, in quanto saranno gli utenti stessi a selezionarsi e scegliere il network che fa per loro, con i contenuti che essi stessi desiderano vedere e condividere.
Il social Planetary e la piattaforma Scuttlebutt
Una tra le iniziative più interessanti per un social network decentralizzato è Planetary. Sembra esserci tra molti la convinzione che la decentralizzazione richieda necessariamente la tecnologia blockchain, vale a dire un registro pubblico su cui registrare transazioni di varie tipologie proteggendole tramite codici crittografici. In realtà si possono costruire infrastrutture decentralizzate indipendentemente dalla blockchain. Planetary ne è un esempio: si basa su registri immutabili di singoli utenti che funzionano di fatto come dei diari personali che sono salvati sul proprio computer, non trasferiti/ceduti alla piattaforma. Ciascun utente può creare la sua comunità e stabilirne le regole od unirsi ad una comunità esistente con cui condivide degli interessi, e ciascuna comunità funziona come un social network indipendente. Il codice è open source, vale a dire ispezionabile ed utilizzabile da tutti. Planetary utilizza una piattaforma aperta chiamata Scuttlebutt di natura fondamentalmente diversa da quella dei social network che tutti conosciamo. Ecco come funziona.
Come funziona il network di Scuttlebutt
Anzitutto, per navigare nel network di Scuttlebutt è necessario un programma (in gergo, client) come Patchwork – una sorta di browser per il network come Firefox o Chrome lo sono per il World Wide Web – o un’estensione del proprio browser come Patchfox. Una volta installato, questo client crea una cartella nel computer in cui si troveranno tutti i contenuti che l’utente vorrà condividere: ogni interazione che l’utente avrà sul social network costituirà un record in questo diario personale. Il client utilizza la crittografia per proteggere questa cartella, generando una chiave privata che solo l’utente conosce, che verrà utilizzata per scrivere nel proprio diario, ed una chiave pubblica, che rappresenta la propria identità digitale, immutabile sul social network, e che serve a farsi riconoscere dagli altri utenti.
Il client consente di creare un proprio profilo associandovi un nome che l’utente può scegliere autonomamente: trattandosi di un diario privato, l’utente può ad esempio decidere di chiamarsi “Laura” senza doversi preoccupare che quel nome sia già stato scelto da qualcuno – non fa niente, la chiave pubblica, che tutti possono vedere, distinguerà quell’utente da chiunque altro decidesse di utilizzare lo stesso nome, senza il rischio che si correrebbe in un social network centralizzato in cui tutti devono necessariamente avere un nome unico per evitare casi di omonimia. Una volta creato il profilo, l’utente vede nella propria cartella semplicemente che l’unica attività su Scuttlebutt consiste, appunto, nella creazione del profilo, nient’altro: non ci sono suggerimenti su storie interessanti o su profili simili da seguire. Ricordiamo: si tratta semplicemente di una cartella nel proprio computer. Per cominciare a costruire il proprio network di “amici” occorre esplorare chi altro utilizza Scuttlebutt. Se si è connessi ad una rete pubblica, come quella di un caffè o di un aeroporto, il client rileva la presenza di altri utenti da seguire. Se Laura riconosce qualche amico, ad esempio Gabriele o Andrea, o vuole cominciare a seguire altri utenti che non conosce, semplicemente clicca su “Follow” (“Segui”) e solo allora il suo diario comincerà a popolarsi di contenuti, che verranno salvati nella cartella dedicata sul suo computer, restando così disponibili alla lettura anche quando non sarà più connessa ad Internet. Ogni interazione con Andrea e Gabriele verrà salvata sul diario di Laura, la quale può anche dare soprannomi ai suoi amici, ad esempio “Romanista convinto” per Andrea e “Romanista nonostante tutto” per Gabriele. Per il resto di Scuttlebutt i due amici resteranno sempre visibili come Andrea e Gabriele, ma Laura vedrà nella sua cartella locale i loro soprannomi.
Scuttlebutt consente anche ad utenti che non si “vedono” sullo stesso network locale (come la rete wifi pubblica di un caffè) di incontrarsi e sincronizzare i propri diari (accedere l’uno al diario dell’altro): lo si fa tramite dei “pub”, ovvero dei server che sono sempre connessi ad Internet e rendono quindi l’intera comunità raggiungibile. Il network consente anche di comunicare privatamente con i propri contatti utilizzando la crittografia end-to-end, un sistema di comunicazione che rende i messaggi leggibili solo tra le due parti senza che ve ne rimanga traccia alcuna altrove nell’infrastruttura. Scuttlebutt consente anche di bloccare altri utenti, il che automaticamente impedisce che i diari tra questi utenti e tra i loro amici si sincronizzino. Insomma, tutte le caratteristiche di un social network tradizionale ma creato per interazioni più umane, dettate dagli interessi degli utenti e non di una piattaforma centralizzata che, per sopravvivere e rimanere competitiva sul mercato, deve pensare anzitutto al profitto.
Altri esempi di social decentralizzati
Il mondo dei social network decentralizzati si sta espandendo velocemente. Oltre a Planetary e Scuttlebutt, che somigliano a Facebook, c’è Mastodon, con caratteristiche di microblogging simili a quelle di Twitter. E c’è un progetto all’interno di Twitter stesso, Bluesky, che mira alla decentralizzazione. C’è anche chi ci insegna, passo per passo, a creare e gestire un nostro social network del tutto autonomamente.
I rischi dei social decentralizzati
Oltre al rischio che si creino comunità potenzialmente pericolose (proprio perché autogestite e sottoposte solo a regole autoimposte), il problema di fondo dei social network decentralizzati è che, come spiega Moxie Marlinspike, co-fondatore della piattaforma di comunicazione privata Signal, l’utente tipico di Internet non ha alcuna voglia di gestire la propria infrastruttura: anche se si trovano guide comprensibili e relativamente facili da implementare, ci sono comunque costi di manutenzione e tempo necessario da dedicare anche a semplici infrastrutture di base che l’utente raramente ha a disposizione per simili attività.
Si rischia dunque di ricadere nella medesima situazione di partenza, in cui lentamente si delegano servizi di mantenimento a terze parti dietro pagamento, e presto queste terze parti diventano giganti stile Amazon che gestiscono enormi infrastrutture.
Conclusioni
Il Web 3 non è decentralizzato per natura – persino le caratteristiche più avanzate che utilizzano una blockchain, come le piattaforme di scambio di NFT o di criptovalute, hanno una parte fondamentale della loro struttura che è centralizzata e causa gli stessi problemi presenti nel Web 2. Siamo sicuri sia davvero l’Internet che vogliamo?