Il tema – o forse il problema – del conflitto tra rete e democrazia non è nuovo ma ritorna ogni volta di nuovo, senza che si riesca a risolverlo. In realtà forse una convivenza tra rete e democrazia è impossibile, ovvero: o scegliamo la rete o scegliamo la democrazia. Tertium non datur
Il tema – il problema – del conflitto tra rete e democrazia non è nuovo ma ritorna ogni volta di nuovo, senza che si riesca a risolverlo. In realtà forse una convivenza tra rete e democrazia è impossibile, ovvero: o scegliamo la rete (e la nostra ibridazione/sussunzione totalitaria in essa) o scegliamo la democrazia e torniamo a considerare la tecnica come un mezzo da controllare e da usare per fini umani e non un fine in sé a prescindere dalla sua utilità sociale, come oggi è diventata. Ovvero: tertium non datur – anche se tutti i rètori e i guru della rete e i loro intellettuali organici vorrebbero convincerci del contrario. Ma procediamo con ordine.
Democrazia vs business
“Can democracies stand up to Facebook?” – si chiedeva John Naughton sul Guardian. “How democracies can claim back power in the digital world” era invece il titolo di un commento di Marietje Schaake sulla “Technology Review” del Mit.
Naughton parte da un fatto: lo scorso mese di agosto il responsabile dell’Autorità irlandese per la protezione dei dati ha inviato a Facebook una prima ordinanza per impedire che il social-impresa privata di Zuckerberg continui a trasferire negli Usa i dati dei suoi clienti europei. Che per Facebook sono un business importante, posto che ricava più soldi dai suoi utilizzatori europei – una media di 13,21 dollari per ciascuno, nel 2019 – che da ogni altro territorio del mondo, fatta eccezione degli Usa (dove i ricavi salgono a 41,41 dollari per utilizzatore). Facebook ovviamente non vuole che lo stato di diritto e la democrazia rompano il suo bel giocattolo/macchina da soldi e quindi il contenzioso legale potrebbe farsi lungo e snervante (per la gioia degli avvocati), permettendo però intanto a Facebook di continuare a giocare con le nostre vite social, estraendone profitto privato. Il capitalismo digitale ha compiuto infatti un passo avanti rispetto al capitalismo classico, non limitandosi più a generare profitti mettendo al lavoro (e a pluslavoro crescente) il corpo e poi la mente delle persone in quella che ingenuamente chiamiamo economia della conoscenza, ma estrae valore/profitto crescente dalla loro vita intera, soprattutto sociale e relazionale.
Da D-M-D’ a D-M(V)-D’
Vita che diventa merce ma anche forza lavoro e mezzo di produzione di plusvalore: per cui la vecchia formula capitalistica D(enaro)-M(erce)-D’(enaro-profitto maggiore di D) diventa oggi, nella nostra riformulazione[1]: D-M(V)-D’, dove V sta per vita, appunto divenuta pura merce ma anche forza-lavoro/mezzo di produzione per accrescere il plusvalore in questa ultima modalità di capitalismo che definiamo come tecno-capitalismo (in realtà questa estrazione di valore dalla vita intera dell’uomo è capitalistica fin dall’avvio della rivoluzione industriale: pensiamo al pluslavoro e al prolungamento della giornata lavorativa come tendenza sistemica del capitale, pensiamo allo sfruttamento del lavoro di donne e bambini, pensiamo alla “Sezione sociologica” creata da Henry Ford del 1914 per controllare e quindi governare la vita dei suoi dipendenti anche fuori dalla fabbrica e fin dentro le camere da letto… – ciò che cambia è solo la quantità e la qualità di vita umana messa in produzione e a pluslavoro).
Ma torniamo a John Naughton, che nel suo articolo pone una questione fondamentale: oggi, i soli stati che hanno la capacità di controllare i giganti del web sono stati autoritari. Come a voler significare che solo un autoritarismo politico riesce a controllare/contrapporsi all’autoritarismo/autocrazia dell’oligopolio tecnologico. Molto imbarazzante, per la democrazia.
Ma questo accade perché le democrazie liberali occidentali, continua Naughton, sono succubi da quasi mezzo secolo dell’ideologia neoliberale e sono tutte concentrate sulla “deficit syndrome”, incapaci di guardare oltre e altrove, dove invece il mondo sta cambiando rapidamente, al di fuori di ogni controllo democratico. E le grandi corporation ovviamente ne approfittano, posto che ogni vuoto di potere – quello della democrazia e dello stato democratico – lascia ovviamente spazio a chi prima lo ha svuotato facendo credere che la rete fosse la democrazia nella sua più perfetta espressione e manifestazione e poi è pronto a sostituirsi e a sovrapporsi alla democrazia, sostituendola con una autocrazia/tecnocrazia algoritmica-digitale. D’altra parte, se il neoliberalismo ha come fine dichiarato quello di sovrapporre e integrare/sussumere l’ordine del mercato alla società e alle istituzioni, analogo è il fine della tecnica e del suo oligopolio: sovrapporre l’ordine della tecnica – l’ordo-macchinismo – la sua razionalità strumentale/calcolante-industriale alla società e alle istituzioni. Im-ponendo la propria (ir)razionalità solo calcolante/matematica e rimuovendo il pensiero meditativo dell’uomo e della democrazia.
Human digital engineering
“L’economia è il metodo ma l’obiettivo è cambiare l’anima della gente”, disse la neoliberista Margaret Thatcher (e questo – creare un uomo nuovo – è un obiettivo tipicamente totalitario, quindi radicalmente illiberale), così come analogamente hanno fatto le cosiddette nuove tecnologie. A prescindere dalla democrazia e dalla consapevolezza del demos sui processi che neoliberismo e Silicon Valley stavano avviando e attivando dagli anni ’70 e poi dagli anni ‘80 contro lo stesso demos, per cambiarne appunto l’anima, cioè il senso comune, i modi di pensare e di vivere, affinché si adattassero alle nuove esigenze (flessibilità, lean production, rete/digitale) della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro (e per una rilettura di questi processi di human engineering dell’uomo in senso neoliberale: D. Harvey, “Breve storia del neoliberismo”[2]).
A sua volta Marietje Schaake – della Stanford University – ha scritto che non bisogna certo pensare (ma perché no?) “a uno stato che crei una propria e pubblica piattaforma social e media o data centers”; occorre però che le democrazie “urgently reclaim their role in creating rules and restrictions that uphold democracy’s core principles in the technology sphere”. Ma per questo, come premessa, occorre creare “a global alliance that puts democracy first”, che offra una alternativa democratica “to the two existing models of technology governance, the privatized and the authoritarian”. Definendo a livello appunto globale cosa si deve intendere ad esempio per libertà di espressione; ponendo dei limiti (ma perché non eliminarlo del tutto, ci domandiamo?) al micro-targeting politico (e perché non anche o soprattutto quello commerciale/promozionale, oggi che siamo quotidianamente sommersi da uno tsunami di cookies?); evitando abusi nelle campagne elettorali e nello svolgimento delle elezioni; nonché ponendo precise “trade rules for the digital economy” anche su “cyberwar and hybrid conflict (where digital and physical aggression are combined)”.
Tutto bello e giusto, chi non sarebbe d’accordo? Ma anche molto ingenuo. Perché tra Silicon Valley (luogo simbolico e metaforico che qui usiamo per tutto il mondo digitale) e stati vi è oggi una sostanziale affinità elettiva/integrazione-sussunzione e basta guardare a come i governi pur democratici di tutto il mondo si inchinano davanti al Gafam e si recano in pellegrinaggio in California; perché esiste anche qui un sistema di porte girevoli tra politica, finanza e tecnologia; perché il neoliberalismo oggi egemone nel mondo ha nella sua essenza quella di creare sempre e ovunque “un clima favorevole all’attività economica e agli investimenti”, che viene sempre prima della democrazia, del diritto alla privacy, della libertà d’informazione e di elezioni corrette; perché (Harvey) “La teoria neoliberista del cambiamento tecnologico conta sul potere coercitivo della competizione, che spingerebbe alla ricerca di nuovi prodotti, nuovi metodi di produzione e nuove forme di organizzazione. Questa sollecitazione diviene così profondamente radicata nel senso comune imprenditoriale [ma non solo: ormai è il senso comune di tutti, tanto il tecno-capitalismo ha ingegnerizzato il nostro subconscio] da trasformarsi in una convinzione quasi idolatrica che esista una soluzione tecnologica per tutti i problemi”[3]. Quindi la proposta di Marietje Schaake di creare un D-7 o un D-20 (che si occupi di digitale) accanto e oltre il G-7 e il G-20 è solo la continuazione del governo delle élite/tecnocrazie con altri mezzi e con altre forme; perché il neoliberalismo nutre per essenza propria una profonda antipatia verso la democrazia, preferendo esperti ed élite – Harvey ancora – quindi l’anti-democrazia.
E sappiamo (dovremmo sapere) quanto le élite di ieri e di oggi siano non solo neoliberali ma anche tecno-file a prescindere; e così come la neoliberista Margaret Thatcher si era posto l’obiettivo di distruggere il sindacato (in particolare quello dei minatori inglesi) – sindacato che è invece e comunque un elemento fondamentale dello stato democratico come della vita di un’impresa e di un social-impresa (che deve essere essa stessa democratica, non essendo ammissibile, in democrazia, che qualcosa non sia democratico ed anzi si proponga fini anti-democratici) – così accade oggi da parte di tutte le élite neoliberali al potere in occidente nei confronti di ogni contro-potere democratico che confligga con il potere delle élite/tecnocrazie (Silicon Valley in primis).
Senza dimenticare che la privatizzazione oggi anche della vita umana grazie alle tecnologie digitali, una vita trasformata appunto nella sua totalità (supra), in merce, in forza-lavoro e in mezzo di produzione (di dati) è perfettamente congruo con l’ideologia neoliberale della privatizzazione dell’intera economia di un paese.
Cos’è la democrazia
Può essere utile allora richiamare qualche elemento capace di dirci cos’è la democrazia. Secondo la politologa Nadia Urbinati, “nella democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico, messo sotto gli occhi del pubblico, e lo è in due sensi: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere reso chiaro, giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini; i quali, in quanto corpo sovrano, hanno due poteri, quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli[4].
Una riflessione che dobbiamo allargare alla rete, per cui il suo agire pubblico (oggi la polis è digitale, ma è gestita da soggetti privati per fini di profitto privato), ma soprattutto il suo agire politico sulla vita delle persone, sui loro modi di informarsi, comunicare/relazionarsi, valutare/decidere, votare, pensare, immaginare, deve essere reso trasparente (mentre oggi tutto di queste imprese è opaco, dalle tecniche di manipolazione agli algoritmi). Questo potere politico deve essere messo sotto gli occhi del demos ed esposto al giudizio dei cittadini: i quali, in quanto corpo sovrano devono autorizzare con il voto e con una cittadinanza responsabile e consapevole l’agire di queste imprese e poi controllarlo perpetuamente. Mancando questa trasparenza, la rete non è e non può essere democratica in sé, né può essere trasformata in una democrazia.
Non è infatti neppure immaginabile che le élite funzionali al sistema (come invece crede Marietje Schaake) vogliano portare la democrazia nella rete. Piuttosto, occorre che sia il demos, ponendosi contro le élites, a farlo. Ma per farlo questo demos dovrebbe de-sussumersi dalla rete e dis-alienarsi dalla sua narrazione/storytelling e dalla sue pratiche di privatizzazione/mercificazione della vita[5], recuperando il concetto e le buone pratiche di democrazia politica ma anche economica, di democrazia nell’impresa e quello di cittadinanza attiva – che invece digitale e neoliberalismo hanno cancellato da tempo dalla scena, producendo per la bisogna (farci adattare alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro e dell’innovazione, a prescindere) anche un populismo neoliberale oltre a quello digitale.
Democrazia e cittadinanza in rete
Parola e concetto complesso, la democrazia: parola mimetica e promiscua, come ha ricordato Gustavo Zagrebelsky[6], ma che comunque ha in sé, come proprio elemento-base, il riconoscimento di un ruolo e di una funzione attiva nelle decisioni che li riguardano da parte dei cittadini. Nella democrazia, ancora Zagrebelsky ci si deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche – e soprattutto in quelle tecniche ed economiche – si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di esterno, di etero-normante, di etero-attivante. L’essenza della democrazia è invece proprio in questa possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi; senza questa capacità e questa possibilità non c’è democrazia. Se la democrazia moderna (ancora Zagrebelsky) è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini allora oggi questa possibilità/capacità è stata tolta agli individui riuniti in società e trasferita ai mercati e alla tecnica (che si im-pongono come dati di fatto non modificabili), dunque si è ormai fuori dalla democrazia e si è entrati, senza accorgersene, in una non-democrazia, anche se iper-moderna e iper-tecnologica[7].
A sua volta, il sociologo Luciano Gallino ricordava che esistono due approcci diversi e opposti per la valutazione della tecnologia: “L’approccio comunicativo si fonda sul presupposto che gli unici depositari del sapere utilizzabile per valutare una tecnologia siano gli esperti (…) o i politici (…) da essi informati. Dato che il pubblico è considerato per definizione ignorante (…) – e motivato da tale ignoranza potrebbe opporre resistenza alla diffusione di una tecnologia [non adattandosi alle esigenze della rivoluzione industriale e della divisione del lavoro richiesta da tecnologie e neoliberalismo] – gli esperti e i politici devono sobbarcarsi l’onere di comunicare ad esso i termini reali [ma reali solo secondo la razionalità tecnica e strumentale/calcolante-industriale] della questione. Per contro l’approccio partecipativo si fonda sul presupposto che il pubblico, qualora gli sia dato modo di discutere e di esprimersi in forme e luoghi appropriati, sia atto a orientare gli esperti verso ciò che non sanno”[8]. Ed è evidente che la scelta deve cadere sul secondo approccio, fondato sul dibattito, produttore di democrazia e di consapevolezza/responsabilità.
Ma per questo occorre prima modificare il senso comune costruito/ingegnerizzato per noi da tecnica e neoliberalismo in questo ultimo mezzo secolo. Non basta cioè un po’ di democratic washing per mutare la sostanza delle cose. È tutto il nostro rapporto con la tecnica e con il capitalismo a dover essere ripensato antropologicamente, prima che politicamente.
Bibliografia
- L. Demichelis (2020), “Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nelTecnocene”, FrancoAngeli, Milano, pag.114 ↑
- D. Harvey (2007), “Breve storia del neoliberalismo”, il Saggiatore, Milano ↑
- D. Harvey (2007), “Breve storia del neoliberalismo”, cit. pag. 83 ↑
- N. Urbinati (2011), “Liberi e uguali”, Laterza, Roma-Bari, pag. 155 ↑
- Cfr., L. Demichelis (2018), “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo”,Jaca Book, Milano ↑
- Cfr. G. Zagrebelsky (2007), “Imparare democrazia”, Einaudi, Torino ↑
- L. Demichelis (2020), “Sociologia della tecnica e del capitalismo”, cit. pag. 9 e pag. 52 ↑
- L. Gallino (2007), “Tecnologia e democrazia”, Einaudi, Torino, pagg. 26-27 ↑