Umanità digitale

Webfare e libertà, se il “consumo” produce valore: ecco come e perché ricompensarlo

Se le piattaforme realizzano vantaggi strepitosi è solo perché sono fabbriche con un numero immenso di operai non retribuiti. Lamentarsi non si può dato che l’accesso al web è volontario e soddisfa dei bisogni. Ma senza quei bisogni le piattaforme morirebbero nello spazio di un mattino. Come render più equo questo scambio?

Pubblicato il 17 Set 2021

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

intelligenza artificiale digitale

La rivoluzione documediale[1], ossia la grande trasformazione tecnologica e sociale in corso da pochi anni, comportando la crescente produzione di documenti relativi non solo ai nostri pensieri, ma ai nostri atti e alla nostra vita, ha  permesso di trasformare il semplice vivere in valore non solo politico ma economico, ponendo le basi per una tassazione capace di far ripartire l’umanità come umanità, sostenendola nei suoi bisogni e facendola fiorire nella educazione e nella invenzione.

Bisogna dunque svelare l’arcano del plusvalore documediale, ossia lo scambio iniquo tra le piattaforme e gli utenti e trovare il modo di ridistribuire il plusvalore generato dall’asimmetria attraverso una tassazione a livello europeo che generi un webfare, un welfare digitale per far fronte in modo ai problemi generati dall’automazione e dalla sua accelerazione in tempi di pandemia.

Dall’infosfera alla biosfera, passando per il virus: ecco cos’è (davvero) il web

Webfare: il lavoro non è più (solo) fatica e alienzaione

Mentre a Manchester le prime industrie inauguravano un’epoca durata due secoli abbondanti, la maggior parte dei lavoratori erano impiegati nell’agricoltura, i filosofi teorizzavano che ogni ricchezza viene dalla terra, parti rilevanti dell’umanità avevano una cultura neolitica, e c’erano ancora molti cacciatori e raccoglitori. Se Marx ha avuto un’influenza sul mondo moderno superiore a quella di Quesnay dipende dal fatto che l’industria ha avuto la meglio; e adesso che il mondo descritto da Marx ha cessato di costituire la forma più alta dello sviluppo umano non credo molto saggio insistere sul fatto che ci sono ancora molte parti del mondo in cui il lavoro come fatica e alienazione continua a far valere i suoi implacabili diritti, che ci sono ancora molti lavori manuali, che il bisogno e la miseria sono ancora lungi dall’essere sconfitti. Non ho dubbi che sia così, così come non ho dubbi sul fatto che esistano ancora agricoltori, cacciatori-raccoglitori e popolazioni con una tecnologia neolitica.

Visto tuttavia che il compito della filosofia non è consolare i meno fortunati, ma far sì che ce ne siano sempre meno, credo necessario guardare avanti, e per questo, tenuto conto della trasformazione tecnologica apportata dal Web, propongo un progetto di Welfare digitale, di Webfare, che sostituisca al lavoro come fatica e alienazione, sempre più eroso dall’automazione, un nuovo concetto di lavoro come consumo e produzione di valori, che non solo appare più rispettoso della dignità umana, ma permette di rimediare alla crescente disoccupazione determinata dalla automazione. Non bisogna lasciarsi sfuggire l’occasione unica per un passaggio dall’homo faber all’homo sapiens, e dopo così tanti millenni di storia sarebbe anche ora. Indietro non si può andare, credo che se uno oggi facesse il lavoro di Faussone nella Chiave a stella percepirebbe l’insensatezza di una funzione che non richiede più un intervento umano. Dobbiamo trovare il senso in qualcosa di più alto del lavoro come fatica, che è un ripiego per una industria non sufficientemente automatizzata e per una società non sufficientemente acculturata.

Per compiere questo passo in avanti, è tuttavia necessario dimostrare che la mobilitazione degli umani sul Web produce valore e che deve essere considerata un lavoro a pieno titolo, ed è su questo punto che, confrontandomi con la letteratura recente sul tema e proponendo alcune trasformazioni concettuali, mi impegno nelle pagine che seguono. Senza dimenticare, ed è una solida ovvietà, che ci siano ricchi, poveri, e poverissimi, e che bisogna porre rimedio a questa condizione senza rinchiudersi egoisticamente nel proprio benessere relativo. La proposta di un Webfare va naturalmente in questa direzione. Ricompensando il lavoro digitale con la tassazione delle piattaforme, farebbe sì che risorse maggiori ricavate dalla tassazione ordinaria degli Stati venissero destinate agli interventi umanitari.

Dopo aver delineato le prospettive generali da cui muovo, definirò la natura della automazione e della intelligenza artificiale che la rende possibile così come le caratteristiche salienti degli umani in quanto alimentatori dell’automazione e proverò a dare una definizione del lavoro sopraordinata a quella che condiziona il nostro senso comune, modellata sul lavoro salariato dell’età industriale. Ciò fatto, passero a differenziare gli strati del Web, ossia del nuovo ambiente, insieme sociale e lavorativo, in cui ci siamo venuti a trovare approssimativamente nell’ultimo trentennio. Per farlo, distinguerò tra un livello superficiale, l’infosfera, un livello profondo, la docusfera, che è quella in cui ha luogo l’automazione, e un livello fondamentale, la biosfera, che è l’ambito dei bisogni e delle pulsioni umane che rendono possibile la docusfera.

Verrò infine alla illustrazione del mio progetto di Webfare indicando nel consumo la produzione fondamentale di valore, le modalità di riconoscimento di questa produzione, e il nesso tra Webfare e libertà che costituisce la giustificazione ultima del mio progetto rispetto all’alternativa comunista della nazionalizzazione delle piattaforme attuata in Cina.

Prospettive economiche per i nostri nipoti

Ricordate l’aforisma 211 di Al di là del bene e del male, contenuto nella sezione dedicata allo “spirito libero”? Nietzsche scrive, tra l’altro: “i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano ‘così deve essere!’, essi determinano in primo luogo il ‘dove’ e l’’a che scopo’ degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato – essi protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro ‘conoscere’ è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è – volontà di potenza. – Esistono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Non devono forse esistere tali filosofi?”[2]. Per fortuna, no. Pensare che la determinazione dei nostri valori sia in mano a uno come Nietzsche fa accapponare la pelle, e non tranquillizzerebbe se al suo posto si mettesse anche il più giudizioso dei filosofi.

Questo aforisma dice tuttavia qualcosa non sui filosofi bensì sull’umanità. In effetti gli operai, non della filosofia ma di qualunque altra sorta, stanno scomparendo, in un processo lento ma irreversibile. Sono ben consapevole del fatto che il mondo è pieno di lavori indegni di un essere umano, ma questa, che è una triste constatazione, non è una obiezione. Perché nel frattempo si è avviata una trasformazione che non potrà non attuarsi, perché è economicamente redditizia e umanamente desiderabile. Se Keynes, quando nel 1930 profetizzava un mondo con poche ore di lavoro alla settimana[3], si proiettava verso una umanità ancora interamente a venire. Non è questo il caso della fine del lavoro come fatica e alienazione di cui siamo testimoni oggi in zone privilegiate del mondo, e di cui si può ragionevolmente sperare l’estensione universale se non per i figli, per i nipoti dell’umanità che in questo preciso momento vive e muore sulla terra.

Qui la fine del lavoro come fatica e alienazione è già sotto i nostri occhi e nella nostra vita, ed è già stata oggetto di disamine profonde[4]. Ci sono lavori che scompaiono, e questa è una robusta ovvietà, così come è una robusta ovvietà constatare che la scomparsa di vecchi lavori determina la crescita di nuovi lavori, che tuttavia non sono mai altrettanto numerosi che i vecchi, e spesso non sono nemmeno così attraenti[5]. Meno ovvio, ma forse più importante, è che ci sono vecchi lavori che non scompaiono ma che vengono pagati molto meno che un tempo, perché c’è meno richiesta, e, ancor più, che ci attività che un tempo erano considerate lavori e che cessano di venir considerate come tali, o che vengono svolte dai consumatori. Prima di affrettarci a decretare che questa trasformazione genererà la distopia di una umanità divisa tra una élite iper-occupata e ricchissima e una maggioranza disoccupata e degradata[6], e invece di rimpiangere, non so quanto sinceramente e di certo ben poco sensatamente, i campi e le officine, consideriamo, con un lavoro tutt’altro che disprezzabile benché sia intellettuale e non manuale, che adesso, grazie al Web, avviene qualcosa di importantissimo, una trasformazione di cui non abbiamo ancora preso le misure.

Ancor meno ovvia della scomparsa dei lavori di una volta, ma a mio parere decisiva, è dunque una riconcettualizzazione che porti a considerare come lavori da retribuire attività che tradizionalmente non erano considerate lavorative, perché, in assenza di una trasformazione radicale di questo tipo, è ovvio che il numero di lavori retribuiti sarà destinato a scendere a livelli insostenibili. Si tratta, insomma, di formare un nuovo concetto di lavoro, che segni, auspicabilmente, una nuova tappa per un umano che, come diecimila anni fa aveva abbandonato la condizione di cacciatore-raccoglitore, sta ora abbandonando, in modi e in tempi diversi, quella dell’umano come produttore di beni in connessione con apparati tecnici, per passare a quella condizione di produttore di valori che Nietzsche arrogava ai filosofi, e nemmeno a tutti.

La posta in gioco è alta, e riguarda, se non la nostra felicità (dono oscuro e accidentale), la nostra libertà. Se riusciremo a superare il ridotto e caduco concetto dell’umano come produttore di beni invece che di valori, se riusciremo a riconoscerlo anche come consumatore e come portatore di corporeità oltre che, ovviamente, di creatività, allora vedremo che la grande attività fondamentale che l’umano può svolgere è la cura, di sé e dell’altro. In effetti, è una situazione non precisamente inedita, presentando delle significative analogie con la vita tardoantica, quando a Roma e a Costantinopoli enormi masse di umani vivevano senza necessità produttive dal momento che funzioni che oggi vengono assolte dalla automazione venivano allora risolte dalla economia schiavistica. Le masse urbane di consumatori avevano però una utilità economica soltanto marginale, in quanto producevano consenso politico.

La rivoluzione documediale

In questo quadro, sempre meno homo faber, l’homo sapiens trova nella rivoluzione documediale una occasione unica per fare onore a un titolo che appare spesso abusivo – basti dire che l’essenza della sapienza del sapiens è stata la sua capacità di uccidere i neanderthaliani. Sicuramente rispetto a quei nostri remoti antenati abbiamo compiuto molti passi in avanti, ma la via è ancora lunga, cioè è indefinita sebbene non sia infinita (l’umanità morirà di caldo, per colpa nostra o per l’espansione del sole).

Pur non aspettando la fine dei tempi, queste pagine non indico una soluzione a breve termine, benché mi auguri delle applicazioni parziali o locali di questa prospettiva. La proposta di un reddito universale[7] e la constatazione della “fine del lavoro[8] sono contemporanee, e per ottimi motivi, che però il più delle volte si sono fatti sentire solo in negativo, come preoccupazione per la perdita di posti di lavoro. Qui vorrei dare delle indicazioni positiva. Il lavoro, nella prospettiva che propongo, è produzione di valore. Nell’epoca dell’homo faber questa produzione ha luogo attraverso la cooperazione di organismi umani e meccanismi nella produzione di valore d’uso; in questa produzione l’umano conta come appendice della macchina. Nell’epoca dell’homo sapiens la cooperazione tra organismi umani e meccanismi conduce alla produzione di valore di scambio; in questa produzione la macchina conta come appendice dell’umano. Il lavoro dell’homo sapiens, in quanto lavoro dello spirito, porta in primo piano l’elemento che nell’umano non può essere automatizzato, il consumo, che, al tempo stesso, costituisce il fine di tutta l’automazione. Ecco ciò che per millenni è stato impossibile e che si può e si deve fare, oggi, mettendo in soffitta, insieme alle falci e ai martelli, la più triste delle leggi della scienza triste, l’economia: quella che recita “nessun pasto è gratis”.

Che cosa è il lavoro?

Si tratta di comprendere il lavoro come un concetto sopraordinato tanto alla fatica e alla alienazione quanto allo sfruttamento, tanto alla produzione di beni quanto alla erogazione di servizi, che renda conto tanto di queste fasi precedenti del lavoro (che ovviamente sono ancora presenti in tante parti del mondo) quanto delle nuove forme di lavoro determinate dalla automazione. In questo spirito, definisco “lavoro” ogni atto di un organismo (nella stragrande maggioranza dei casi, di un organismo umano) capace di produrre valore rapportandosi a degli apparati tecnici: remi, aratri, penne, tastiere di computer. In questo senso, una funzione naturale come camminare diviene lavoro se si tira un carretto producendo valore (poniamo che il carretto sia un risciò), e, reciprocamente, ogni produzione di valore trasforma una interazione tra organismo e meccanismo in lavoro, per esempio quando, durante il sonno, uno smartwatch registra i nostri bioritmi. La definizione che ho fornito è tutt’altro che chimerica o utopica, se si considera che l’attivo maggiore delle piattaforme, ormai da anni, consiste nei dati degli utenti[9], che operano appunto in veste di produttori di valore attraverso un lavoro digitale[10]. Ma in cosa consiste l’alchimia per cui gli atti degli umani, in sé spesso futili e improduttivi, si traducono in valore quando entrano in contatto con le piattaforme?

Anima

Detto altrimenti, in che senso la nostra vita dovrebbe essere economicamente interessante? Tradizionalmente, interessanti sono le vite straordinarie, quelle dei santi, degli eroi o delle celebrità. La televisione spazzatura e i social hanno allargato la sfera di coloro che possono trarre vantaggio dal semplice fatto di vivere una vita normalissima, e magari straordinariamente poco interessante, ma non credo che l’antica profezia attribuita a Warhol[11] sui quindici minuti di fama per tutti possa candidarsi a essere una seria prospettiva economica per i nostri nipoti, soprattutto se siamo interessati a garantirne l’intero ciclo di vita. La fama, come la fortuna, è una dea incostante e capricciosa, ed è poco raccomandabile mettere nelle sue mani il destino della intera umanità[12]. Il che, sia detto per inciso, è ciò che fanno coloro che sostengono che il lavoro del futuro sarà la creatività, sottintendendo, sebbene non credo ci abbiano mai pensato, che sarà creatività per tutti e in ogni momento[13].

Non nell’eccezione, ma nella norma, va cercato un ragionevole lavoro del futuro, e fermo restando che, proprio come nelle celebrità o nei creativi quello che importa non è la forza fisica (a meno che la celebrità sia uno sportivo), ciò per cui la nostra vita diventa lavorativamente interessante è qualcosa di apparentemente più modesto, ma di ben più decisivo, continuo e fondamentale. Consideriamo i test per verificare che siamo umani e non automi effettuate da Captcha (Completely Automated Public Turing test to tell Computer and Humans Apart). Non ci chiedono di essere creativi, ma di riconoscere per esempio, delle lettere o dei numeri scritti in modo irregolare, difficili da riconoscere per una macchina ma di facile identificazione per un umano. Oltre ad assolvere al loro compito di discriminazione tra umano e automa, che è utilissimo giacché, come vedremo, agli automi interessano gli umani e non gli altri automi, i risultati di questi test servono ad addestrare il riconoscimento di numeri e lettere, e hanno consentito la digitalizzare gli archivi di grandi biblioteche e del New York Times, al miglioramento della lettura dei numeri civici per Google Street View, al perfezionamento dei sistemi di riconoscimento delle immagini per i droni e le macchine autopilotate[14].

In queste prove di umanità agisce prima di tutto la necessità di sfruttare abilità che al momento non sono ancora alla portata delle macchine. La proliferazione di sistemi di riconoscimento vocale e di assistenti automatici, la cui utilità appare spesso dubbia agli utenti umani, è da ricondursi alla circostanza per cui, come in una bottega, il mestiere si ruba con gli occhi e con le orecchie, e dunque l’automa cerca di immagazzinare quanto più possibile le attitudini dell’anima, termine con cui designo la condizione dell’umano in quanto organismo sistematicamente collegato con dei meccanismi, laddove l’automa è un meccanismo collegato o con organismi, generalmente umani, o con altri meccanismi. Invece di battere record sportivi, realizzare capolavori o vivere esistenze irripetibili, questi test non chiedono nulla che non sia alla portata di un essere umano ma, insieme, qualcosa che è alla portata solo di un essere umano.

Prima o poi, ovviamente, queste capacità saranno immagazzinate dagli automi, poco alla volta e caso per caso. Ci vorrà molto tempo ma gli automi non hanno fretta, non si annoiano, e non smettono mai di lavorare, dunque dovremo dire addio, anche in questo caso senza troppi rimpianti, al microlavoro uberizzato[15], al “lavoro del clic” con cui per il momento, ma solo per il momento, si sopperisce alle insufficienze dell’automazione. Questo però non significa in alcun modo che l’automa potrà fare a meno dell’anima. C’è tuttavia infatti che l’automa non potrà mai rubare all’anima, ed è ciò che assicura la dipendenza fondamentale dei meccanismi rispetto all’umanità: il fatto che, senza anima, l’automa non va da nessuna parte, come si può verificare con un semplice esperimento mentale. Supponiamo che l’intera umanità scomparisse: il web si deteriorerebbe nello spazio di un mattino, e questo non solo per mancanza di nutrimento (i comportamenti degli umani), ma prima di tutto per mancanza di senso, giacché non si riesce a concepire un qualsiasi organismo, che non sia l’umano, interessato al web e ai suoi servigi.

Consideriamo con attenzione questa circostanza, perché è proprio su di essa che si fonda la ragionevole speranza di una umanità liberata dal lavoro come fatica e alienazione e capace di produrre valore attraverso il semplice vivere in forma umana. Quanto dire che dopo la scomparsa del lavoro tradizionale, e del microlavoro digitale, che diverrà inutile una volta che le macchine avranno imparato quello che devono imparare, l’umanità sembra destinata a svolgere, in quanto umanità, un grande lavoro algoritmico[16], che preferisco chiamare “mobilitazione” perché si imparenta con una totale fusione di vita e lavoro[17], ricollegandosi del resto alla fondamentale concezione di Marx secondo cui “lo sviluppo dell’individuo sociale si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”[18]. È questa mobilitazione in cui l’umanità si limita a fornire alle macchine esempi di comportamento e finalità, risultando insieme esonerata dal lavoro e mobilitata in un lavoro più fondamentale di qualunque fatica fisica, che conviene mettere a fuoco, appunto perché ci riguarda da vicino, ci riguarderà sempre più, e soprattutto costituirà il lavoro fondamentale, se non dei nostri figli, certamente dei nostri nipoti.

Per non riprodurre con gli automi lo stesso qui pro quo che le anime hanno generato dapprima con gli dèi, e poi con le merci, è dunque necessario costruire un nuovo concetto di lavoro che sostituisca quello, ormai sorpassato, che lo concepiva come ipostatizzazione del lavoro salariato moderno[19]. Questa ipostatizzazione è ciò che troviamo nella definizione del lavoro come produzione di beni o servizi in forma obbligata, faticosa, protratta, intelligente che risponda alla soddisfazione di bisogni del lavoratore, del prescrittore, e più complessivamente della società”[20].  Si tratta insomma di concepire il lavoro al di là dei vincoli della fatica e dell’alienazione, dal momento che ci può essere un lavoro che non comporta né l’una né l’altra, la fatica e l’alienazione manifestando le esigenze di una società di agricoltori, quella a cui risale la condanna biblica nei confronti di Adamo cacciato dall’Eden. Così pure, occorre pensare il lavoro al di là della nozione di “sfruttamento”, che si è sistematicamente introdotta nella definizione del lavoro in età industriale, ma che in quanto tale è tutt’altro che chiara, giacché può essere metaforica, quando si parla, per esempio, di sfruttamento delle risorse naturali, o fuorviante, come quando si sostiene che il lavoro domestico fa guadagnare il capitalismo. Soprattutto, bisogna liberarsi dalla convinzione che il lavoro sia necessariamente collegato alla produzione di beni o alla fornitura di servizi.

Automa

Che cosa rende sempre più obsoleto l’homo faber? La crescente automazione dei processi produttivi e distributivi. A questo punto, la via del luddismo è aperta: sabotiamo le macchine, buttiamo sabbia negli ingranaggi, e torniamo ai bei lavori di una volta, sperando tuttavia con tutto il nostro cuore che non tocchino a noi e che ci la sorte ci riservi qualche lavoro creativo, per esempio quello di critico della alienazione e dello sfruttamento. Così come è aperta la via, battutissima dopo la fine della lotta di classe, del vittimismo politico che è diventato la concezione mainstream secondo cui l’unico modo per qualificarsi come soggetti politici sia essere delle vittime (questo, ridotto al succo, il concetto di “biopolitica” oggi identificata con la politica tout court[21]), o meglio ancora compatirle. È aperta, infine, la via della decrescita felice[22]: invece di ritornare all’accumulo capitalistico avviato diecimila anni fa con l’agricoltura, e che ci ha costretti a lavorare come dei dannati, torniamo alla condizione felice dei cacciatori-raccoglitori, beninteso rassegnandoci a vivere non più di quarant’anni rilassandosi la sera, dopo una giornata trascorsa a correre dietro a una gazzella o a raccogliere bacche, ascoltando un mito (sempre lo stesso, temo) intorno al fuoco.

Ecco una condizione che non augurerei né ai miei figli né ai miei nipoti semplicemente perché io per primo non sarei disposto a sopportarla, così come non augurerei a nessuno il ritorno ai lavori di una volta. Aggiungo che, per quanto ben poco faticoso, il lavoro della compassione biopolitica è poco dignitoso: non si aiutano i migranti o i rider compatendoli, ma creando un mondo diverso; non si rimedia alla drammatica realtà delle morti sul lavoro o dei licenziamenti per email tornando indietro, ai tempi in cui ci par di ricordare (ma la memoria spesso inganna) che le vittime fossero più tutelate, almeno sulla carta. Il vittimismo conferisce un che di spirituale o almeno di compassionevolmente empatico anche al volto di un demente. L’illuminismo, la fiducia nel progresso, ha l’effetto contrario: espone ogni idea all’accusa di superficialità, connivenza e stupidità.

L’ironia, se così possiamo dire, è che questo catastrofismo ha luogo nel momento in cui diviene possibile pensare a una umanità liberata dal lavoro, dopo che si è liberata dal ricorso sistematico alla guerra e dall’idea che ci siano esseri umani che la natura destina alla schiavitù. Il fatto è che il pessimismo costituisce un atteggiamento alla portata di tutti, e che soprattutto esenta il pessimista da lottare per sé e per l’umanità in nome di un mondo migliore. Inoltre, i misoneisti non si assumono alcuna responsabilità, visto che tanto il progresso va avanti comunque, mentre i progressisti, se lo sono davvero, devono farsi carico della comprensione concettuale e del governo politico del progresso. Per questo considero l’ottimismo un dovere morale, perché se davvero noi fossimo convinti che nulla di tutto quello che facciamo migliori la sorte dell’umanità, o se addirittura fossimo convinti che ciò che facciamo non fa che peggiorarla, allora dovremmo avere il coraggio di chiudere baracca e burattini, togliere il disturbo, e spegnere la luce.

Cerchiamo dunque un’altra via, e per farlo chiediamoci prima di tutto: che cos’è l’automazione? Forse la creazione di una macchina che ci rende superflui non solo come produttori, ma come esseri umani? No, è la valorizzazione dell’umano in quanto umano, giacché è l’abilitazione di una macchina a eseguire un certo compito come un umano, tanto per i mezzi quanto, soprattutto, per i fini e gli interessi. E che cosa rende possibile l’automazione? L’intelligenza artificiale, che, con un residuo di mitologia, si è spesso portati a interpretare come una super-intelligenza finalistica e autonoma, e come tale desiderosa di prendere il potere rendendo schiava l’umanità, quando la verità è tutta un’altra. L’intelligenza artificiale non è un processo olistico e finalistico come l’intelligenza naturale, bensì la registrazione, l’imitazione e la riproduzione di frammenti forme di vita umana[23], ossia di comportamenti e di finalità che oggi sono registrati sul web.

Capire la vera natura di ciò che, in modo fuorviante, si chiama “intelligenza artificiale” è dunque non solo rispondere a una necessità sociale, ma anche questione di riconoscere la dignità dell’umano in quanto produttore di valore, sfatando la leggenda distopica di una umanità schiava delle macchine e ridotta ad automa. Questa concezione non considera che l’origine della servitù umana va cercata non nella soggezione a un Golem, bensì nella subalternità di esseri umani che dipendono per il loro sostentamento dal placet di sistemi che essi stessi hanno alimentato. Se non si viene in capo a questo punto, si genera il paradosso per cui gli umani lavorano gratuitamente per produrre la propria disoccupazione. Ma lo abbiamo detto, i lavori automatizzabili si rivelano, retrospettivamente, indegni di un umano, e non c’è ragione per rimpiangerli.

Conviene invece prendere le misure della enorme trasformazione in corso, che è anzitutto un capovolgimento dei rapporti tradizionali tra anime e automi. Se, come tradizionalmente è avvenuto in situazioni di automazione rudimentale, lo scopo del lavoro è compiere azioni che possono essere vantaggiosamente compiute dalle macchine, è evidente che la crescita dell’automazione coincide infallibilmente con la scomparsa del lavoro, perché, a parità di condizioni, una macchina è sempre più vantaggiosa di un umano, per ottimi motivi: non si stanca, muore, non ha diritti e non va in pensione. Ma, fortunatamente, il lavoro non è solo questo, e neanche la tecnica. L’operazione concettuale necessario per riconoscere il lavoro digitale consiste nel capovolgere la posizione secondo cui l’utente è l’“ausiliario dell’algoritmo”[24] in quella secondo cui l’algoritmo è l’ausiliario dell’utente, e che non avrebbe né inizio né fine senza la mobilitazione degli umani. Di questa subalternità dell’automa rispetto all’anima non abbiamo tuttavia consapevolezza, e non l’avremo mai se continuiamo a ragionare con vecchie categorie.

Tuttavia, riflettiamo per un istante su una circostanza. Una tecnica rudimentale fa dell’umano una parte della macchina, come nel sistema martello-umano-incudine o nella catena di montaggio, in cui l’umano svolge funzioni che sono facilmente surrogate da automi. Una tecnica più evoluta, come Marx aveva largamente previsto, si limita a servirsi dell’umano per scopi di regolazione[25]. Marx, tuttavia, non poteva prevedere che una tecnica ancora più evoluta avrebbe avuto bisogno degli umani solo per scopi di riconoscimento[26]. Ora, chi stigmatizza la nostra epoca come produttrice di “lavori spazzatura”[27] dovrebbe riflettere su quanto di umano ci fosse nella catena di montaggio o anche semplicemente nello scrivere sotto dettatura per otto ore per un salario modesto (si chiama “fare il dattilografo”). E soprattutto dovrebbe riflettere che una tecnica ancora più evoluta avrà bisogno dell’umano solo in quanto fornitore di finalità, ossia in quanto pura anima, senza un solo istante di automa.

Nell’età dell’intelligenza artificiale appare chiaro, e lo apparirà sempre più, che la merce più pregiata non è la forza del lavoratore, o la sua concentrazione alienata nella ripetizione di un unico scopo, o la sua supervisione esperta di un processo produttivo, bensì la sua mobilitazione puramente umana sul web, che alimenta e finalizza l’automazione. Se le cose stanno in questi termini, appare chiaro che il rapporto tra l’intelligenza artificiale e gli umani non è affatto di dipendenza dell’anima dall’automa, come vogliono le distopie della società automatizzata, ma, proprio al contrario, come una crescente dipendenza dell’automa dall’anima. Insomma, ciò che Marx non poteva prevedere è non solo che la funzione di controllo e regolazione delle macchine sarebbe stata sempre più assunta dalle macchine (è ciò che chiamiamo machine learning), ma soprattutto che agli umani sarebbe stato richiesto di comportarsi, per essere produttori di valori, nel modo che, per Marx, costituiva l’esito di una rivoluzione politica, ossia la fine della società borghese, l’avvento del comunismo[28], e la realizzazione di una umanità cui fosse consentito di andare a pesca la mattina e di fare il critico il pomeriggio, con in più l’esenzione dall’accudimento del bestiame consentita dall’automazione.

Lavoro

Per cogliere la trasformazione in corso è essenziale non cadere in analogie ingannevoli tra il presente e un passato anche non troppo remoto. Negli anni Settanta si proponeva di  considerare i telespettatori come lavoratori[29], perché le catene televisive vendevano la loro audience alle agenzie pubblicitarie, e sicuramente nella mobilitazione degli utenti in rete c’è un aspetto di riconoscimento comunitario[30] o di passaparola[31], ma ridurre a questo la produzione di valore sul web è perdersi il carattere saliente del lavoro digitale, e non sorprende che queste ipotesi siano state avanzate più di dieci anni fa, quando non si era ancora, non dico presa la misura del fenomeno, ma neppure se ne era compresa la natura.

La produzione di valore, infatti, è solo in minima parte manifestazione cosciente di apprezzamento, e in larghissima misura dipende dalla possibilità, che il web possiede più di ogni altro strumento tecnico, di trasformare la praxis in poiesis, e gli atti in dati. Questa capacità deriva da una circostanza in apparenza minuscola: registrare non è mai costato così poco e non è mai stato così ubiquo, e ciò per una caratteristica del digitale rispetto all’analogico su cui spesso non si rifletta sufficienza. Mentre nell’analogico ha luogo prima la comunicazione, e dopo – se mai, e il più delle volte in effetti mai –, la registrazione, nel digitale la registrazione precede e rende possibile la comunicazione. Ecco l’origine dei Big Data, relativi non solo alle nostre azioni deliberate e linguistiche, ma ogni nostra forma di interazione con il web[32].

Che cosa è il web?

Definisco come “web” il grande apparato di registrazione dei comportamenti umani, che si manifesta nella punta emersa di una infosfera, come ambito di comunicazioni esplicite, in un oceano di docusfera, ossia di registrazioni di comportamenti non intelligibili senza macchine, e che viene alimentato da una biosfera, cioè da un ambito di comportamenti umani (e solo umani) che costituiscono il principio e il fine di tutto il processo. Una volta fatta questa precisazione, passiamo all’esame dei tipi di lavoro che si possono esercitare in queste tra sfere, a cui corrispondono tre modalità diverse di “lavoro digitale”.

Infosfera

Il web, che è tanto poco una intelligenza collettiva quanto poco l’intelligenza artificiale è un processo olistico e finalistico. Considerarlo una intelligenza collettiva è invece l’assunto, profondamente ingannevole, che presiede alla concezione del web come infosfera[33], ossia come un ambito di conoscenza, di trasparenza, di informazione appunto, il cui carattere dominante sta nel presentarsi come un veicolo di comunicazione.

Dal punto di vista antropologico, ridurre il Web alla infosfera è cullarsi con una immagine dell’umano come desideroso prima di tutto di conoscenza, mentre sappiamo bene che le cose non stanno così, e che gli umani accedono al Web per gli scopi più disparati, ma solo in minima parte per informarsi. L’umano come desideroso di sapere e portatore di conoscenza, ossia l’homo sapiens, è un ideale, il fine di un processo, e non un fatto. Sicuramente siamo molto più colti dei nostri antenati, anche prossimi, basti dire che un secolo fa la stragrande maggioranza dell’umanità era composta da analfabeti; sicuramente siamo anche più liberi dei nostri antenati, basti dire che il web è uno spazio che sancisce il diritto, in precedenza inaudito, di una umanità che pensa programmaticamente con la propria testa; ma che questa cultura e questa libertà siano tali da dar forma a un homo realmente sapiens è da escludersi, per convincerne basta una rassegna superficiale del web.

Dal punto di vista tecnologico, l’appello all’infosfera dissimula il carattere decisivo del Web. Il Web è interessante proprio perché registra invece che limitarsi a comunicare o a informare, e questa registrazione sta alla base della produzione di algoritmi e di archivi che permettono l’automazione della produzione attraverso la mimesi delle forme di vita umana registrate sul Web; il perfezionamento della distribuzione attraverso la conoscenza analitica dei nostri bisogni e comportamenti; e la profilazione della realtà sociale riconoscendo le correlazioni tra consumi, inclinazioni politiche, predilezioni e predisposizioni di varia natura che, si badi bene, non riguardano gli individui, cognitivamente poco interessanti, bensì degli idealtipi.

Dal punto di vista economico, è non rendersi conto del cambiamento radicale che questa trasformazione ha apportato nella nostra vita attiva. Nel caso di una tecnologia della comunicazione, come il telefono classico, l’utente pagava per un servizio (e generalmente pagava troppo, visto che spesso si trattava di monopoli), e, una volta ricevutolo, la cosa finiva lì. La compagnia telefonica raccoglieva i profitti e cercava di reinvestirli per farli fruttare.  Nel caso di una tecnologia della registrazione, come il telefonino, quando ho fatto una telefonata, gratis, o una ricerca, gratis, questo è solo l’inizio di un gigantesco processo di capitalizzazione da parte della piattaforma, che registra appunto i metadati (molto più numerosi delle informazioni che ho ricevuto: l’ora, il giorno, la posizione della ricerca, chi sono io ecc.); ne diventa proprietaria realizzando un accumulo primario; li confronta con miliardi di altri dati di altri utenti, avendo gli strumenti tecnologici e concettuali per farlo; li trasforma in profilazioni che può adoperare per scopi di automazione o distribuzione, o che può vendere ricavandone profitti ben maggiori di qualunque investimento in borsa, se non altro perché, non dimentichiamolo mai, li ha acquisiti gratis. È così che agitando lo spauracchio immaginario, in Occidente, dalla infrazione della privacy, o impegnandosi in futili lotte contro le fake news (se uno vuol credere in un oracolo nessuno al mondo potrà impedirglielo), l’insistenza sulla infosfera ci impedisce di riflettere sulla vera posta in gioco del Web[34].

Docusfera

Dobbiamo capire che l’intelligenza artificiale è un inconscio artificiale, ossia un archivio di pulsioni e di azioni non comprese, tanto dalla macchina quanto dall’attore umano, che permettono di comprendere finalità e di eseguire prestazioni. La sede di questo inconscio è la docusfera, in quanto ambito inaccessibile alla coscienza senza l’ausilio di macchine (si pensi a quelle illeggibili serie di lettere, cifre e simboli che a volte appaiono sui nostri computer in seguito a un malfunzionamento). Questa docusfera non è un deposito di intenzioni e di comunicazioni, quale sarebbe una infosfera, bensì un archivio di atti di cui non abbiamo coscienza, ma che – di nuovo in analogia con l’inconscio – sicuramente esprimono le nostre intenzioni con molto maggiore chiarezza e sincerità della coscienza. Inoltre, ed è la terza e ultima analogia con l’inconscio, la docusfera è un grande territorio che, senza la registrazione, svanirebbe senza lasciare traccia, e che viceversa, se viene registrato, produce un enorme patrimonio digitale[35].

Ciò che alimenta la capitalizzazione non è un sapere ma un fare: quella avviata dal web non è una economia della conoscenza, bensì una economia della mobilitazione. Il Web non è anzitutto ciò che, coscientemente, scriviamo, leggiamo, ascoltiamo o guardiamo. È prima di tutto ed essenzialmente il grande archivio che tiene traccia delle azioni che compiamo per scrivere, leggere, ascoltare o guardare, operazioni di cui raramente siamo consapevoli – chi mai ha tenuto conto dell’ora e del luogo in cui compie una ricerca, soprattutto se questa ricerca riguarda un ristorante? Che spesso non ricordiamo di compiere – durante una conversazione al telefono tossisco tre volte, posso benissimo non accorgermene, e comunque saprei rispondere alla domanda: quante volte hai tossito? O che sappiamo di compiere ma ci guardiamo bene dal quantificare – quanti, prima del Web, avranno sistematicamente contato i passi di una passeggiata? E che, in moltissimi casi, non avremmo mai registrato senza il Web, si pensi al computo dei nostri bioritmi.

Ecco, dunque, un archivio impassibile e fedele, un archivio che non mente mai perché non ha alcuna intenzione di dire la verità, un archivio, soprattutto, pieno proprio di ricordi che non sappiamo. Questo perché la massima produzione di dati avviene a nostra insaputa, e consiste non in dati umanamente leggibili, bensì in metadati significativi solo per delle macchine, e che dunque non costituiscono informazione in alcun senso accettabile del termine (sostenere che una macchina riceve informazioni non è diverso dal sostenere che i giornali leggono i giornali e che fra la regina delle api e la regina d’Inghilterra non c’è differenza). Questa circostanza, il carattere inconscio e rimosso della docusfera determina, secondo il meccanismo della alienazione e del feticismo studiato da Marx, la formazione del “mito del dato”[36], o più esattamente della fallacia naturalistica consistente nel considerare i dati come una materia prima,[37], o l’equivalente per l’economia contemporanea del petrolio per l’economia del XX secolo[38]. A dispetto del nome, i dati non sono dati, ma prodotti, ed è per questo che preferisco chiamarli “documenti”.

Questi documenti non sono il residuo di una vita antidiluviana, come il petrolio, bensì l’archivio di una vita presente e attiva, sono il frutto di una mobilitazione che, in quanto produce valore e capitale, deve essere riconosciuta come un grande lavoro nascosto, molto più importante del lavoro della coscienza e molto più esteso e produttivo del lavoro del sogno. O, meglio, nella docusfera il lavoro del sogno e del desiderio diviene letterale, purché facciamo lo sforzo di riconoscerne la portata. Il primo passo per riconoscere che si tratta di un lavoro è che ci viene pagato, ma in natura e in modo insufficiente, ossia sotto la forma di una economia del gratis. Il secondo consiste nel cercare il fondamento della docusfera. Come l’inconscio per Freud è alimentato dal desiderio, ossia da pulsioni di vita (e dunque anche di morte), l’alimentatore fondamentale della docusfera è la biosfera, ossia il mondo della vita degli umani che producono documenti, cioè valore, senza saperlo.

Biosfera

Parlando di vita e di morte potremmo forse dire, come fa Freud[39], che entriamo nello speculativo? No, entriamo nella speculazione, o più esattamente cerchiamo di circoscrivere il movente che sta alla base della mobilitazione che a sua volta si pone all’inizio della più grande forma di capitalizzazione che la storia abbia conosciuto, la conversione della vita umana in documenti. Ci si può chiedere a questo punto cosa c’entri la morte, ma la risposta è semplice. Il primo movente dell’automa (la docusfera) è l’anima (la biosfera), e il primo movente dell’anima è la mortalità, e la pressione metabolica volta a sottrarsi a questo destino. Agli umani, come a tutti gli altri organismi, sono date sole due opzioni, on, e poi off, per sempre. Unici fra tutti gli altri organismi, gli umani hanno però dispiegato un numero impressionante di tecnologie, dal fuoco alla scrittura alla cultura in generale, e questo proprio perché spinti dall’urgenza vitale che ovviamente si trasforma anche in urgenza spirituale. Diversamente dagli altri organismi, dunque possiamo articolarci con meccanismi e potenziare le nostre possibilità, dando uno scopo ai meccanismi, che di per sé non ne hanno, e a noi stessi, che, come organismi, non abbiamo altro fine che non sia la nostra fine.

La docusfera, così, non esisterebbe se non ci fosse una biosfera di organismi esclusivamente umani (gli altri organismi non hanno bisogno del web) che alimentano la docusfera attraverso la loro mobilitazione. Infatti, che cosa ci mobilita? Non un obbligo esterno e retribuito, come nel lavoro tradizionale, ma una pulsione, qualcosa che ci spinge. Bene, ma in cosa consiste il fondamento ultimo di questa pulsione? La volontà di vivere, ossia il metabolismo, che ci apparenta a ogni altro organismo e ci differenzia da qualunque meccanismo. Il meccanismo, infatti, è immune dalla pressione metabolica perché se non viene alimentato smette di funzionare, ma potrà sempre riprendere la propria attività perché è programmato per una serie indefinita di on e off. L’organismo, invece, non ha che due posizioni, on e off, vivo sino alla morte o morto per sempre, e l’irreversibilità della posizione off è ciò che rende cruciale l’alimentazione continua, ossia la pressione metabolica.

Come ogni organismo, anche quello umano agisce sotto la pressione del metabolismo, però, diversamente da qualunque altro organismo, lo soddisfa ricorrendo a meccanismi, cioè a tecnologie, che non hanno bisogni ma li alimentano, ossia li nutrono e insieme li moltiplicano, li amplificano e li trasformano. Queste tecnologie vanno dal fuoco alla scrittura alla cultura in generale, e sono queste tecnologie a far sì che, come caratteristica esclusiva dell’umano, l’urgenza vitale può (anche se non necessariamente deve) trasformarsi in urgenza spirituale. Un organismo non umano, invece, per vivere, deve alimentarsi proprio come noi, ma nel farlo non si serve meccanismi, così che non può trasformare o sublimare le proprie pulsioni, e che dunque non può dar vita allo spettacolo di arte varia che è la vita umana che, oggi, si riversa e registra sul Web.

È dunque la tecnologia a renderci capaci di spirito, ciò che determina la dipendenza ontologica dell’umano rispetto alla tecnologia: un umano senza tecnologia non è umano, e inversamente tutte le forme di vita che si mobilitano sul web sono umane in quanto possiedono la caratteristica di comportare una sistematica interazione tra meccanismi e organismi. In quanto umani, dunque, siamo tenuti ad articolarci con meccanismi e a potenziare le nostre possibilità, dando uno scopo ai meccanismi, che di per sé non ne hanno. Di ritorno, il mondo spirituale e sociale generato dalla interazione con la tecnologia e con gli altri umani conferisce un fine alla nostra condizione umana, che di per sé ne è priva giacché, come ogni altro organismo, non abbiamo altro fine che non sia la nostra fine.

Questo, tuttavia, non comporta una dipendenza teleologica, cioè in ultima istanza politica, delle anime rispetto agli automi, come nella distopia dell’uomo macchina a cui mi sono riferito più sopra, perché senza i bisogni delle anime gli automi non avrebbero né scopo né senso: le macchine esistono solo in funzione degli umani, dei loro bisogni, della loro mortalità, e questo vale in primo luogo per quella macchina universale che è l’intelligenza artificiale.  Inutili come appendici di vanghe, di torni, di macchine per scrivere, gli umani sono insostituibili come appendici di coltelli e forchette, di cinema, di concerti, di romanzi, e ovviamente di tanti altri intrattenimenti meno commendevoli, ma esclusivamente umani.

L’automa semplice, lo strumento, può rompersi (un martello si spezza), ma può sempre essere riparato o sostituito. L’automa complesso è programmato per una serie più lunga possibile di successioni on/off (tale il semaforo, il motore a scoppio, il computer) e quanto più complesso è il processo, tanto più l’automa si rivela appropriato al suo etimo (automaton, che si muove da sé), ma questo costituisce una tendenza ideale destinata a non realizzarsi mai perché un movimento completo richiede una finalità interna, mentre la finalità dell’automa viene sempre dall’esterno, per esempio dall’anima che regola il termostato di casa sua. Come non hanno una finalità interna, ma manifestano quella del loro artefice, gli automi non hanno una vita, ma promettono una sopravvivenza meccanica a un vivente che non può risorgere. L’automazione è la risposta a bisogni umani che a loro volta non possono essere automatizzati; dunque, quanto più cresce l’automazione, tanto più le macchine diventano dipendenti dagli umani.

Che cosa è il webfare?

Lo scambio tra piattaforme e utente non è equo. Rispetto agli utenti, le piattaforme ottengono non solo dati, ma metadati (accesso alla docusfera); documenti proprietari (accumulo primario); documenti capitalizzabili (interpretabili, sfruttabili, vendibili). Per questo propongo di concettualizzare la mobilitazione registrata come produzione di valore, come un enorme lavoro invisibile compiuto da bambini e da anziani, da occupati e disoccupati; di riconoscere l’asimmetria dello scambio tra utenti e piattaforme (queste ultime raccolgono molti più dati, ne divengono proprietarie, possono confrontarle con i dati di moltissimi altri utenti, possono venderli come qualunque altra merce).

Consumo

Da sempre le macchine producono molto più e molto meglio degli umani, ma c’è qualcosa in cui non potranno mai surrogarli, ed è il consumo. Nel momento in cui non abbiamo più bisogno di essere le protesi delle macchine, si creano due condizioni: da una parte ci si domanda che cosa si può fare di noi, di noi che ora abbiamo perso quello senso della vita che derivava dal fatto di eseguire un lavoro. Bene, occorre comprendere che noi, tutta l’umanità – bambini, anziani, disoccupati, altrimenti occupati – produciamo valore sopra il web perché per la prima volta nella storia del mondo il consumo viene sistematicamente registrato e quindi trasformato in valore attraverso un processo di capitalizzazione. Il che, detto di passaggio, suggerisce che il capitale non nasce con l’industria, ma molto prima e finirà chissà quando, certo non oggi né domani, e nulla lo identifica necessariamente con lo sfruttamento, né con la proprietà privata. Il problema non è combattere il capitale, bensì comprenderne la vera natura, che non è quella del semplice accumulo primario, bensì di una trasmissione, potenziamento, trasformazione, socializzazione, che ha alla propria origine non l’avidità, bensì il bisogno e il consumo.

Si avvicina l’epoca in cui ogni umano sarà tenuto a mobilitarsi come umano, non come attrezzo o come riserva di energia. Ora, “agire come umano” significa manifestare dei desideri ed esercitare dei consumi, che sono l’unica cosa che non potrà mai essere automatizzata. Posso automatizzare la produzione, e questo è indubbiamente intelligente; posso automatizzare la distribuzione, e anche questo è molto intelligente. Ma non c’è niente di più insensato dell’automatizzare i desideri e i consumi, giacché lo scopo e il senso di produzione e distribuzione consistono proprio nel soddisfare desideri e consumi. Posso utilmente concepire una macchina per la produzione e la distribuzione di un qualsiasi bene, ma concepire una macchina finalizzata esclusivamente al consumo di un bene, senza ricavarne benefici per degli utenti umani, è folle. Lo si capisce già considerando che le automobili sono macchine che per funzionare richiedono carburante, ma che sarebbero macchine perfettamente inutili se non rispondessero al bisogno umano di andare, per esempio, al ristorante. Se poi al ristorante trovassimo delle macchine per mangiare al nostro posto, l’unica sarebbe cambiare ristorante, e senza rimpianto perché il proprietario e il cuoco non sembrano essere nel pieno possesso delle loro facoltà. Perciò, sostenere che aziende pienamente automatizzate potrebbero fare a meno degli umani anche consumatori è un non senso[40], e una singolare mancanza di riflessione. Il consumo non va confuso con il “lavoro del consumatore”, del prosumer che surroga delle funzioni in precedenza svolte da prestatori d’opera umani. È qualcosa di radicalmente differente, e si riferisce alla produzione di capitale attraverso il semplice consumo, senza surrogare funzioni che sono rimpiazzare dalla automazione[41].

Originariamente puro sperpero definibile come “lavoro a domicilio” solo nella misura in cui si voleva polemicamente indicarne il carattere inane[42], oggi la mobilitazione in quanto manifestazione del bisogno e del consumo può essere capitalizzata e poi destinata a compiti diversi. In primo luogo, ed è l’aspetto su cui ho insistito maggiormente, la capitalizzazione della mobilitazione può essere sfruttata per l’automazione, cioè per l’abilitazione di macchine alla riproduzione di forme di vita umane. In secondo luogo, può servire per ragioni di conoscenza, ma, si badi bene, non dell’individuale e dell’eccezionale bensì del collettivo e del regolare, ciò che veramente importa tanto per una distribuzione efficace quanto per la programmazione di una campagna elettorale vincente. In terzo luogo, il capitale documentale può essere monetizzato, ossia venduto e comprato come qualsiasi altra merce; e, anche in questo caso, è poco plausibile che questi investimenti si facciano per acquisire una conoscenza dell’individuale. Ci sono buoni motivi per dubitare che Trump si sarebbe rivolto a Cambridge Analytica per conoscere gli orientamenti elettorali di Hillary Clinton (quelli non richiedevano indagini di sorta) o di qualunque altro singolo cittadino americano; ciò di cui aveva bisogno erano grandi numeri e regolarità.

La capitalizzazione è il presupposto della valorizzazione. La registrazione come funzione meccanica genera il sistema; il consumo, come funzione organica, produce il valore. Questa produzione di valore, riallacciandoci a quanto detto a proposito delle forme di vita umana, consiste tanto in una produzione primaria, in cui l’umano definisce che cosa è un bene, quanto in una produzione secondaria, nella quale l’umano, mobilitandosi, informa l’automazione della produzione. In questo senso, il consumo può essere considerato un lavoro allo stesso titolo della produzione, e anzi venir considerato come una produzione di ordine superiore, cioè come una produzione di valori, perché da sempre è il produttore del valore d’uso (senza consumatori non ci sarebbe valore in generale) ed è divenuto oggi, grazie alla registrazione generalizzata sul web, il produttore del valore di scambio (automazione, distribuzione, pubblicità).

È questo mondo che muove la macchina, il Web, che senza le nostre pulsioni si fermerebbe degradandosi in un attimo, e l’essenza della biosfera, del mondo della vita umana in quanto è costantemente impegnata in una lotta perdente contro la morte, è proprio il consumo. Si può certo sostenere che ridurre il lavoro al consumo di energie biologiche[43] evoca un biologismo sospetto, ma questo è tutt’altro che ovvio o necessario. Il consumo non è necessariamente consumismo, né è semplicemente “cianciare delle porcate mangiate in strada nelle ore sbagliate” come cantava De André, ma anche leggere, educarsi, godere dei piaceri dello spirito.

Quanto alla distinzione tra bisogni reali e fittizi che sta alla base della condanna moralistica del consumistmo, non credo che l’industria alimenti dei bisogni fittizi più di quanto lo facciano la scuola, la famiglia, la religione, la filosofia. Il bisogno di arte, di cultura o di sentirsi benedetti da Dio o ancora di sapere se il mondo sia finito o infinito non è né più reale né più fittizio del desiderio di avere un rasoio a sette lame. Gli animali umani si distinguono dagli animali non umani proprio per l’indiscernibilità della differenza tra bisogno e desiderio. Una volta che un leone ha mangiato, si ferma lì. Una volta che un bambino del sud globale riesce a non morire di fame, vorrà giocare, e poi farà tante altre cose, entrare in una gang giovanile perché ha bisogno di riconoscimento o diventare un premio Nobel sempre per lo stesso desiderio (meglio la seconda).

Troppo spesso considerato come il fardello dell’uomo bianco e capitalista, il consumo è dunque il destino dell’homo sapiens, è fare ciò che non è alla portata di una macchina, ossia crescere umanamente consumando libri ed educazione, deliberare politicamente come i senatori romani che godevano dell’automazione perfetta ma inumana della schiavitù. Quanto dire che, proprio come la libido, il consumo si manifesta attraverso trasformazioni e sublimazioni, che sono il desiderio, la volontà, l’intenzionalità, la cultura e, in breve, tutto quello che, così oscuramente, chiamiamo “mondo dello spirito”.

Riconoscimento

Si pensi al lavoro sociale affettivo[44], emozionale[45] o addirittura etico[46] che comportano i like, da cui si inferiscono informazioni cruciali per il valore dei contenuti online, per cui ogni partecipazione a una comunità online è un “lavoro sociale in rete”[47]. Riusciamo a concepire una capitalizzazione più redditizia, per tutti, di questa sublimazione per cui il consumo si trasforma in spirito? Ora, è proprio lì che deve condurci la nostra rilettura della rivoluzione in corso. Nel momento in cui l’umano non costituisce più l’appendice di un apparato tecnico che ormai può prescindere dal suo apporto, fatto di fatica e di noia, l’umano non scompare dall’orizzonte economico, ma si manifesta nella sua funzione essenziale, che nessuna macchina potrà mai surrogare. Il suo lavoro diventa il lavoro dello spirito, che non è comporre versi o concepire dottrine sublimi (questo si può anche fare, ma non possono farlo tutti né tutto il giorno), bensì nel consumare, sotto la spinta dei bisogni organici e delle loro metamorfosi sociali; nel manifestare interessi, desideri, anche follie e rivalità, l’enorme varietà della forma di vita umana che resta assolutamente impermeabile e incomprensibile a una macchina; e nel dispiegare, così, l’ambito della biosfera che costituisce la ragion d’essere della docusfera (non ci sarebbero atti se non ci fossero organismi viventi inseriti in un contesto sociale) e dell’infosfera, ossia della punta emersa dell’iceberg che costituisce però di fatto qualcosa di accessibile a pochi, coloro che posseggono i mezzi di registrazione e di interpretazione, ossia le piattaforme.

Malgrado le apparenze, questa non è una situazione inedita. Quasi due secoli fa la pittura si è trovata in una situazione simile nel momento in cui la riproduzione realistica è stata automatizzata dalla fotografia[48], e l’ha risolta brillantemente con diverse strategie, che si riassumono tutte nella valorizzazione dell’apporto non più a livello di produzione, ma di concettualizzazione e di fruizione. Non ho difficoltà a pensare non solo che un automa non si limiti a riprodurre il reale, come avviene nella fotografia, ma a concepire un’opera d’arte alla maniera di Rubens[49]. Quello che non posso concepire è una macchina che possieda l’individualità necessaria per generare la maniera di Rubens, e, ancor più, una macchina capace di provare piacere estetico di fronte a un Rubens. È avendo in mente questa circostanza che si tratta di procedere a una riconcettualizzazione del lavoro. Nell’arte, la via prevalente per l’identificazione dell’artistico, non più identificato con il prodotto manualmente e con il bello, è stata per l’appunto concentrarsi sul ruolo del consumo, ossia sul giudizio di “artisticità” attribuito all’opera da fruitori competenti definiti come “mondo dell’arte”.

Analogamente, partendo non più dal polo della produzione bensì da quello del consumo, è possibile concepire il lavoro al di là delle opposizioni tradizionali (gioco/lavoro, riposo/fatica, piacere/dovere, otium/negotium). Non più appendice della macchina in processi produttivi, l’uomo lavora in quanto umano, ossia anzitutto in quanto portatore di bisogni, ossia di ciò che una macchina non avrà mai; di scopi, perché una macchina va anche su Marte, ma solo se glielo chiediamo noi; e di interessi, perché siamo noi a decidere se una macchina serve o no. Il punto non è tanto essere riconosciuti come persone (lo siamo); è essere riconosciuti come produttori di valore, cioè come lavoratori. Questo non può aver luogo, come ogni riconoscimento, senza una lotta, che però non deve concepirsi nelle modalità della lotta di classe, essendo venuta meno proprio la classe.

In questo senso, le vecchie strategie di lotta politica perdono efficacia. Parlare di Internet come di un bene comune[50], quando è un bene di stato in Cina e un bene privato nel resto del mondo, è, semplicemente, negare l’evidenza. Soprattutto, non si tratta di uscire dalle logiche del capitale[51], ma proprio al contrario di sfruttarne tutte le possibilità ancora inesplorate.  La via d’uscita non è dietro di noi, ma davanti a noi, e non consiste nel restaurare una qualche morale spartachista tratta dalla lotta di classe, che è una esperienza conclusasi insieme al ciclo produttivo che l’aveva resa possibile. Bisognerebbe invece pensare al momento attuale non come una fase terminale del ciclo rivoluzionario iniziato con il 1789, ma come un’epoca nuova, simile a quella che dall’anarchia feudale portò alla genesi dello Stato sovrano. Nell’esempio storico a noi noto il re chiamò a Versailles i feudatari, e li rese propri dipendenti; in quello che dobbiamo progettare, l’Unione Europea dovrebbe subordinare ai fini superiori del bene comune i nuovi duchi e baroni, ossia le piattaforme, tassandone il plusvalore, frutto del lavoro dell’intera umanità, e ridistribuendolo in termini di welfare.

Se le piattaforme realizzano vantaggi così strepitosi è semplicemente perché sono fabbriche che dispongono di un numero immenso di operai non retribuiti. Sarebbe assurdo che gli operai si lamentassero di una qualche alienazione di sorta, visto che l’accesso al web è volontario e soddisfa dei bisogni. Ma occorre non dimenticare che senza quei bisogni le piattaforme morirebbero nello spazio di un mattino. Tassare le piattaforme, si è osservato, rischia di far ricadere i costi sugli utenti[52] – Ma sinceramente dei servizi impostati sul gratis difficilmente possono trasformarsi in servizi a pagamento. Dunque, ci sono molte ragioni che militano a vantaggio della tassazione[53] finalizzata alla produzione di un reddito universale[54]. Io sono favorevole invece a un Webfare, per ragioni che cercherò di spiegare. Sostenere che il compenso del lavoro in rete è già garantito dalla gratuità dei servizi[55] è nascondersi l’evidenza del plusvalore documediale[56]. Alcune aziende offrono già delle ricompense, come per esempio “You Tube Heroes”, che ricompensa chi segnala video inappropriati, Microsoft promuove il suo motore di ricerca Bing con buoni d’acquisto in film e musica per gli utenti, e la spagnola Telefónica si propone di ricompensare gli utenti per l’acquisizione dei loro dati[57] (che però, osservo, è più una cessione che non un lavoro: anche questo è un punto che va approfondito). Così come, inversamente, i servizi del corrispettivo canadese di Amazon sono più cari perché non si serve dei dati degli utenti.

Libertà

C’è un diritto naturale a una vita senza connessione, che del resto sta per entrare nel diritto positivo[58]? Ne dubito. E in particolare ho il sospetto che, per esempio, la pandemia e le misure di controllo che comporta dimostri l’insostenibilità di questo diritto, che del resto si fonda sulla grande chimera del diritto naturale e del suo presupposto, un umano che ha dei diritti in natura, a prescindere dalla tecnica e dalla società, quando in effetti questi diritti gli derivano retroattivamente grazie alla tecnica e alla società. Da questo punto di vista, mi sembra debole e problematica la proposta di un “reddito sociale digitale[59] (dato il suo presupposto giusnaturalista, perché non parlare di “reddito sociale” tout court?). Si tratta di definire un reddito contributivo[60], ma su che basi? Quelle del lavoro “sociale”[61]? È un po’ debole, e manca l’essenziale, proprio perché non è un lavoro sociale, ma un rapporto tra il singolo e le piattaforme.

Da questo punto di vista, l’idea, di base giusnaturalistica, di un reddito universale, di cittadinanza o di inclusione, non appare fondata, giacché non si capisce perché si debba pagare una natura umana in quanto tale, ossia in quanto incapace di progredire. Proponendo un webfare non sono un giusnaturalista a mia insaputa, perché non credo esista una natura umana, e dunque dei diritti a essa connessi. Non penso che l’umano sia per natura libero e che dunque vada remunerato per una perdita di libertà che in effetti non ha luogo mancando di presupposti. Penso che l’umano possa diventare libero attraverso il suo rapporto con la tecnica, e che questo lavoro dello spirito meriti di essere retribuito non per ragioni legate ai diritti dell’uomo, bensì per via del valore prodotto.

Cambiamo prospettiva. È ovvio che la mobilitazione va retribuita, anche se non è chiaro se si tratta di una cessione di proprietà o di un lavoro. Io propendo per la seconda dal momento che buona parte di questi dati non preesistevano all’incontro con la piattaforma (il che rende dubbia la legittimità della richiesta di una proprietà libera dei dati a cui farebbe seguito una vendita[62]), e che c’è voluta una mobilitazione umana per determinare quell’incontro. Il “salario a vita”[63] va dunque concepito come un salario per la vita, come un salario di mobilitazione, ossia, se vogliamo, di sopravvivenza non perché sia finalizzato a farci sopravvivere, ma perché il valore è frutto della nostra sopravvivenza. Finché ci saranno umani ci sarà produzione di valore, che oggi è l’enorme lavoro invisibile che l’umanità esercita connettendosi al web, e arricchendo le piattaforme invece che sé stessa, semplicemente perché non è consapevole di lavorare.  Di qui la proposta politica: invece che sognare tasse sui patrimoni o biasimare le piattaforme per la loro ricchezza (è ovvio che una fabbrica che non paga i propri operai non può che arricchirsi) cerchiamo di ridistribuirla attraverso una tassazione equa, avviando un welfare, anzi un webfare, digitale di cui il web ha posto le possibilità e la pandemia ha accelerato il processo.

A poco serve rilanciare puramente e semplicemente Keynes o proporre (a chi?) un nuovo patto sociale. Quello che si può fare, però, è avviarne uno completamente nuovo. Quale? C’è un punto che il vecchio welfare non poteva vedere, su cui si basa il welfare del futuro. Novant’anni fa Keynes vaticinava che oggi l’automazione avrebbe reso sufficienti quindici ore di lavoro settimanale, e che si doveva pensare a come occupare quella enorme quantità di tempo libero.  La profezia si è realizzata in modo singolare, perché molti non lavorano affatto, visto che l’automazione gli ha tolto il lavoro, ma sono impegnati per quindici ore al giorno, sul computer, dove producono valore. Da dove deriva quel sentimento di iperoccupazione anche quando non siamo al lavoro o quando siamo disoccupati?  Perché le macchine hanno bisogno proprio di quell’essere umani che per Keynes era l’altro rispetto al lavoro. Se vogliamo evitare che gli umani lottino inconsapevolmente per la loro disoccupazione alimentando l’intelligenza artificiale, è necessaria una riconcettualizzazione del lavoro.

Il lavoro dell’homo faber merita di essere rimpianto solo se non si considera che la sua fine decreta l’universalizzazione del solo lavoro degno di un umano, il lavoro dello spirito, il lavoro dell’homo sapiens, la manifestazione della libertà invece che della necessità. E che, in modo non troppo sorprendente, si manifesta anche come scomparsa del “tempo libero”, come fine della domenica della vita, che si manifesta come venir meno della differenza fra tempo del lavoro e tempo della vita. Si può ovviamente vedere in questo, e non senza ragione, una forma di alienazione (smart working, disseminazione del lavoro). Per sostenerlo, tuttavia, si deve dimostrare, e non è per niente facile, che il lavoro non smart, con pendolarismo, orari fissi e via discorrendo è preferibile. Soprattutto, quello a cui bisogna prestare attenzione è il fatto che l’umano diviene interessante in quanto generatore di un lavoro dello spirito, perché ciò che interessa e costituisce il principio della capitalizzazione del consumo è per l’appunto la forma di vita umana.

Nel 1919, all’indomani di una crisi rispetto alla quale la nostra è risibile, Keynes scrisse Le conseguenze economiche della pace, in cui, non ascoltato, metteva in guardia contro la durezza delle condizioni imposte agli sconfitti, ma poneva le basi per il piano Marshall. Oggi sarei felice se un Keynes redivivo scrivesse Le conseguenze economiche della libertà. Molti sostengono che la partita con la Cina, che ha nazionalizzato le piattaforme realizzando il welfare ma insieme instaurando il più perfetto stato di sorveglianza della storia, sarà il prossimo impero mondiale. Ne dubito. Lo spirito è per definizione libero, senza per questo essere necessariamente saggio, buono, o intelligente. E se la libertà è un ostacolo per l’economia pianificata, nell’economia di piattaforma non c’è nulla di più redditizio della libertà, in quanto espressione delle infinite e spesso irrazionali forme di vita umana, e la convenienza è tanto più grande quanto la libertà è autentica, ossia è libera dal pregiudizio e dal controllo. Ecco perché l’economia di piattaforma è nata negli Stati Uniti, e la Cina si è limitata a razionalizzarla.

All’Europa, se ne sarà capace, può toccare il compito di trasformarla in una proposta di welfare liberale. Per farlo, occorre ripensare il liberalismo nel suo rapporto non con il “liberismo” (una sentina di tutti i vizi e un refugium pecatorum a cui è difficile dare una fisionomia precisa) bensì con la libertà in quanto concetto definitorio del divenire della natura umana, e con la liberalità in quanto concetto guida delle arti liberali e della educazione umanistica. Certo, dal legno storto dell’umanità non si può ricavare alcunché di perfettamente diritto, ma l’umano è il solo animale che può essere educato. Se insegno a un cavallo a fare evoluzioni in un circo, lo trasformo in un pagliaccio; se e insegno a un bambino a leggere, a scrivere, a rispettare il prossimo e a conoscere il mondo gli offro molto di più che se gli insegno a cucire palloni, nel momento in cui una macchina può farlo. Il concetto di “umanità digitale”, in questo senso, viene a ricoprire tanto le discipline umanistiche nella nuova configurazione ottenuta con il digitale, quanto l’umanità in quanto, attraverso il digitale, non trapassa nel post-umano, ma si avvicina, con un processo indefinito, alla sua vera essenza.

Note

[1] M. Ferraris, From Capital to Documediality, in A. Romele ed E. Terrone (a cura di), Towards a Philosophy of Digital Media, a cura di A. Romele ed E. Terrone, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2018.

[2] F. Nietzsche,  Al di là del bene e del male (1886), trad. it. Adelphi, Milano 1990.

[3] J. M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930), trad. it. Nuova Editrice Berti, Parma 2016.

[4] A. Gorz, Metamorfosi del lavoro: critica della ragione economica (1988) tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992; Id. L’immateriale: conoscenza, valore, capitale (2003), tr. it. ibid. 2003.

[5] D. M. West, “What Happens if Robots Take Jobs? The Impact of Emerging Technologies on Employment and Public Policy”, https://www.brookings.edu/wp- content/uploads/2016/06/robotwork.pdf.

[6] Così per esempio nel romanzo di Kurt Vonnegut (influenzato dalla sua esperienza alla IBM) Piano meccanico (Player Piano, 1952), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004.

[7] P. Van Parijs, Real freedom for all, what (if anything) can justify capitalism Oxford, Clarendon Press  1995. Id., Van Parijs, “Basic Income: A Simple and Powerful Idea for the 21st Century”, 2001, https://www.ssc.wisc.edu/soc/faculty/pages/wright/RUP-vol-V.pdf#page=6. Accessed 31 January 2019.

[8] J. Rifkin, La fine dell’età del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento del post-mercato (1995), trad. it. Baldini &Castoldi, Milano 1995.

[9] World Economic Forum (2013), “Personal Data: The Emergence of a New Asset Class” (http://www.weforum.org/reports/personal-data-emergence-newasset-class).

[10] A. Casilli e D. Cardon, Qu’est-ce que le Digital Labor?, INA, Paris 2015.

[11]  Probabilmente la frase non è sua (https://www.smithsonianmag.com/smart-news/andy-warhol-probably-never-said-his-celebrated-fame-line-180950456/#:~:text=%22In%20the%20future%2C%20everyone%20will,will%20almost%20always%20be%20fleeting.). Quello che è certo è che fu associata precocemente al suo nome, come motto della mostra a lui dedicata dal Moderna Museet di Stoccolma nel 1968.

[12] P.-M. Menger, Portrait de l’artiste en travailleur. Métamorphoses du capitalisme, Seuil, Paris 2003. La condizione del lavoratore ora è come quella che è sempre stata dell’artista. Cfr. anche R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa (2002), trad. it. Mondadori, Milano 2003.

[13] Ma, ovviamente, non è così. Stando a un’autorevole rivista (https://www.wired.it/economia/lavoro/2019/07/22/lavori-creativi/?refresh_ce=), i dieci lavori creativi più richiesti nel 2019 erano  accessories designer, jewelry designer, videomaker, graphic designer, illustratore, copywriter, art director, digital and content strategist, set designer, user experience/interface designer. Se di colpo l’umanità dovesse dedicarsi esclusivamente a questi lavori, si candiderebbe all’estinzione.

[14] P. Tubaro e A. Casilli, Micro-work, artificial intelligence and the automotive industry, Journal of Industrial and Business Economics, 46(3), 2019.

[15] M. Peri La régulation de l’ubérisation, Affaires, Civil, Dalloz IP/IT, Paris 2017.

[16] A. Casilli e J. Posada Gutiérrez, “The Platformization Of Labor and Society”, in M. Graham e W. H. Dutton (a c. di), Society and the Internet; How Networks of Information and Communication are Changing Our Lives, Oxford, OUP 2019.

[17] E. Jünger, L’operaio: dominio e forma (1932), trad. it. Longanesi, Milano 1984 e E. Jünger La mobilitazione totale (1932), trad. it. in Id., Scritti politici e di guerra 1919-1933, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005. Per una discussione e attualizzazione, cfr. M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, Roma-Bari 2015.

[18] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 401.

[19] C. Vercellone, Les plateformes de la gratuité marchande et la controverse autour du Free Digital Labor : une nouvelle forme d’exploitation?, Open Journal in Information Systems Engineering, ISTE, Vol. 1, (N. 2), 2020.

[20] A. Cukier, Qu’est-ce que le travail, Vrin, Paris 2018, p. 32.

[21] Ho sviluppato questo punto in M. Ferraris, Post-coronial studies, Einaudi, Torino 2021

[22] J. Suzman, Lavoro: una storia culturale e sociale (2020), trad. it. il Saggiatore, Milano 2021.

[23] Tubaro, Casilli e Coville, “The trainer, the verifier, the imitator: 3 ways in which human platform workers support artificial intelligence”, Big Data & Society, 2020.

[24] S. Broca, Le digital labour, extension infinie ou fin du travail?, Tracés.2017.

[25] Cfr. K. Marx, Frammento sulle macchine, trad. it. in Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 387-411.

[26] A. Casilli e S. Bouquin, “Il n’y a pas d’automatisation sans micro-travail humain”, Les Mondes du Travail, 24-25, 2020.

[27] D. Graeber, Les bullshit jobs, Les Liens qui libèrent, Paris 2018.

[28] F. Engels, K. Marx, L’ideologia tedesca (1845), trad. it., Editori Riuniti, Roma 2000, p. 24.

[29] D.W. Smythe, “Communications: Blindspot of Western Marxism”, Canadian Journal of Political and Society Theory, 1 (3), 1977.

[30] C. Fuchs,“Labor in informational capitalism and on the Internet”, The  Information Society, 26, (3), 179-196, 2010.

[31] A. Caliandro, “Une utilisation du consommateur internaute au-delà des communautés de marque: le travail effectif des consommateurs ordinaires sur les réseaux sociaux”, Sciences de la société, 82, 2011.

[32] B. Bachimont, Between Formats and Data: When Communication Becomes Recording, in Towards a Philosophy of Digital Media, cit.

[33] Il conio si deve a A. Toffler, La terza ondata (1980), trad. it. Sperling & Kupfer, Milano 1987 e che si ritrova, nove anni dopo, nel romanzo di fantascienza Hyperion di Dan Simmons. Cfr. ora L. Floridi, Infosfera. Etica e filosofia nell’età dell’informazione, Giappichelli, Torino 2009.

[34] Di qui la falsa concezione del “capitalismo di sorveglianza”, paradigmaticamente in S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (2019), trad. it. Luiss University Press, Roma 2019

[35] B. Bachimont, Patrimoine et numérique: Technique et politique de la mémoire, Institut National de l’Audiovisuel, Bry-sur-Marne 2017.

[36] J. Gabaret, Le mythe des données: les usagers du web qui alimentent les algorithms peuvent-ils reclamer un statut de travailleur salarié?, ms., 2021.

[37] N N. Srnicek, A. Williams, Manifesto accelerazionista (2013), trad. it., Laterza, Bari-Roma 2018; Idd., Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro (2016), trad. it., Nero Editions, Roma 2018.

[38] C. Vercellone, Les plateformes de la gratuité marchande et la controverse autour du Free Digital Labor: une nouvelle forme d’exploitation?, Open Journal in Information Systems Engineering, ISTE, Vol. 1, (N. 2), 2020.

[39] S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1975.

[40] Di qui il carattere sconcertante della frase che segue: “Non è per nulla chiaro se l’economia del futuro avrà bisogno di noi persino come consumatori. Le macchine potrebbero svolgere pure quel ruolo. In teoria, si può avere un’economia in cui un’azienda mineraria vende ferro a un’azienda che produce robot, l’azienda robotica produce e vende robot all’azienda mineraria, che estrae ancora più ferro, che è utilizzato per produrre ancora più robot, e così via. Queste aziende possono crescere ed espandersi fino ai più remoti anfratti della galassia, e tutto quello di cui hanno bisogno sono robot e computer – addirittura non necessitano degli umani neppure per comprare i loro prodotti” (Y.N. Harari, 21 lezioni per il XXI secolo (2018), trad. it. Bompiani, Milano 2018, p. 51).

[41] M. A. Dujarier, Le Travail du consommateur, La Découverte, Paris 2014.

[42] Sulla definizione polemica del consumo come lavoro a domicilio cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato (1956), tr. it. Torino, Bollati Boringhieri 2003.

[43] A. Rabinbach, Le Moteur humain. L’énergie, la fatigue et les origines de la modernité, La fabrique, Paris 2004

[44] A. Casilli, “Digital affective labor: les affects comme ressorts du capitalisme des plateformes”, prefazione a J.P. Alloinge, Le web affectif. Une économie numérique des émotions, Éditions de l’INA, Paris 2017.

[45] C. Dellarocas, “The Digitization of Word-of-Mouth: Promise and Challenges of Online Reputation Systems”, Management Science, 49 (10), 2003.

[46] G. Coleman, Three Ethical Moments in Debian, Center for Critical Analysis, Rutgers University 2008.

[47] A. Casilli Schiavi del clic (2019), trad. it..Feltrinelli, Milano 2020.

[48] M. Ferraris, From Fountain to Moleskine: The Work of Art in the Age of Its Technological Producibility, Brill, Leiden 2019.

[49] Cfr. le analisi di G. M. Ajani, Contemporary Artificial Art and the Law: Searching for an Author, Brill, Leiden 2020.

[50] P. Aigrain, Cause commune: l’information entre bien commun et propriété, Fayard, Paris 2005

[51] C. Vercellone, “La nouvelle articulation salaire, profit, rente dans le capitalisme cognitive”, European Journal of Economic and Social Systems, 20 (1), 2007.

[52]  A. Casilli e S. Bouquin, “Il n’y a pas d’automatisation sans micro-travail humain”, Les Mondes du Travail, 24-25, 2020.

[53] A. Casilli, “La plateformisation comme mise au travail des usagers. Digital labor et nouvelles inégalités planétaires”, in Coriat, Bancel e Sultan, a c. di, Vers une République des Biens Communs?, Paris, Les Liens qui Libèrent, Paris 2018.

[54] A. Lehdonvitra et al., Data Financing for Global Good: A Feasibility Study, Oxford Internet Institute, 2016.

[55] J. Tirole, Économie du bien commun, Paris, PUF, Paris 2018.

[56] M. Ferraris, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Roma-Bari 2021.

[57] A. Casilli, “La plateformisation comme mise au travail des usagers. Digital labor et nouvelles inégalités planétaires”, cit.

[58] A. Schott, Connexion raisonnée : droit à la déconnexion et autres responsabilités. Le cheminement d’un délibéré d’une PME girondine, Vie & sciences de l’entreprise, 2(2), 2019.

[59] A. Casilli, Schiavi del clic, cit.

[60] B. Stiegler e A. Kyrou (2016), Le revenu contributif et le revenu universel, Multitudes, 2(2), 2016. 51-58.

[61] B. Stiegler, La Société automatique, 1. L’avenir du travail, Fayard, Paris 2015.

[62] Génération Libre, “Rapport: Mes datas sont à moi. Pour une patrimonialité des données personnelles”, online, 2018.

[63] B. Friot, L’Enjeu du salaire, La Dispute, Paris 2012.

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