La grande trasformazione tecnologica e sociale in corso da pochi anni, comportando la crescente produzione di documenti relativi non solo ai nostri pensieri, ma ai nostri atti e alla nostra vita, ha permesso di trasformare il semplice vivere in valore non solo politico ma economico.
Si tratta di un patrimonio del tutto nuovo, sorto grazie al fatto che il web è registrazione prima che comunicazione, valorizzando la caratteristica saliente del digitale rispetto all’analogico.
In quest’ultimo l’informazione è comunicata e può successivamente essere registrata (il che però non avviene quasi mai). Nel digitale, invece, la registrazione dell’azione precede e rende possibile l’informazione e la comunicazione, ciò che produce una crescita senza precedenti dell’archivio delle attività umane.
Webfare e libertà, se il “consumo” produce valore: ecco come e perché ricompensarlo
Dai nostri dati, nuova ricchezza da redistribuire
Sorge così un capitale la cui materia è costituita dalla registrazione di tutte le forme di vita dell’umanità. Questo nuovo e imprevisto capitale, e non quello finanziario, è il capitale del XXI secolo. E visto che “capitale” non piace, perché associamo questo nome alle vicende di una forma peculiare di capitalismo, che privilegiava l’individuo e vedeva nella ricchezza il premio e il segno del favore divino, lo chiamo “patrimonio dell’umanità”.
Si tratta di un patrimonio che vale tanto più quanti più sono gli umani che lo condividono, e che premia non l’ascesi, il lavoro e l’egoismo, in una partita in cui i vincitori sono necessariamente pochi, ma il bisogno, il desiderio, la curiosità, ciò che porta l’umanità intera sul Web. Il patrimonio dell’umanità crea così una ricchezza che viene da tutti e deve tornare a tutti in termini di cultura, e, a chi ha bisogno (per esempio ai tanti che perdono il lavoro a causa dell’automazione ma producono valore sul web) in termini di sostegno per la crescita.
Se è a dir poco contestabile che “là dove è il pericolo nasce anche ciò che salva”, come scriveva Hölderlin (abbiamo infinite testimonianze di pericoli senza salvezza), nel caso specifico si direbbe che la risorsa giunge in buon punto. La riduzione dei posti di lavoro causata dalla crescente automazione, la distopia di una umanità diseredata e spaventata perché lasciata fuori dal corso del mondo, l’esperienza tutt’altro che distopica, ma effettiva, di una umanità che riesce a concepirsi soltanto come vittima di una tirannia biopolitica, e non come soggetto attivo della storia, impongono un cambio di passo. Per interrompere una spirale in cui il rischio è una competizione tra perdenti, tra le classi scontente dell’Occidente e le mitologie alternative dell’Eurasia e dell’Islam, è necessario un Webfare che sappia socializzare, anche per l’Occidente, l’enorme valore che l’umanità produce sul Web non solo attraverso una tassazione delle piattaforme, ma soprattutto con una capitalizzazione alternativa.
Perché il punto è proprio questo. Per ridurre la forbice tra chi ha tantissimo e chi ha pochissimo (sebbene abbia più che un tempo, sebbene questo, come è naturale e giusto, non sia una consolazione) non basta tassare equamente le piattaforme. Occorre elaborare una strategia di capitalizzazione alternativa dei dati prodotti dall’umanità, attivando dei corpi intermedi che (forti della legge europea che lo consente) chiedano alle piattaforme i dati dei loro consociati, li valorizzino e li rivendano (generando così un mercato), e li ridistribuiscano non a vantaggio dei loro consociati, ma a quella enorme parte di umanità che non ha soldi ma che produce dati.
In questa serie di interventi mi propongo di delineare la fisionomia e le vie di socializzazione del capitale digitale, e lo farò secondo le regole delle 5W del giornalismo americano:
- Where: come è fatto, davvero, il luogo generico di questo patrimonio, ossia il Web;
- Who: qual è il tipo umano che lo alimenta;
- What: quali sono le caratteristiche del nuovo capitale, che non abbiamo ancora concettualizzato;
- When: quali sono i tempi e le opzioni possibili (liberismo, comunismo, umanismo) per valorizzarlo in modo equo;
- Why: quali sono i motivi e i modi operativi che militano a favore della socializzazione. In questo primo intervento, a mo’ di preambolo, vorrei tracciare il quadro storico e concettuale soggiacente alla mia proposta.
Dalla tirannia della natura alla tirannia del merito
La natura non è democratica: gli umani nascono brutti o belli, stupidi o intelligenti. L’affermazione secondo cui gli umani sono tutti uguali è infinitamente meno credibile dell’affermazione secondo cui i castori sono tutti uguali, e solo una mente pericolosamente incline a confondere l’essere con il dover essere ha potuto sostenere che gli umani nascono uguali e che a renderli diversi è la società. Ma se è per questo ha sostenuto anche che gli umani nascono liberi e sono dovunque in catene, una tesi in cui la confusione tra fatto e diritto è, se mai, ancora più acuta. La società, ben più che dall’avidità dei pochi, nasce dalla volontà di rimediare alle differenze di natura, e in parte ci riesce; purtroppo, in questo tentativo, determina una ingiustizia ancora più grande, quella tra avere e non avere.
Da quando l’agricoltura si è imposta nella “mezzaluna fertile”, l’umanità si è distinta tra i privilegiati che godono di una buona educazione e di beni che si trasmettono attraverso le generazioni e gli altri, quelli che non hanno niente. Si tratta di una delle più odiose, ingiuste e apparentemente insuperabili distinzioni che caratterizzano la condizione umana, cui – sinora – non si sono trovati che rimedi parziali (per esempio il fatto che il numero di analfabeti si stia vertiginosamente riducendo), quando non peggiori del male, come per esempio sostituire l’iniqua suddivisione delle ricchezze con una suddivisione della povertà implacabilmente equa, che costituisce il risultato più manifesto del comunismo del XX secolo, sebbene non costituisca più il caso del comunismo del XXI secolo, il cui problema non è la povertà (la Cina si sta sviluppano in modo vertiginoso) ma la libertà (le piattaforme, nazionalizzate, sono strumenti di sviluppo, ma anche implacabili strumenti di controllo).
La risposta tradizionale alla ingiustizia sociale è la naturalizzazione: generi, razze, caste non sono un costrutto sociale ma naturale, quando non il frutto di un disegno divino. Nessuno di noi accetterebbe più questa soluzione; o, meglio, nessuno di noi la accetterebbe formalmente e in linea di principio, sebbene nella vita di ognuno di noi ci siano esperienze di dominanza o di subalternità, così come nessuno si stupisce, in realtà, dell’esistenza, nel sud del mondo così come nel cortile dietro casa nostra di coloro che, così esattamente, si chiamano “diseredati”. E se accettiamo di fatto ciò che rifiutiamo di diritto è perché il diritto non è ancora riuscito a correggere il fatto. I filosofi, ovviamente, hanno escogitato un gran numero di metafisiche dei costumi e teorie della giustizia che dovrebbero, con la loro semplice evidenza o con la loro sublime eloquenza, accompagnata dalla buona volontà dei lettori, cambiare l’ordine del mondo. In mancanza di risorse materiali capaci di alimentare le loro idee, si sono però limitati a confermare il detto di Talleyrand secondo cui è bene appigliarsi ai princìpi, dal momento che prima o poi cedono lasciandoci le mani libere.
Rimediare alla naturalizzazione dell’ingiustizia
Di certo, i movimenti rivoluzionari hanno cercato di rimediare alla naturalizzazione dell’ingiustizia, ma sovente i rimedi si sono rivelati peggiori del male. Nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Edmund Burke, commentando a caldo i fatti del 1789, osservava che la Rivoluzione francese aveva escogitato tanti e bizzarri motivi per giustificare la detenzione del potere sovrano, compresa “la volontà generale” (che sarà mai? Probabilmente una parente stretta del “comune senso del pudore”), che facevano rimpiangere il motivo per cui in Inghilterra un re fonda il proprio diritto di regnare, e cioè che suo papà era re. Sembra (ed è) una tirata reazionaria; ma mezzo secolo dopo e da tutt’altra fonte, Honoré de Balzac, in Il curato di campagna, leggiamo pagine e pagine di critica della tecnocrazia della Ecole Polytechnique, descritta come una fabbrica di risentiti privi di solidarietà sociale perché convinti di dovere tutto al merito e al durissimo lavoro, e di conseguenza persuasi che il resto del mondo fosse meno meritevole, e pertanto artefice della propria sfortuna.
Lasciamo passare altri cent’anni e veniamo al 1958, anno di pubblicazione di The Rise of the Meritocracy del sociologo e politico inglese Michael Dunlop Young, che malgrado il titolo è una satira swiftiana della meritocrazia, accusata, a giusto titolo, di provocare egoismo e sufficienza in chi si crede meritevole perché gli è andata bene “grazie alle sue doti e ai suoi sforzi”; risentimento in cui, malgrado doti e sforzi, non ha avuto il successo che sperava; e frustrazione e odio sociale nei più, costretti a guardare da lontano, da lavoretti manuali e vite per niente smart, questa nobile gara. Il risultato è che se i membri dei ceti subalterni avevano tradizionalmente mille modi per giustificare la propria condizione – la malasorte, l’intrinseca iniquità sociale, la mancanza di educazione… –, la meritocrazia li sottopone a un giudizio infallibile: le classi subalterne si meritano di esserlo. Proponendo una uguaglianza formale a cui non si accompagna alcuna uguaglianza sostanziale (è ovvio, in particolare, che la carriera scolastica del figlio di un Pari d’Inghilterra, o anche semplicemente di un impiegato, gode di un vantaggio iniziale quasi incolmabile rispetto a quella di un figlio di immigrati) la meritocrazia diviene veicolo della peggiore delle ingiustizie, e la conferma della circostanza per cui la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.
L’inesplicabile rigurgito del populismo dei nostri giorni
Con un altro salto di mezzo secolo veniamo all’oggi, dopo la Brexit in Inghilterra, la presidenza Trump negli Stati Uniti, l’annunciata abolizione della povertà in Italia, il fiorire un po’ dovunque delle posizioni no Vax (tanto nell’ala movimentista quanto in quella armata di Dubbio e Precauzione, ossimorico tentativo di fornire una versione scientifica dell’alchimia e dell’astrologia), lo scontro elettorale tra Marine Le Pen e Macron in Francia e lo scontro militare tra Putin e il resto del mondo in Ucraina. Questo clima che solitamente si analizza come l’inesplicabile rigurgito del populismo è la reazione a quella che il filosofo Michael J. Sandel ha stigmatizzato come Tyranny of Merit.
Tutto si può dire dell’attuale Principe del Galles, ma non si può negare che sia consapevole in modo anche doloroso del carattere meramente ereditario del suo privilegio. Ciò che non il caso, tipicamente, dei presidenti democratici americani e dei leader laburisti britannici degli ultimi decenni, con un crescendo che, da Clinton (Bill e Hillary) a Blair culmina in Obama. Tutti governanti smart e inclini a circondarsi di tecnocrati e di PhD (li ha battuti solo la Merkel, con sette ministri su tredici muniti di dottorato, uno, però, copiato), e portati a predicare alle rispettive nazioni che il sistema è giusto, tanto è vero che loro sono al governo.
Non stupisce che, appena ne hanno modo, le nazioni in questione gli votino contro, soprattutto se (come incautamente hanno fatto gli inglesi con la Brexit e Renzi con la riforma costituzionale) si ricorre a un referendum. Sarebbe strano il contrario. Cosa diremmo di un Papa che dice di essere asceso al soglio grazie al duro lavoro e perché capace e meritevole? Sempre meglio invocare lo Spirito Santo, non si fa torto a nessuno, e soprattutto non ci si espone all’ovvia ritorsione per cui anche nella più meritocratica delle carriere i soldi, la famiglia e la fortuna contano, e che, visto che nessuno si può scegliere i propri genitori, non c’è alcun merito nel nascere belli, intelligenti, con la battuta pronta o con il senso degli affari. E gli altri? Si noti che la scarsità di risorse e il mancato riconoscimento sociale non investe solo l’ambito lavorativo, ma la persona tutta intera. E se il solito Rousseau poteva sostenere che la morale è la scienza sublime delle anime semplici, appare molto più veritiero il detto che Schopenhauer attribuisce con approvazione a un inglese di sua conoscenza: “Non sono abbastanza ricco per permettermi una coscienza”.
In questa apparente boutade, in questa ostentazione di cinismo, si compendia una intera agenda di progresso sociale: abilitare l’intera umanità, provvedendola di diritti non solo formali, ma sostanziali, al possesso di una coscienza.
Per farlo, bisogna abbandonare l’illusione di un uomo che nasce libero e si trova, non si capisce come, in catene, e di un uomo che nasce buono e si trova, anche qui inesplicabilmente, implicato in un’operazione di pulizia etnica. Non nasciamo pieni di bontà e altruismo, e può anche succedere che non ci si trovi mai nelle condizioni materiali e culturali per esercitare queste virtù. Dunque, è prima di tutto sulle condizioni che bisogna concentrarsi. Giacché l’animale umano, come ogni altro animale, non è naturalmente buono, o cattivo, e in questo non è diverso da qualunque altro animale; ma, diversamente da ogni altro animale (perché è l’unico che possa essere educato), deve essere messo nelle condizioni per potersi permettere una coscienza, e solo a quel punto potrà decidere se essere buono o cattivo. Queste condizioni non cadono dal cielo, e dipendono dalla distribuzione di valore. Diversamente da ciò che suggeriscono i nostalgici delle lucciole, o della frugalità dei cacciatori e raccoglitori, la povertà non produce virtù, ma sopraffazione e guerra. Ed è solo la crescita, economica, sociale e tecnologica, che può garantire queste condizioni.
Dalla produzione al consumo
Questa crescita c’è, si tratta di intercettarla, socializzarla, umanizzarla. Da pochissimi anni, infatti, si è determinata una condizione che potrà mitigare la tirannia del merito, non perché gli umani siano diventati migliori, ma perché le macchine sono diventate più efficienti. La crescita della automazione, in larga parte dipendente dalla intelligenza artificiale come registrazione delle forme di vita umana al fine di abilitare un automa ad agire come se avesse un’anima ha cambiato il mondo. Un millennial non potrebbe immaginare che trent’anni fa per esprimere le proprie idee, buone o cattive che fossero, bisognava possedere una televisione, una radio o un giornale. Ma questo è solo l’aspetto più manifesto, quasi chiassoso, e che ci distrae dall’essenziale; la vera rivoluzione apportata dal Web non è la possibilità di esprimere le proprie idee, giuste o sbagliate che siano (dunque, per semplice legge statistica, per lo più sbagliate), bensì il fatto che mentre le esprimiamo, o anche semplicemente mentre leggiamo, compriamo un biglietto, scorriamo dei post, camminiamo, cerchiamo un ristorante o un albergo, chiediamo una informazione al navigatore questi atti – tutti veri, a differenza delle nostre idee – vengono registrati. E una volta che lo sono possono venire confrontati con gli atti di milioni di altri umani, descrivendo non l’insincero cielo di quello che pensiamo o crediamo, ma la veritiera terra di quello che facciamo.
Il Web, così, è interessante proprio perché registra invece che limitarsi a comunicare o a informare, e questa registrazione sta alla base della produzione di algoritmi e di archivi che permettono l’automazione della produzione attraverso la mimesi delle forme di vita umana registrate sul Web; il perfezionamento della distribuzione attraverso la conoscenza analitica dei nostri bisogni e comportamenti; e la profilazione della realtà sociale riconoscendo le correlazioni tra consumi, inclinazioni politiche, predilezioni e predisposizioni di varia natura che, si badi bene, non riguardano gli individui, cognitivamente poco interessanti, bensì degli idealtipi.
Tutto avviene in uno spazio in cui ha luogo la commedia umana, o più esattamente il dramma (δρᾶμα cioè “azione”), dal momento che si tratta di tratta appunto di azioni, non necessariamente tragiche e non di rado comiche ma il più delle volte di per sé anodine: chiamare un taxi, prenotare una stanza, comprare in un supermercato, ordinare un libro. Di qui l’evidenza che incomincia a farsi strada attraverso questa ennesima rivelazione tecnologica: inutili come appendici di vanghe, di torni, di macchine per scrivere, gli umani sono insostituibili come appendici di coltelli e forchette, di cinema, di concerti, di romanzi, e ovviamente di tanti altri intrattenimenti meno commendevoli, ma esclusivamente umani. Scoprire questa circostanza e trarne le logiche conseguenze per il beneficio di pochi è stato il grande merito delle piattaforme commerciali; tocca a noi, adesso, trarne le conseguenze etiche per il beneficio dei molti.
L’enorme ricchezza del Web è frutto della mobilitazione dell’umanità
Il primo punto da mettere in chiaro, e si tratta di un punto capitale, è che l’enorme ricchezza del Web è frutto della mobilitazione dell’umanità. Si tratta di una situazione imprevista. Novant’anni fa, Keynes vaticinava che l’automazione avrebbe reso sufficienti quindici ore di lavoro settimanale, e che si doveva pensare a come occupare quella enorme quantità di tempo libero. La profezia si è realizzata in modo singolare, perché molti non lavorano affatto, visto che l’automazione gli ha tolto il lavoro, ma sono impegnati per quindici ore al giorno, sul computer, dove producono valore. Un possibile esercizio di mindfulness proposto dal nostro orologio potrebbe suonare così: da dove deriva il nostro sentimento di iperoccupazione anche quando non siamo al lavoro o quando siamo disoccupati? Probabilmente, perché siamo altrimenti occupati, in particolare nell’insegnante alle macchine che cos’è un umano. Non siamo oziosi, sembra soltanto che sia così. Ma le nostre dita si muovono sullo schermo, leggiamo e scriviamo, consultiamo, clicchiamo, approviamo o disapproviamo. In effetti, effetti eroghiamo attività, non siamo dei semplici giacimenti sfruttati, ma siamo portatori di atti, di preferenze, di bisogni e di desideri. Di qui lo scioglimento dell’arcano: certo che siamo stanchi, anche se non affaticati, ci mancherebbe altro, e sicuramente non siamo alienati, perché non c’è un momento della nostra vita connessa in cui non siamo mobilitati e sollecitati.
Un tempo in cui la noia è scomparsa
Le macchine che ci stanno togliendo il lavoro hanno bisogno proprio di quell’essere umani che per Keynes era l’altro rispetto al lavoro, il tempo della vita in quanto tempo vuoto e improduttivo, da occuparsi al meglio per evitare l’abbrutimento di una umanità strappata ai campi e alle officine. Ma, come abbiamo visto, oggi il nostro tempo non è vuoto, è pienissimo. Basti dire che è scomparsa la noia: e ovviamente gli umani si lamentano anche di questo, si veda Pamela Paul, 100 cose che abbiamo perso per colpa di Internet; del resto, Dostoevskij confessò la propria nostalgia per la detenzione in Siberia. Beninteso, la scomparsa della noia genera valore ma non risolve i problemi, perché, come un tempo c’era modo e modo di annoiarsi, oggi c’è modo e modo per non annoiarsi. La disciplina lavorativa e militare era un modo relativamente semplice, anche se molto faticoso, per non annoiarsi. Non scrivere stupidaggini sul web, non mangiare troppo, fare attività fisica, comportarsi decentemente con i propri simili, richiedono una enorme disciplina; dunque, abbiamo un bel po’ di cose da fare per occupare il tempo liberato dall’automazione. Però prima dobbiamo rispondere alla domanda: chi paga? Quale divinità benigna ci mantiene alle lezioni di greco o di pilates, se siamo disoccupati? Chi sostiene i nostri consumi?
Finché c’è vita c’è consumo
I consumi stessi. C’è un punto da considerare per aprire gli occhi e guardare al futuro. Nel momento in cui il consumo è registrato, viene capitalizzato ed è potenziale produttore di ricchezza, ed è proprio questa la trasformazione epocale che può confortarci nel guardare al futuro. E magari ci può anche illuminare, retrospettivamente, sui pregiudizi di un passato anche recente. La critica del consumismo ci ha infatti resi ciechi rispetto alla nobiltà e alla umanità del consumo, ossia del bisogno, che è la nostra caratteristica di organismi, inserito in un contesto tecno-sociale, quel contesto che ci rende umani. Per cui, se ci pensiamo con un minimo di attenzione, ogni critica del consumo viene fatta in nome di un altro consumo, considerato (a torto o a ragione) più nobile: non ingozzarti di patatine, consuma calorie; non instupidirti su Netflix, leggi Goethe o il Vangelo… Il fatto che atti di consumo abbiano luogo in riti solenni, cene dopo le incoronazioni, consumo di pane e vino nelle messe, ci fanno capire che la tradizione vede molto più lontano e in profondità di uno sguardo conformista. Il primo gesto di un umano, appena venuto al mondo, è il consumo di latte, così come l’ultimo gesto di Cristo in Croce è il consumo della bevanda dei legionari romani, a base di acqua e aceto, la posca. Cito da Giovanni 19,30: “Quando Gesù ebbe preso l’aceto, disse: ‘È compiuto!’ E chinato il capo rese lo spirito.” Consummatum est, facciamoci caso: Cristo muore consumando, o meglio, quando ha finito di consumare, muore.
Finché c’è vita c’è consumo, cioè soddisfazione dei bisogni e metamorfosi della materia in spirito, come ha visto bene Hegel quando ha descritto lo stesso processo digestivo come una spiritualizzazione, perché la materia si trasforma in energia. Nel nostro caso, ed è questa la pietra angolare della mia proposta, il consumo registrato si trasforma in valore, mitigando la tirannia del merito.
Dalle capacità ai bisogni
“Pieno di meriti ma poeticamente abita l’uomo su questa terra”, scriveva Hölderlin, ma non è affatto chiaro che cosa intendesse con “poeticamente”. Dubito che intendesse, alla lettera, “fabbrilmente”, fabbricando cose (ποιέω), perché in sé e per sé non c’è niente di particolarmente nobile nel picchiare con il martello sull’incudine. O meglio, è una cosa che vale solo se non lo può fare una macchina, e quando risulta automatizzabile ci si rende conto che è indegna di un umano, che si trasforma in una protesi dell’incudine e del martello, cui è chiamato a dare energia fisica, ritmo e precisione.
Quella dell’homo faber è solo un’età dell’umanità, preceduta dai cacciatori raccoglitori (che peraltro non sono mai interamente scomparsi) e che in un tempo non si sa quanto lungo, ma che da noi già si annuncia, è destinata a finire. Senza lasciar rimpianti, anche se tutta la riflessione moderna, nata ai tempi dell’industria, ha generato una identificazione tra umanità e produzione che si rivela particolarmente inadeguata a comprendere il presente. Si ricorderà che per il Vangelo di Giovanni “in principio era il logos”, mentre per Goethe, agli albori della rivoluzione industriale, “in principio era il fare”. Bene, conviene pensare, oggi, che “alla fine c’è il consumare”, ossia che senza consumo nessuna produzione, sia essa di cibi spazzatura o di dottrine sublimi, ha senso.
Consideriamo tre punti.
- Primo: che cosa rende possibile l’automazione? Come abbiamo visto, la registrazione delle forme di vita umana nel web. Le macchine devono comportarsi come umani, e per farlo devono attingere al gran catalogo dell’umano che è il web.
- Secondo: qual è la sola cosa che non può essere automatizzata? Il consumo, che per centinaia di migliaia di anni si dileguava, mentre ora che è registrato rende accessibili, oltre all’automazione, gli inestimabili vantaggi economici della profilazione, che per la prima volta nella storia del mondo fanno dell’economia pianificata qualcosa di profondamente diverso da un progetto futile e astratto.
- Ultimo interrogativo: che cosa fa muovere questo immane apparato? L’automazione? Ovviamente no, le macchine, da sole, non vanno da nessuna parte, e il valore di una macchina e dei suoi prodotti deriva dall’apprezzamento e dal bisogno di un umano. Dunque, il consumo, ossia l’umano, è l’alfa e l’omega della automazione (oggi) e dell’economia (da sempre).
Le macchine esistono solo in funzione degli umani, dei loro bisogni, della loro mortalità, e questo vale in primo luogo per quella macchina universale che è l’intelligenza artificiale. La transizione dalla produzione al consumo garantita dalla automazione comporta così un cambiamento assiologico che conferisce un ruolo peculiare ai bisogni. I bisogni, infatti, in quanto non sono automatizzabili e in quanto garantiscono l’automazione e ne definiscono le finalità, costituiscono l’unica capacità davvero essenziale, su cui costruire una politica che miri all’acquisizione di diritti sostanziali e non soltanto formali. Questo perché, mentre siamo tutti diversi nelle capacità, siamo tutti uguali nel bisogno, che è appunto ciò in cui la natura è democratica, mentre su tutto il resto, come ricordavo in apertura, è scandalosamente meritocratica.
Difficile sovrastimare questa trasformazione. Il principio (enunciato negli Atti degli Apostoli, ripreso da Marx, e che curiosamente molti americani pensano stia scritto nella costituzione degli Stati Uniti), “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, in una società che punta sulla produzione, farà sempre pendere la bilancia a favore delle capacità, e i bisogni saranno presi in conto, nel migliore dei casi, da agenzie caritatevoli. Proprio l’antichissima democraticità del consumo, ossia del bisogno, associata alla sua modernissima produttività, comporta un cambiamento epocale nel nostro modo di guardare il mondo. Sino a che le capacità sono state distinte dai bisogni, questi sono sempre passati in secondo piano. Ma in un mondo in cui crescentemente la produzione è automatizzata i bisogni, ciò che non può essere automatizzato e che costituisce il fine ultimo della produzione, diviene decisivo, anzi, sono l’unica cosa che conta. Così, nel momento in cui il Web sembra interessarsi non a quello che facciamo come portatori di forza, intelligenza e capacità, bensì a ciò che, a torto o a ragione, desideriamo, puntare sui bisogni diventa non un ottativo del cuore, ma la legge economica fondamentale.
Ecco la grande novità: per la prima volta nella storia del mondo abbiamo un apparato che valorizza sistematicamente e programmaticamente gli umani non per i meriti ma per i bisogni. Era già così per il mercato: non importa se quello che produco lo compra un genio o un cretino, purché lo compri. Ma il Web fa valere questo principio non alla fine del processo, ma sin dall’inizio. Per il Web, e per i suoi obiettivi di automazione e profilazione, è necessario intercettare non la creatività o la forza, non la bellezza o l’intelligenza, non la virtù o la sapienza, ossia ciò che rende diversi gli umani, ma il basso continuo che ci rende uguali anche prima della morte, il bisogno, o più esattamente l’imbecillità, la mancanza costitutiva che determina il ricorso alla tecnica. Si tratta perciò di riconoscere il valore che gli umani producono sul Web, che non esisterebbe se non ci fossero i loro bisogni. E questo dà agli umani un potere incalcolabile di fronte alla tecnica, e alla sua manifestazione attuale, il Web. Però bisogna capirlo, bisogna togliersi un velo dagli occhi, e abbandonare l’idea secondo cui l’unico modo per qualificarsi come soggetti politici sia essere delle vittime, poiché il vittimismo è solo rassegnazione: non si aiutano i migranti o i rider compatendoli, ma creando un mondo diverso.
Dal capitale calvinista al capitale cattolico
Il verso di Hölderlin sui meriti è anche più enfatico di quello sulla compresenza tra pericolo e salvezza; o almeno è esagerato, visto che tanto i meriti quanto i poemi non spesseggiano. C’è un solo posto al mondo in cui si applica, e per fortuna questo posto è a portata di clic. Qui, infatti, si produce altrettanto valore a ripassare le proprie nozioni di sanscrito, a contare i propri passi, a guardare una partita di calcio o un film pornografico, a cercare una ricetta, a comprare un biglietto… Il risultato è un patrimonio che non consiste nelle disponibilità finanziarie degli esseri umani (disponibilità che ci segnalano soltanto la differenza fra avere e non avere, e che può essere talmente aleatoria da risultare informativamente poco interessante); che non consiste nella forza lavoro che l’umanità può fornire, e che per fortuna appare sempre meno necessaria grazie alla crescita dell’automazione; e nemmeno, come si pensava ancora un paio di decenni fa, in una intelligenza collettiva, nella somma di tutto il sapere della umanità (l’intelligenza collettiva, diversamente dalla imbecillità di massa, non esiste; e il web è il regno delle fake news).
Un Commonwealth diverso da quello prospettato da Hobbes
Questo nuovo patrimonio è un Commonwealth diverso da quello prospettato da Hobbes: un patrimonio dell’umanità che non fa differenza tra ricchi e poveri, belli o brutti, intelligenti o stupidi, perché anche chi non possiede un centesimo, e per colmo di disgrazia è brutto, malvagio e stupido genera (purché connesso) un patrimonio di dati non pari e più importante (perché più rappresentativo della media) di quello dell’essere più ricco, bello, virtuoso e smart della terra. Bisogna capire anzitutto questo punto, per evitare di proiettare sul patrimonio dell’umanità la luce falsa e inadeguata dei web-apocalittici, considerando il nuovo capitale o come la prosecuzione di forme di capitalizzazione precedenti, e come tali necessariamente legate allo sfruttamento dei molti e al presunto merito dei pochi, o come uno strumento di controllo totalitario, o, ancora, come la pericolosa utopia di un mondo alimentato dalla più rara e inaffidabile delle doti umane, l’intelligenza. Consideriamo dunque i caratteri di questo capitale.
Un capitale ontologicamente nuovo
È ontologicamente nuovo, perché atti che caratterizzano la forma di vita umana (camminare, guardare, consumare, apprezzare, temere) da milioni di anni, e che sinora non hanno lasciato traccia, o ben poche, in genere in circostanze solenni, oggi vengono registrati e si trasformano in documenti. È un cambiamento qualitativo e quantitativo: la massa antropica non è mai stata così elevata come oggi (una circostanza che potenzialmente trasforma in possibile risorsa quella che è a tutti gli effetti la causa prima della crisi ambientale), e tutte queste forme di vita sono registrate, mentre in precedenza non lasciavano traccia, o, se vogliamo essere poetici, sparivano come lacrime nella pioggia. Sono atti di cui raramente siamo consapevoli – chi mai ha tenuto conto dell’ora e del luogo in cui compie una ricerca, soprattutto se questa ricerca riguarda un ristorante? Che spesso non ricordiamo di compiere – durante una conversazione al telefono tossisco tre volte, posso benissimo non accorgermene, e comunque saprei rispondere alla domanda: quante volte hai tossito? O che sappiamo di compiere ma ci guardiamo bene dal quantificare – quanti, prima del Web, avranno sistematicamente contato i passi di una passeggiata? E che, in moltissimi casi, non avremmo mai registrato senza il Web, si pensi al computo dei nostri bioritmi. Riconoscere questo capitale è molto più che la scoperta di un nuovo mondo o di una conquista spaziale, visto che è l’aumento degli oggetti e dei significati presenti nel nostro mondo.
Un capitale tecnologicamente rinnovabile
È tecnologicamente rinnovabile perché i documenti digitali, i dati, proprio come le idee, si possono condividere. Questo sta alla base di una grande risorsa politica ed economica. Se io produttore, in una economia classica, chiedo la restituzione di quello che ho prodotto, posso farlo solo con una rivoluzione, e il risultato è in genere la sostituzione delle industrie private con pessime industrie socializzate. Ma se io, produttore di dati in una economia digitale, chiedo di riavere i miei dati a una piattaforma, non danneggio l’economia della piattaforma, ed entro in possesso di un bene che, unito a quello di altri umani in una piattaforma umanistica o mutualistica, mi permetterà di creare un valore da ridistribuire con motivazioni umanistiche, realizzando la preoccupazione etica dei filosofi e in genere di tutti gli umani di buona volontà, ma attraverso un incremento delle risorse economiche.
Un capitale epistemologicamente ricco
È epistemologicamente ricco perché costituisce il più grande repositorio delle forme di vita umana che sia mai esistito e che, se interpretato con macchine e idee adeguate, ci potrà dare sul mondo umano una conoscenza molto superiore a quella che abbiamo sul mondo naturale, con dei vantaggi enormi, perché, contrariamente a quanto pensano gli oscurantisti che, come in Matrix, sostengono in fin dei conti che “l’ignoranza è una pacchia”, l’umanità e il sapere vanno di pari passo, e siamo tanto più umani quanto più ci nutriamo all’albero della conoscenza. Assistiamo, per questa via, a quella che un tempo si sarebbe chiamata “frattura epistemologica”. La classica contrapposizione tra la natura come regno della necessità e la società come regno della libertà va capovolta: quanto più si approfondisce la conoscenza della natura, tanto più questa manifesti fenomeni caotici e imprevedibili; quanto più cresce la conoscenza dei comportamenti umani attraverso i dati generati dai nostri comportamenti, tanto più questi comportamenti si rivelano prevedibili e uniformi. E se oggi la fisica quantistica descrive la natura come un ambito in larga misura aleatorio, i big data trasformano l’umanità in un campo prevedibile quanto le fasi lunari.
Un capitale teleologicamente, cioè eticamente, equo
È teleologicamente, cioè eticamente, equo, perché, come ho detto, invece di essere segno della elezione divina del singolo, come nella genesi calvinista del capitale borghese, questo capitale cattolico in senso etimologico, perché universale, vale tanto più quanto più è condiviso tra tutti gli umani, indipendentemente da ricchezza, intelligenza, razza o fede. Si genera così un sistema di valorizzazione che non privilegia l’individuo e il lavoro, ma la collettività e il consumo, con quella che taluni saranno forse inclini a vedere come una desublimazione repressiva, perché non si rendono conto che si tratta di una enorme e nuova possibilità. Di qui emerge uno scopo completamente nuovo per la riflessione filosofica e sociale: disegnare una capitalizzazione operata da piattaforme umanistiche che sia alternativa e non competitiva rispetto alle piattaforme liberistiche, che per parte loro hanno avuto il merito indiscusso di avere intercettato una nuova fonte di valore. In altri termini, se la spinta rivoluzionaria viene dal capitale, essere rivoluzionari significa non lottare contro il capitale, ma immaginare dei processi di capitalizzazione alternativa.
Dal Welfare al Webfare
Quali processi? Provo a descriverli. La logica di questa capitalizzazione alternativa poggia su una semplice considerazione. I dati, proprio come le idee, si possono condividere e riusare quanto si vuole, e richiedere i dati alle piattaforme commerciali non significa chiedere che non li usino più, tutt’altro. Oltre che impossibile, inoltre, privare le piattaforme dei dati sarebbe ingiusto, perché affinché quei dati ci fossero le piattaforme hanno investito in ricerca e sviluppo, oltre ad aver capito prima di noi il loro valore. Bisogna seguire una via diversa: dato a Google quel che è di Google, si potranno capitalizzare per scopi umanistici quegli stessi dati che Google e le altre piattaforme capitalizzano per scopi liberistici. Si tratta di una azione molto più robusta dell’8 per mille, che si limita a indirizzare la percentuale di un valore esistenti mentre, in questo caso, si introduce un nuovo valore.
Questi atti intimamente politici non hanno bisogno di alcun sostegno politico formale. Mentre la politica potrà indirizzarsi alla tassazione delle piattaforme (tanto liberistiche quanto, sebbene in misura minore, civiche). Oltre che compensare gli squilibri che verranno naturalmente dalle scelte degli intermediati e delle strutture di intermediazione. Inversamente, nel webfare, chi non ha soldi ma dati non riceve sussidi, carità, redditi di cittadinanza, ma è pagato per il lavoro che svolge in quanto produttore di dati. La ridistribuzione del valore diviene a questo punto democratica, perché restituisce gli utili delle piattaforme umanistiche a chi non è smart per mille motivi e che, invece di vendicarsi delle élite perché esasperato dalla supponenza di chi crede di avere dei meriti, potrà apprezzare un vantaggio pratico della fusione fra tecnica e umanesimo per scopi sociali. Cioè potrà usufruire effettivamente dell’ascensore sociale che, per essere tale, deve aiutare non quelli che riescono a salire di corsa le scale contando le calorie bruciate, ma quelli che non ce la fanno.
Per realizzare questo obiettivo occorre reperire delle agenzie di intermediazione che possono combinare i dati delle piattaforme con i loro database specifici. Si tratta, per esempio, di abilitare una azienda sanitaria a capitalizzare i propri dati sui clienti aggregandoli con i dati social dei clienti, rispetto ai quali si pone come intermediaria rispetto alle piattaforme nella richiesta dei dati, ottenendo così correlazioni estremamente più significative che saranno cedibili ad aziende farmaceutiche e biomediche, a cui oggi generalmente sono regalate, rendendo così sostenibile la spesa sanitaria per una popolazione sempre più anziana. O di trasformare una banca in un istituto di intermediazione attivo anche nell’ambito del capitale digitale, da reinvestire sul territorio e per scopi umanitari. O di accoppiare i dati strutturati di una biblioteca o di una università con i comportamenti di utenti e studenti per ottimizzare i servizi. Ossia non solo di ridistribuire a vantaggio dell’umanità il capitale che produce, ma di arricchirlo e di potenziarlo non limitandosi a fare ciò che fanno le piattaforme commerciali, ma riuscendo a fare più e meglio di loro.
Ecco la grande, e nuova, opportunità. Il Welfare come l’aveva immaginato Keynes imponeva delle scelte. Per esempio, tra sicurezza sociale e sanità. Si è privilegiata giustamente la prima, ma con questo si è indebolita la seconda. Il Webfare parte da un presupposto completamente diverso: invece di prelevare le proprie risorse dal valore esistente, che è pur sempre qualcosa di dato, cioè una coperta troppo corta o troppo stretta, mettiamo a frutto un capitale del tutto nuovo. È qui che si gioca la grande partita in cui l’immaginazione sociale, economica e filosofica dovrà concentrarsi negli anni a venire, mobilitando, insieme ai corpi intermedi, l’intelligenza dei ricercatori e delle università, che sostengano quei corpi intermedi nella elaborazione dei criteri di capitalizzazione, di cui, per fortuna, né la Silicon Valley né Shanghai possiedono l’esclusiva.