dati patrimonio dell’umanità

Webfare: il consumo è un lavoro e produce valore, ma come capitalizzarlo?

Il consumo può essere un lavoro al pari della produzione, e anzi venir considerato una produzione di ordine superiore. Diciamo quindi addio al lavoro come fatica e salutiamo il lavoro come produzione di valore. A patto però di elaborare nuove strategie progettuali capaci capitalizzare i dati e redistribuire il benessere

Pubblicato il 22 Lug 2022

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

Linee guida Agcom su equo compenso: opportunità e criticità di uno strumento improprio

Il modo tradizionale per ripartire le ricchezze era il salario che compensava il lavoro erogato. Ma nel momento in cui non si eroga lavoro, eppure si continua a generare ricchezza, si deve trovare uno strumento alternativo per la ridistribuzione del benessere. Chi è, dunque, il soggetto che genera il patrimonio dell’umanità?

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Uno strumento, anzitutto, concettuale, visto che non si può limitare al reddito di cittadinanza, che di fatto è un sussidio di disoccupazione, e dunque ribadisce la centralità del lavoro. Il Who che andiamo cercando è un soggetto effettivamente diverso, ma non per le caratteristiche del mondo online o per le seduzioni del virtuale, ma semplicemente perché è il mondo in generale, e soprattutto quelli che un tempo si chiamavano rapporti di produzione. In queste condizioni, pensare una vita senza lavoro non significa semplicemente trovare delle vie alternative di ripartizione della ricchezza, ma anche riconcepire il significato dell’esistenza che, in particolare negli ultimi due secoli, in seguito ai processi di democratizzazione e di sviluppo sociale, aveva fatto coincidere la cittadinanza con il lavoro (basti pensare al primo articolo della Costituzione italiana). Questo problema è tanto più cruciale in quanto il lavoro aveva costituito un momento decisivo, negli ultimi decenni, di superamento delle discriminazioni di genere.

Il lavoro senza l’uomo

Ha avuto luogo un cambiamento epocale che nessuno, che io sappia, ha rilevato: un tempo – incredibilmente vicino, appena attraversato – si pensava che il mondo si sarebbe liberato del capitale e sarebbe toccato in eredità ai lavoratori; ma nulla di simile è accaduto, e ci siamo accorti che, al contrario di quello che si pensava, non ci si può illudere di lasciare la capitalizzazione nel dimenticatoio, si può fare a meno dell’homo faber, in un tempo lungo ma non messianico come quello del superamento del capitale. A faticare saranno sempre più, i robot, ossia le macchine concepite per il lavoro (работа). Se, come tradizionalmente è avvenuto in situazioni di automazione rudimentale, lo scopo del lavoro è compiere azioni di routine, è evidente che la crescita dell’automazione coincide infallibilmente con la scomparsa del lavoro, perché, a parità di condizioni, una macchina è sempre più vantaggiosa di un umano, per ottimi motivi: non si stanca, muore, non ha diritti e non va in pensione, non vota; il che avvantaggia l’automazione non solo sotto il profilo economico, ma sotto quello politico e sociale. Beninteso, non è che l’inizio della fine; più esattamente, è la fine dell’inizio, l’incipit di una transizione con cui conviene confrontarsi per non riprodurre lo strabismo dei fisiocrati che, mentre a Manchester le prime industrie inauguravano un’epoca durata due secoli abbondanti, teorizzavano che ogni ricchezza viene dalla terra (perché i contadini, intorno a loro, erano ancora la stragrande maggioranza dei lavoratori), e, dall’altra parte degli oceani, c’erano ancora molti cacciatori e raccoglitori.

Ma cosa diventa il lavoro nel momento in cui l’homo faber viene progressivamente lasciato nel capanno degli attrezzi? Ancor più: diventa qualcosa, o semplicemente scompare? È troppo preso per dirlo. A livello globale, l’homo faber è ancora largamente la specie più diffusa nella fauna umana, ma nelle nostre latitudini si sta rarefacendo. Alcuni vecchi lavori sopravvivranno, così come è probabile che ne nasceranno dei nuovi, però non tanti quanti quelli scomparsi, né troppo attraenti[1]; altri saranno pagati molto meno che un tempo, perché c’è meno richiesta; ma è altamente probabile che l’automazione renderà inutile buona parte dei lavori che svolgiamo in questo momento, esattamente come è successo per i lavori agricoli che, non dimentichiamolo, all’inizio non dell’Ottocento, ma del Novecento, continuavano a occupare la maggior parte dell’umanità. Di certo, molte sono le categorie che soffrono per la trasformazione in corso[2] e patiscono per la svalutazione dei lavori tradizionali[3], tanto che concepire il lavoro del futuro – ammesso e non concesso che ci sarà un lavoro[4], il che, tutto sommato, è meglio della profezia assai più diffusa secondo cui non ci sarà un futuro – nella forma tradizionale del lavoro salariato moderno, come talora qualcuno fa[5], è inadeguato, anzitutto perché quel tipo di lavoro è una specie sempre più rara.

Homo faber? Homo sapiens?

Per capirlo non ci vuol molto. All’epoca delle scoperte geografiche, gli europei che entravano in contatto con gli abitanti di Santo Domingo o della Nuova Caledonia, cioè con dei cacciatori raccoglitori, li descrivevano come oziosi che si limitavano a profittare della generosità della natura. Probabilmente, se un nostro antenato primonovecentesco risorgesse, ci descriverebbe come ancora più fannulloni dei Caribe o dei Canachi. Invece di sudare nei campi e nelle officine, siamo seduti al bar o in treno e ci limitiamo ad armeggiare con i telefonini, e sudiamo solo per bruciare calorie nella corsa. L’homo faber è stato sostituito da un homo otiosus, che ha cioè l’impressione di non fare niente.

Il cambiamento è percepibile a memoria d’uomo. Se penso alla Torino di mezzo secolo fa, di giorno c’era molta meno gente per strada. Stavano in fabbriche e uffici, e producevano. Cessavano di produrre un mese all’anno, e Torino diventava deserta, molto più che nel più severo dei lockdown. Non lo sapevo, non lo sapevamo, ma assistevamo alla fine di un periodo storico plurimillenario. Il mondo che avevo sotto gli occhi, però, aveva poco a che fare con i riti della mezzaluna fertile, o più domesticamente con quelli della vendemmia che conoscevo a casa dei miei nonni in Monferrato. Era frutto di quella automazione che si era fatta avanti ai tempi in cui, come ho detto un attimo fa, i fisiocrati teorizzavano la centralità non dell’industria, ma della terra. Tuttavia, il passaggio all’industria, portando il lavoro in città, aveva fatto sì che l’homo faber, da mera necessità tecnico-economica quale era stata per millenni, si stava trasformasse in un ideale sociale.

Ai tempi di Oscar Wilde, Lady Bracknell, in L’importanza di chiamarsi Ernesto, considerava ormai doveroso che un uomo (non una donna!) avesse una occupazione nella vita. La religione borghese aveva, almeno formalmente, intaccato l’aristocrazia. Non senza ironia. Proprio nel momento in cui le macchine si accingevano a rimpiazzare l’homo faber, si formava un’onda lavorista che si ingrosserà nel Novecento. Negli anni Trenta del secolo scorso, ai tempi di Metropolis di Lang, Jünger poteva profetizzare l’avvento dell’epoca dell’universale lavoratore[6], partendo dall’esperienza della guerra di materiali che aveva trasformato lo stesso mestiere delle armi in un lavoro industriale, e raccogliendo l’eredità della centralità borghese del lavoro teorizzata da Hegel, Marx, Freud, Heidegger, Simone Weil, Sartre. Trent’anni dopo, Foucault farà scalpore profetizzando la morte dell’uomo, che ovviamente non è avvenuta; ma chi avesse avuto la pazienza di aspettare sino alla fine del secolo avrebbe avuto la ventura di leggere i primi saggi che decretavano la morte del lavoratore jüngeriano [7]. La repentinità del cambiamento spiega almeno in parte l’insincera nostalgia di chi rimpiange il passato e i suoi lavori orrendi o che improbabilmente vorrebbe lavori fissi e sinecure che erano garantiti soltanto dallo sfruttamento dei lavori orrendi. O la non meno insincera opposizione di chi obietta che qualche lavoro servile resterà sempre: ovvio che sì, se è per questo (ma ancora per poco) ci sono popolazioni ferme al neolitico; e allora? O la deplorevole mancanza di sensibilità, anzi, di buon senso, di coloro che descrivono il loro vagare per la rete come un lavoro in miniera.

Non c’è niente di nobile e di bello nella fatica, e quando d’Annunzio parlava di “bella fatica” o Leopardi di “sudate carte”, intendendo con questo le loro imprese letterarie, resta che nessuno di loro sarebbe stato disposto a sudare e faticare altrimenti che con la penna. E che coloro che vogliono tornare alle fabbriche non parlano per sé, ma per altri, e semplicemente per riempire una casella vuota, quella dell’umano identificato con il lavoratore industriale. Solo così si spiega lo stigma che oggi colpisce i “lavori spazzatura” e i “bullshit jobs”, quasi che scrivere sotto dettatura per otto ore per un salario modesto (si chiama “fare il dattilografo”) non fosse un lavoro spazzatura, se visto con gli occhi dell’oggi, e che i beati anni della catena di montaggio, o del remare in una galera, non fossero molto peggio che spazzatura. Non c’è neanche niente di bello in un primitivismo felice[8], il cui discorso suona grosso modo così: invece di ritornare all’accumulo capitalistico avviato diecimila anni fa con l’agricoltura, e che ci ha costretti a lavorare come dei dannati, torniamo alla condizione felice dei cacciatori-raccoglitori, beninteso rassegnandoci a vivere non più di quarant’anni e rilassandoci la sera, dopo una giornata trascorsa a correre dietro a una gazzella o a raccogliere bacche, ascoltando un mito (sempre lo stesso, temo) intorno al fuoco.

Ma per trovare un mondo non ossessionato dal lavoro non occorre ritornare ai bivacchi e alla vita in savana; basta tornare all’Ancien Régime e alla sua douceur de vivre: ovviamente per chi poteva contare su servitù a basso costo ed esenzioni fiscali. Lì lavorare era indegno di un uomo, cioè di un nobile, e questo era vero a maggior ragione per i senatori romani, prima che il cristianesimo diffondesse lavorismo ed egalitarismo. Risalendo ancora un po’ più indietro, la definizione dell’umano come ζώον λόγον έχον appare normale nel mondo greco, indicando con questo però non un umano generico, ma chi frequenta il Liceo di Aristotele: le donne, i contadini, gli schiavi e i barbari non contano. Non perché non siano umani (come leggiamo nel Menone, anche uno schiavo, se guidato a dovere, può dimostrare il teorema di Pitagora), ma perché nessun pasto è gratis, e in una società senza automi la vita teoretica non è alla portata di tutti.

Ma, attenzione! non basta che i pasti siano gratis, o almeno automatizzati, perché gli schiavi diventino senatori. In termini più politicamente corretti, non basta smettere di faticare fisicamente per accedere a un qualche lavoro dello spirito; e un lavoro in cui tutti siano creativi non è diverso da una guerra in cui tutti siano Annibale e Napoleone: un sogno poco intelligente e per niente creativo. Consigliare a un rider soppiantato da un drone di riciclarsi in un lavoro creativo non è diverso dal suggerirgli di sostituire il pane con le brioche. Smettendo di zappare la terra non sempre si diventa poeti simbolisti: è più facile trovarsi a lavorare in una catena di montaggio, come storicamente è avvenuto un secolo fa. Sicuramente, rispetto ai nostri antenati genocidi (ci chiamiamo “homo sapiens” essenzialmente perché abbiamo sterminato i Neanderthaliani), abbiamo compiuto molti passi in avanti, ma la via è ancora lunga: l’umano come desideroso di sapere e portatore di conoscenza, ossia l’homo sapiens, è un ideale, il fine e la fine di un processo che è in corso da che l’umano è umano, ma non un fatto. Abbandonate alla critica corrosiva dei topi o dei loro successori informatici le dubbie nostalgie di una umanità spartachista o – peggio che andar di notte, stakanovista –, dismesso il ricorrente ma bugiardo presepe di una umanità che smette di faticare per iniziare a cantare, resta da capire chi siamo e cosa facciamo.

Webfare, i nostri dati patrimonio dell’umanità: ecco come redistribuirne il valore

Homo mobilitatus

Che cosa facciamo? Di certo produciamo sempre meno beni, ma non per questo ci siamo trasformati in controllori delle macchine, o siamo diventati tutti creativi. Il processo è più sottile e inaspettato. Una tecnologia imperfetta, quella dei martelli, delle viti, del carbone e dell’acciaio ha visto nell’umano un pezzo della macchina, cui si chiedeva forza fisica, pazienza, disciplina, capacità di dimenticare sé stesso e di alienarsi, come nel sistema martello-umano-incudine o nella catena di montaggio, in cui l’umano svolge funzioni che sono facilmente surrogate da automi. Una tecnica più evoluta si limita, almeno in teoria, a servirsi dell’umano per scopi di regolazione; ma solo in teoria, giacché la trasformazione del lavoratore in semplice controllore delle macchine, e poi in intellettuale emancipato dal controllo del capitale non si è realizzata, semplicemente perché l’automazione ha investito anche le funzioni intellettuali dei quadri, cioè dei regolatori e dei controllori. Semmai, ciò di cui ha bisogno questa tecnica sono gli umani impegnati in compiti di riconoscimento dove a contare non sono le loro capacità cognitive più elevate, ma semplicemente in quanto capaci di prestazioni (come i compiti di riconoscimento) semplici per un organismo e complicatissime per un meccanismo.

Ma cosa avviene quando la tecnica si perfeziona al punto da creare delle macchine che imparano da sole? Ci mobilitiamo[9], ossia esercitiamo le nostre normali forme di vita umana che però, registrate sul Web, producono dati, cioè valore. Non più interessanti in quanto portatori di forza, controllo, capacità, né di intelligenza e di creatività, gli umani, nella mobilitazione, sono interessanti in quanto umani, cioè in quanto organismi viventi sistematicamente connessi con meccanismi tecnosociali. Ma perché mai la nostra vita dovrebbe essere economicamente interessante? Tradizionalmente, interessanti sono le vite straordinarie, quelle dei santi, degli eroi o delle celebrità. La fama, come la fortuna, è una dea incostante e capricciosa, ed è poco raccomandabile mettere nelle sue mani il destino della intera umanità[10]. Il che, sia detto per inciso, è ciò che fanno coloro che sostengono che il lavoro del futuro sarà la creatività, sottintendendo, sebbene non credo ci abbiano mai pensato, che sarà creatività per tutti e in ogni momento[11]. Fortunatamente, però, ciò che importa al Web come tecnologia perfetta è l’umano in quanto umano: è questo ciò che cerca nel momento in cui registra i nostri gusti, i nostri comportamenti, le nostre follie. Ora, le macchine non sanno che cos’è l’umano, e devono impararlo da noi, in un apprendimento in cui i bisogni sono molto più istruttivi dei nostri meriti e delle nostre capacità. In cambio, sono disposte a tutto, persino a lavorare al nostro posto.

Il termine “mobilitazione” mi sembra preferibile a “lavoro algoritmico”[12], ancora debitore della mancata profezia del frammento sulle macchine, o al richiamo al microlavoro digitale[13], che investe numeri quantitativamente irrisori rispetto al valore che l’intera umanità produce interagendo con il web. Mi sembra anche più espressivo della mobilitazione nobilitata, insomma della nobilitazione per cui diviene lavoro sociale affettivo[14], emozionale[15] o addirittura etico[16], riferito alle conseguenze che comportano i like, da cui si inferiscono informazioni cruciali per il valore dei contenuti online, per cui ogni partecipazione a una comunità online, compresa la formulazione di hate speech e la pedopornografia è un lavoro sociale in rete. Così pure, la mobilitazione non comporta necessariamente fatica fisica, tanto è vero che da qualche decennio a questa parte le città si sono riempite di runner che bruciano le calorie non consumate altrove. Quelle le consumano non i mobilitati gratuitamente, bensì i mobilitati a pagamento (che non ricadono nella mia definizione di “mobilitazione”), rider, che invece consumano le loro calorie sul lavoro, ma il fenomeno, per quanto vistoso, non può essere paragonato a quello di una umanità interamente impegnata in compiti disciplinati e faticosi. Soprattutto, si stima che in tutta Italia ci fossero, nel 2021, sessantamila rider, che è esattamente il numero dei dipendenti che, negli anni Settanta, lavoravano nel solo stabilimento di Mirafiori. E se, attraverso le loro battaglie, i sindacati riuscissero a fare contrattualizzare i rider e i braccianti agricoli il costo di questi lavori lieviterebbe al tal punto che converrebbe automatizzarli. Gli ex rider e braccianti, disoccupati, navigherebbero online, producendo più dati e quindi più valore, incrementando un capitale che, se restituito con umanità alla umanità che lo ha generato, potrebbe sostenere l’educazione dei rider, dei braccianti (quei pochi che ci sono) e delle schiere sempre crescenti di NEET, coloro che non studiano e non lavorano perché niente, nel mondo circostante, sembra suggerir loro che ne valga la pena.

Conviene chiamare “lavoro” la mobilitazione? Per il momento, visto che siamo in mezzo al guado, direi di sì. Perciò definisco “lavoro” ogni atto di un organismo (nella stragrande maggioranza dei casi, di un organismo umano) capace di produrre valore rapportandosi a degli apparati tecnici: remi, aratri, penne, tastiere di computer. Così, una funzione naturale come camminare diviene lavoro se si tira un carretto producendo valore (poniamo che il carretto sia un risciò), e, reciprocamente, ogni produzione di valore trasforma una interazione tra organismo e meccanismo in lavoro, per esempio quando, durante il sonno, uno smartwatch registra i miei bioritmi. Se però, per il momento, non sembra prudente abbandonare il concetto di lavoro, occorre subito precisare che quanto viene capitalizzato dalle piattaforme è solo molto raramente lavoro sottopagato: è una mobilitazione erogata in maniera non costrittiva. Ma perché c’è la mobilitazione invece che la stasi, dal momento che la stasi è più semplice della mobilitazione? Che cosa ci mobilita? I pochi soldi destinati ai Turker? Ovvio che no, sono una minoranza poco più numerosa degli Influencer. Il desiderio di essere accolti nella società dei poeti estinti[17]? Nemmeno. I più non sono pagati né tanto né poco, ma ambiscono al riconoscimento del mobilitarsi “non per profitto”, eppur si muovono. Perché? Perché fra cent’anni, e io di certo molto prima, saremo tutti morti.

Homo consumens

Tra la nascita e la morte consumiamo, e per quanto i beni di consumo di solito si comprino, del consumo in quanto tale si può dire quello che Stendhal dice della pena di morte: “È la sola cosa che non si compera”, nel senso che è l’unica cosa che non si delega e che, dunque, non si automatizza, perché consiste in un fine, e in una fine, non in un mezzo. Se l’umano è un organismo sistematicamente connesso con un meccanismo, questa connessione ha luogo tanto nella produzione (uso un meccanismo per produrre) quanto nel consumo (uso un meccanismo, un apparato sociotecnico, per soddisfare i miei bisogni, invece che ricorrere alla disponibilità naturale come avviene negli organismi non umani). Ora, contrariamente a quanto suggeriva una dottrina tranquillizzante, e perciò molto recepita[18], l’automazione non si limita a sostituire tutto ciò che è routine: può sostituire, in linea di principio, tutto ciò che è produzione, cioè anche la performance in quanto produzione di risultati. La sola cosa che non può venire automatizzata è il consumo. Non ha senso una macchina per mangiare la pizza, per ascoltare Brahms o per eleggere un Presidente – anche questo è consumo, in quanto espressione di un bisogno che le macchine non possiedono. Non c’è niente di più insensato e di più inattuabile dell’automatizzare i consumi, giacché lo scopo e il senso di produzione e distribuzione consistono proprio nel soddisfare desideri e consumi. Le automobili sono macchine che per funzionare richiedono carburante, ma che sarebbero macchine perfettamente inutili se non rispondessero al bisogno umano di andare, per esempio, al ristorante. Se poi al ristorante trovassimo delle macchine per mangiare al nostro posto, l’unica sarebbe cambiare ristorante, e senza rimpianto perché il proprietario e il cuoco non sembrano essere nel pieno possesso delle loro facoltà.

Proprio questo essere per la fine (che è anche essere senza fini esterni) è ciò che i computer non hanno, ed è ciò che ha spinto sin dall’inizio il primo umano a servirsi di un antenato del computer, che fosse un bastone da scavo, una tavoletta scrittoria, un libro o una bicicletta, imponendogli una finalità esterna potentissima ed esplicita: il bastone è fatto per scavare, la tavoletta per essere scritta, il libro per essere letto e la bicicletta per rimediare alle deficienze motorie derivanti dall’adozione della stazione eretta. Saranno questi supplementi tecnici che, determinando la nostra forma di vita, determineranno le specificità dell’intelligenza naturale degli umani differenziandola da quella di altri organismi: i delfini sono con ogni probabilità più “naturalmente intelligenti” degli umani, ma non disponendo di mani e stando in acqua non possono potenziare tecnicamente la loro intelligenza attraverso biblioteche, banche o manifestazioni per la tutela del clima.

Non potrò mai delegare un robot a morire al mio posto, sebbene lo possa delegare a uccidere al mio posto. Una guerra di sole macchine, senza bersagli umani, non avrebbe senso (ecco perché l’umanità non ha ancora fatto ricorso a una guerra atomica totale), proprio come non avrebbe senso un lavoro di sole macchine, senza beneficiari umani. Non c’è guerra che non si concluda con almeno un morto, sia pure ritualizzato, come negli scacchi: “Shāh Māt”, “il re è morto”; e non c’è lavoro che non abbia come fine, prossimo e palese (un ristorante, un bar) o remotissimo e mascherato (l’Accademia delle scienze di Stoccolma, Wall Street, i Berliner Filarmoniker) la soddisfazione dei bisogni fisiologici, cioè la vita, di un umano[19]. Allo stesso modo, non potrò mai delegare nessuno, né meno che mai una macchina, a consumare al mio posto. Il consumo dell’altro non soddisferà i miei bisogni, e quello della macchina non è un consumo, perché una macchina senza energia si ferma ma può sempre ripartire, mentre un organismo senza energia si ferma per sempre. Né si è mai visto un tagliaerba smaniare per la mancanza di elettricità, o avventarsi su un altro tagliaerba per sottrargliela. Così come, d’altra parte, non si è mai vista una macchina servirsi di un’altra macchina per soddisfare i propri bisogni: semplicemente, le due macchine diventano una, i bisogni che devono soddisfare sono quelli di un organismo.

“Consumare” non significa ingozzarsi di cibi scadenti, significa anche soddisfare valori spirituali, estetici, culturali: andare in chiesa o in un museo, ascoltare un concerto, consultare una biblioteca è “consumare” allo stesso titolo che mangiare hamburger e patatine. Proprio come la libido, il consumo si manifesta attraverso trasformazioni e sublimazioni, che sono il desiderio, la volontà, l’intenzionalità, la cultura e, in breve, tutto quello che, così oscuramente, chiamiamo “mondo dello spirito”. Si può certo sostenere[20] che ridurre il lavoro al consumo di energie biologiche evoca un biologismo sospetto, ma questo è tutt’altro che ovvio o necessario. Quanto alla distinzione tra bisogni reali e fittizi, così come tra bisogni e desideri, che sta alla base della condanna moralistica del consumismo, non credo che l’industria alimenti dei bisogni fittizi più di quanto lo facciano la scuola, la famiglia, la religione, la filosofia. Il bisogno di arte, di cultura o di sentirsi benedetti da Dio o ancora di sapere se il mondo sia finito o infinito non è né più reale né più fittizio del desiderio di avere un rasoio a sette lame. Gli animali umani si distinguono dagli animali non umani proprio per l’indiscernibilità della differenza tra bisogno e desiderio. Una volta che un leone ha mangiato, si ferma lì. Una volta che un bambino del sud globale riesce a non morire di fame, vorrà giocare, e poi farà tante altre cose, entrare in una gang giovanile perché ha bisogno di riconoscimento o diventare un premio Nobel sempre per lo stesso desiderio (meglio la seconda). È questo mondo che muove la macchina, il Web, che senza le nostre pulsioni si fermerebbe degradandosi in un attimo.

A livello ontologico, sono i bisogni che definiscono il valore ultimo delle cose. Platone e il buon senso ci insegnano che quanto valga un oggetto lo giudica chi lo usa, non chi lo produce, sebbene il mondo dell’arte e in taluni casi quello della cucina provino a capovolgere il rapporto, e dare la priorità assiologica al produttore. Sono i nostri bisogni, immediati come la pizza o mediati come il desiderio di vedere un Caravaggio, a determinare il valore dell’una e dell’altro, e è così da sempre. Inoltre, e soprattutto, non ci sarebbe valore, e non ci sarebbe capitale, senza la morte. Non dimentichiamolo mai, e non dimentichiamo che – come abbiamo visto parlando di ecosfera – al di là della forma di vita umana, per ciò che riguarda l’orizzonte del valore e del capitale, non c’è niente. Non si può che convenire con Hegel quando trovava un elemento spiritualizzante nello stesso processo digestivo, ossia nel consumo più organico che riusciamo a immaginare, e che converte la materia in energia. Il suo lavoro diventa il lavoro dello spirito, che non è comporre versi o concepire dottrine sublimi (questo si può anche fare, ma non possono farlo tutti né tutto il giorno), bensì nel consumare, sotto la spinta dei bisogni organici e delle loro metamorfosi sociali; nel manifestare interessi, desideri, anche follie e rivalità, l’enorme varietà della forma di vita umana che resta assolutamente impermeabile e incomprensibile a una macchina. Riusciamo a concepire una capitalizzazione più redditizia, per tutti, di questa sublimazione per cui il consumo si trasforma in spirito? Ora, è proprio lì che deve condurci la nostra rilettura della rivoluzione in corso. Originariamente puro sperpero definito come “lavoro a domicilio” solo nella misura in cui si voleva polemicamente indicarne il carattere inane[21] oggi il consumo in quanto manifestazione del bisogno può essere capitalizzato e costituisce l’origine di ogni valore[22].

Homo valens

“Consumatori di tutto il mondo unitevi!”. Questo è un messaggio non ironico né paradossale, è anzi lo slogan realistico indispensabile nel momento in cui i lavoratori sono in via di sparizione, e la loro unione non darebbe vita che a un capitale negativo, e un grande passivo, mentre l’unione dei consumatori genera il patrimonio dell’umanità. Oggi si è capito che la metrica del benessere non sia semplicemente finanziaria, e che si tratti di introdurre altri parametri, come la felicità, l’educazione, la sicurezza e l’equa distribuzione dei beni, in mancanza dei quali ogni progresso sarebbe solo di facciata. Ci sono fattori come la quantità e qualità di tempo libero disponibile, la fiducia nelle istituzioni, la qualità delle strutture di sostegno sociale, che non vengono computati nel Pil, il che rende altamente problematica l’identificazione tra benessere economico e benessere sociale. Ora, è proprio il consumo che conferisce la metrica fondamentale del valore. Ma tutto questo non è altro che un auspicio più o meno vago sino a che non si sia trovato il modo per attuarlo. Sostituire alla produzione il consumo è il modo. Anche chi, tradizionalmente, nasceva senza nient’altro che il proprio corpo oggi, purché il suo corpo sia connesso con qualche apparato che assicuri la registrazione, diviene produttore e proprietario di dati. Il processo della valorizzazione, in questo contesto, non ha luogo attraverso la sostituzione del corpo con lo spirito, come avviene nella retorica della creatività, bensì con la capitalizzazione e la valorizzazione dell’elemento più ubiquo nell’ umano, che passa dalla produzione di beni alla produzione di valori. La finalità interna (il bisogno) istruisce una finalità esterna, ossia crea un automa. Senza questa proiezione della finalità interna l’automa non ha ragion d’essere, ed è su questo principio che si fonda la superiorità dell’umano sulla tecnologia, che nasce per rispondere ai bisogni dell’umano, e non inversamente. È di qui che occorre partire per l’autovalorizzazione umana. L’origine della servitù umana va cercata non nella soggezione a un Golem, bensì nella subalternità di esseri umani che dipendono per il loro sostentamento dal placet di sistemi che essi stessi hanno alimentato. Se non si viene in capo a questo punto, si genera il paradosso per cui gli umani lavorano gratuitamente per produrre la propria disoccupazione.

Quella del valore è anzitutto una produzione primaria, in cui l’umano definisce che cosa vale. Se ci sono beni e servizi, è solo perché ci sono umani; e se questi hanno valore, è perché il mondo è popolato, oltre che da virus e da castori, da organismi che, diversamente dai virus e dai castori, soddisfano i propri bisogni attraverso un sistema cooperativo che chiamiamo “economia” e “società”. Bisogna capovolgere la posizione secondo cui l’utente è l’”ausiliario dell’algoritmo”[23] in quella secondo cui l’algoritmo è l’ausiliario dell’utente, e che non avrebbe né inizio né fine senza la mobilitazione degli umani. Ogni consumatore accede così a quella condizione di produttore di valori che, nell’aforisma 211 di Al di là del bene e del male, Nietzsche arrogava ai filosofi, e nemmeno a tutti. Questo lo possiamo constatare continuamente: ciò che ci viene richiesto non è più di produrre bensì di valutare la qualità dei prodotti e dei servizi, con un sistema iper-valutativo che, dai pollici dei social alle recensioni dei ristoranti, dai punteggi alla qualità delle chiamate e dei servizi. Gli umani che continuano a erogare servizi sono iper-valutati da altri umani, nelle piattaforme liberiste; mentre nelle piattaforme comuniste cinesi gli umani stessi sono valutati in quanto umani, in base a un sistema di punteggi.

Più fondamentalmente e innovativamente, è l’umano che, mobilitandosi, informa l’automazione della produzione. In questo senso, il consumo può essere considerato un lavoro allo stesso titolo della produzione, e anzi venir considerato come una produzione di ordine superiore, cioè come una produzione di valori, perché da sempre è il produttore del valore d’uso (senza consumatori non ci sarebbe valore in generale) ed è divenuto oggi, grazie alla registrazione generalizzata sul web, il produttore del valore di scambio (automazione, distribuzione, pubblicità: ecco perché i dati degli utenti sono da almeno quindici anni il primo guadagno delle piattaforme[24]). Inoltre, nel momento in cui si passa dalla produzione di beni alla produzione di valori, il ciclo di vita attivo dell’umano si estende sino all’ultimo giorno di vita. Proust prima di morire chiese una birra, lamentando che sarebbe arrivata troppo tardi, come sempre nella vita (e in effetti fu così, e la birra se la bevve il domestico che era sceso a prenderla). Questo significa che i pensionati e persino i malati non sono più un peso per la società, giacché generano dati, dunque valore e potenziale conoscenza.

Ma quello che si prospetta è anche, e soprattutto, un processo di autovalorizzazione attraverso il consumo, molto più di quanto non si presentasse l’ipotesi di una autovalorizzazione attraverso la produzione. Bisogna liberarsi dalla convinzione che il lavoro sia necessariamente collegato alla produzione di beni o alla fornitura di servizi. Se intendiamo il lavoro come fatica e noia, sembra proprio che stia finendo, senza lasciar rimpianti sinceri. Ma se parliamo di lavoro come produzione di valore, allora il bello incomincia solo ora, purché ci si impegni a elaborare nuove categorie concettuali e nuove strategie progettuali, capaci sia di produrre capitalizzazioni dei dati umanitarie e umanistiche, sia di programmare per l’intera umanità una forma di vita, l’educazione, la cultura e il lavoro dello spirito, che conosca lo stress, la tristezza, l’insoddisfazione, che sono parti insuperabili della condizione umana, ma non la fatica, la ripetitività, le sveglie all’alba e gli incidenti sul lavoro, che sono conseguenze di un’epoca lunga ma non infinita, per fortuna.

Ciò che Marx non poteva prevedere è dunque non solo che la funzione di controllo e regolazione delle macchine sarebbe stata sempre più assunta dalle macchine (è ciò che chiamiamo machine learning), ma soprattutto che agli umani sarebbe stato richiesto di comportarsi, per essere produttori di valori, nel modo che, per Marx, costituiva l’esito di una rivoluzione politica, ossia la fine della società borghese, l’avvento del comunismo[25], e la realizzazione di una umanità cui fosse consentito di andare a pesca la mattina e di fare il critico il pomeriggio, con in più l’esenzione dall’accudimento del bestiame consentita dall’automazione.

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  1. West 2016
  2. Garicano & Rossi-Hansberg 2016.
  3. Abrandi, Cambini, Rondi 2021.
  4. Susskind 2020.
  5. Vercellone 2020.
  6. Jünger 1932
  7. Rifkin 1996.
  8. Suzman 2020.
  9. Ferraris 2015, riprendendo Jünger 1930.
  10. Florida 2002, Menger 2003.
  11. Ma, ovviamente, non è così. Stando a un’autorevole rivista (https://www.wired.it/economia/lavoro/2019/07/22/lavori- creativi/?refresh_ce=), i dieci lavori creativi più richiesti nel 2019 erano accessories designer, jewelry designer, videomaker, graphic designer, illustratore, copywriter, art director, digital and content strategist, set designer, user experience/interface designer. Se di colpo l’umanità dovesse dedicarsi esclusivamente a questi lavori, si candiderebbe all’estinzione.
  12. Casilli e Posada Gutiérrez 2019.
  13. Casilli e Bouquin 2020.
  14. Casilli 2017. Casilli – Cardon, 2015.
  15. Dellarocas 2003.
  16. Coleman 2008.
  17. Nussbaum 2010.
  18. Autor, Levy, Murnane 2003
  19. Ray Bradbury in There Will Come Soft Rains, descrive l’inverosimiglianza di un internet of things dopo la scomparsa dell’umanità. È un peccato che questo racconto non lo abbia letto Yuval Harari, quando ha sostenuto che si può immaginare un futuro in cui anche il consumo potrà essere automatizzato. Se le sveglie, la colazione e tutto il resto hanno senso, è perché c’è qualche umano che se ne serve. Altrimenti ritornano all’insensatezza, non hanno più un fine.
  20. Rabinbach 2004.
  21. Sulla definizione polemica del consumo come lavoro a domicilio cfr. Anders 1956.
  22. Il valore del consumo non va confuso con il “lavoro del consumatore” (Dujarier 2014), del prosumer che surroga delle funzioni in precedenza svolte da prestatori d’opera umani. Perché il prosumer genera beni o servizi, mentre in consumatore puro genera valore. Negli anni Settanta si proponeva di considerare i telespettatori come lavoratori (Smythe 1977), perché le catene televisive vendevano la loro audience alle agenzie pubblicitarie, e sicuramente nella mobilitazione degli utenti in rete c’è un aspetto di riconoscimento comunitario (Fuchs 2010) o di passaparola (Caliandro 2011), ma ridurre a questo la produzione di valore sul web è non capire il passaggio di stato che ha luogo nel transito dal capitale semantico al capitale sintattico.
  23. Broca 2017.
  24. World Economic Forum (2013).
  25. Marx-Engels 1845: 24.

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