L’economista neozelandese William Phillips è noto per tre ragioni, che qui citiamo in ordine cronologico: per aver costruito la “macchina di Phillips” un marchingegno che simulava il modello economico keynesiano; per aver scoperto la relazione incorporata in quella che verrà definita la “curva di Phillips”; e per essere stato probabilmente l’economista più sfortunato della storia.
C’è uno stretto legame tra ciascuno di questi elementi e il lettore lo capirà fra poco se avrà la pazienza di leggere della vita e delle gesta del nostro. Il quale è figura interessante di per sé: nasce nel 1914 ed è pronipote di un inglese deportato in Nuova Zelanda per reati contro il patrimonio; l’isola era infatti utilizzata dall’Inghilterra per allontanare dalla madrepatria elementi considerati non graditi o pericolosi.
La famiglia si insedia a Ta Rehunga sull’Isola del Nord, una delle due di cui è composta la Nuova Zelanda. Dopo qualche difficoltà iniziale, il padre di William riesce ad avviare un’attività di produzione e vendita di latte: niente di eccezionale, ma la famiglia riesce a sbarcare il lunario con una certa tranquillità.
La “prima” vita di William Phillips
William, dunque, sembra avviato a subentrare al padre quando questi si fosse ritirato. Ma Bill è spirito inquieto: a 14 anni lascia gli studi e ottiene un lavoro presso la locale centrale idroelettrica. Il lavoro non è male: relativamente ben pagato e, se non piacevole, almeno di privo di rischi particolari. Ma anche questa sistemazione gli va stretta: non è uomo da fermarsi e dopo qualche anno prende armi e bagagli e si trasferisce nella “vicina” Australia.
Dovendo mettere insieme il pranzo con la cena, si dedica con discreto successo alla caccia ai coccodrilli, le cui pelli nel periodo fra le due guerre mondiali sono molto richieste per confezionare borse e valige di lusso. Per Phillips, l’Australia rappresenta un primo passo di avvicinamento verso l’Inghilterra e, appena le sue finanze glielo consentono, si trasferisce in Cina. Il territorio cinese era però attraversato da violenti sussulti rivoluzionari e Bill ci metterà molto tempo per arrivare in Inghilterra. Nel frattempo, scoppia la guerra e Phillips arriva a Londra giusto in tempo per essere arruolato, come suddito di Sua Maestà, nella Royal Air Force.
Dopo un breve addestramento, Bill viene rispedito in Estremo Oriente come pilota; viene abbattuto, ma si salva e si imbarca su una nave da guerra inglese che raccoglie i soldati inglesi sbandati durante l’offensiva giapponese. Stavolta però ha meno fortuna: la nave viene silurata e il Nostro viene fatto prigioniero. Passerà i successivi tre anni “ospite” dei campi di concentramento giapponesi dove si ingegna a costruire un fornello per scaldare il the e, soprattutto, una radio per ricevere le notizie della guerra. Il tutto con pezzi sottratti, con grave rischio, ai giapponesi che in questi casi non andavano troppo per il sottile.
La laurea in economia e il Moniac
Finita la guerra, e fortemente provato per le condizioni di vita che aveva sopportato in cattività, torna al paesello, ma solo per rimettersi in sesto: appena le sue condizioni di salute glielo consentono, riparte per Londra. La capitale inglese del dopoguerra non è certo un posto ideale per vivere, ma Phillips si adatta facilmente: si iscrive alla London School of Economics laureandosi in sociologia, ma ben presto si accorge che non è quello il campo di indagine che gli interessa: ha sviluppato una forte passione per l’economia e quindi in poco tempo si laurea.
A questo punto, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, brucia le tappe: ottiene un Ph.D. e poi una cattedra, sempre alla London; nel frattempo concepisce un progetto originale, quello di costruire una “macchina” in grado di visualizzare fisicamente il circuito economico e le interazioni fra le sue componenti: consumi, investimenti, spesa pubblica, import-export. Quanti fra i lettori sanno qualcosa di economia, si saranno resi conto che si tratta di una rappresentazione tipica della teoria economica, in particolare di quella di derivazione keynesiana, che alla fine degli anni Quaranta rappresentava il mainstream.
Costruisce con le proprie mani il MONIAC (Monetary National Income Analogue Computer): uno “scatolone” poco più piccolo di una cabina telefonica entro cui circolava del liquido di diversi colori, ognuno dei quali rappresentava una diversa componente del PIL di un ipotetico Paese. Attraverso l’apertura di rubinetti e valvole, per gran parte recuperati da un bombardiere Lancaster in disarmo, si poteva visualizzare l’effetto che avrebbe avuto, per esempio, un aumento dei consumi, una riduzione degli investimenti o una maggiore spesa pubblica.
Phillips e il prototipo del MONIAC (Phillips è quello con la sigaretta in mano…)
L’idea di Phillips non era particolarmente originale: due secoli prima François Quesnay, un medico di corte francese “addetto” alle cure della favorita del Re, M.me de Pompadour, aveva immaginato il sistema economico con un funzionamento molto simile al flusso sanguigno, ma certo non aveva pensato di rappresentarlo fisicamente. Phillips, invece, costruisce il suo marchingegno in modo da rendere tangibile la relazione che lega le diverse componenti dell’economia.
Probabilmente battezzare un simile strumento come un computer, per quanto analogico, può sembrare oggi vagamente eccessivo. Eppure, il MONIAC era proprio questo: una “macchina” per simulare in forma semplificata le interazioni fra i soggetti economici. Niente a che vedere con quanto oggi si può fare con software alla portata di tutti come Excel o in un prossimo futuro con l’applicazione di software per la gestione di big data, ma per gli anni Quaranta non era poi male.
Per di più, il MONIAC presentava il vantaggio di essere uno strumento didattico efficace proprio perché non aveva nulla di virtuale, pur restando ovviamente una semplificazione del mondo reale. Molte università ne intuirono le potenzialità ed infatti commissionarono a Phillips la costruzione di nuove macchine dopo quella costruita nel garage dove abitava (c’è sempre un garage di mezzo…). Ogni nuovo MONIAC presentava qualche perfezionamento, ma in sostanza era sempre la stessa macchina: con l’andar del tempo diventò un po’ più grande e con le pareti completamente trasparenti in modo da rendere più agevole vedere i flussi che circolavano al suo interno, ma lo schema restava quello originario.
La “crisi” della teoria keynesiana e la “curva di Phillips”
Progressivamente, però, gli economisti persero interesse per quella simulazione. Il motivo era semplice: lo schema keynesiano “sottostante” al MONIAC non sembrava più adeguato a spiegare la realtà economica. Molti docenti abbandonarono l’uso didattico della creatura di Phillips, considerandone troppo elementare il funzionamento.
Oggi forse qualcuno di quegli aggeggi arrugginisce negli scantinati di qualche università ma per la gran parte possiamo darli per dispersi. Per certo una macchina di Phillips è ancora esposta nei locali della banca centrale neozelandese, ma si tratta di un omaggio dovuto all’economista locale più importante.
Nel frattempo, Bill aveva spostato i suoi interessi verso altro e, nel 1958, pubblicò un articolo destinato a rivoluzionare per breve tempo il dibattito teorico: servendosi delle serie storiche inglesi, ipotizzò che esistesse una relazione inversa fra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione.
Questa relazione venne incorporata nella “curva di Phillips: se si vuole tenere bassa la disoccupazione, occorre rassegnarsi a sopportare un tasso di inflazione relativamente elevato. Può sembrare un’alternativa non accettabile, ma in omaggio al principio per cui non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, rappresentava efficacemente il dilemma entro il quale si svolgono i dibattiti e le scelte di politica economica.
Per di più, a ben vedere, la “curva di Phillips” rappresentava in altra forma il circuito economico che il MONIAC faceva visualizzare: utilizzando il “serbatoio” della spesa pubblica si alimentavano consumi ed investimenti, ma, al tempo stesso, si alimentava l’inflazione e si riduceva il grado di competitività delle merci esportate. E viceversa.
La curva di Phillips ebbe vita breve: la relazione dimostrata dal suo autore si rivelò infondata nel corso degli anni successivi, sia per il Regno Unito che per altre economie. Phillips venne colpito da ictus e se ne tornò con le pive nel sacco nel suo Paese di origine, dove finirà i suoi giorni. Morendo nel 1975, gli viene quanto meno risparmiato il triste epilogo dell’egemonia teorica keynesiana, messa in crisi dalle vicende politico-monetarie di quegli stessi anni: una discutibile fortuna, ma in fondo per uno che era scampato ai coccodrilli delle paludi nella sua prima vita…