Dopo aver analizzato il futuro per capire il presente di Microsoft nell’intrattenimento, ci soffermiamo sul prodromo del futuro: Xbox Game Pass.
Da Xbox al Game Pass: come siamo arrivati all’intrattenimento del futuro
Xbox Game Pass: cos’è e il modello di business
Xbox Game Pass è il servizio di abbonamento a rinnovo automatico offerto da Microsoft a partire dal 2017, in tre diverse versioni (Console; PC; Ultimate) e che permette di scaricare e giocare a centinaia di videogiochi sul proprio dispositivo, per titoli aggiunti costantemente e per tutti i videogame degli Xbox Game Studios disponibili sin dal giorno del lancio (day one). Tutte e tre le versioni offerte, inoltre, includono delle scontistiche valevoli sul Microsoft Store.
Il prezzo d’ingresso minimo è di €9,99 mensili per le console (Xbox One e Xbox Series X|S); egualmente per la versione al computer (PC Game Pass) che pur essendo disponibile al medesimo prezzo, include a differenza dell’altra, anche EA Play: la raccolta di videogiochi motu proprio offerta dal publisher Electronics Arts a partire da €4,99 al mese.
La versione premium di €12,99 è l’Ultimate, la cosiddetta Netflix dei videogiochi (Murnane, 2018; Melani, 2021): essa esalta il bundling effect (Chiambaretto e Dumez, 2012) includendo la possibilità di giocare senza soluzione di continuità su qualsiasi dispositivo (console; PC; smartphone; smart TV) e in cloud (streaming), attraverso le più disparate periferiche (controller; tastiera e screen touch); l’abbonamento a Xbox Live Gold, cioè a dire il servizio a pagamento di Xbox (da €6,99 al mese) per videogiocare online; i Deals with Gold (scontistiche esclusive) cumulabili con quelle extra garantite proprio dall’Ultimate nonché i Games with Gold, ovverosia due videogame gratuiti al mese per un valore complessivo annuo di circa €500,00 (che rimangono indefinitamente nella propria libreria se facenti parte del catalogo Xbox 360 e in costanza dell’abbonamento medesimo, per i titoli di Xbox One e Xbox Series X|S): in altri termini, a consuntivo annuale, Xbox Game Pass Ultimate garantisce l’accesso a videogiochi dal valore complessivo di €5.600,00 (Apsey, 2021). Ben oltre undici volte in più del mero e del predetto Xbox Live Gold via Games with Gold.
In altri termini, Xbox Game Pass Ultimate permette di avere un’intera libreria di videogiochi, comprese tutte le nuove esclusive Microsoft e con la possibilità di poterli giocare in streaming su quasi ogni dispositivo dotato di schermo e connesso a Internet, indifferentemente che si possegga una console o anche solo un controller Xbox purché dotati di account Microsoft: mutando il concetto stesso di killer application invalso nel settore e creando il rapporto quanti-qualità/prezzo neo-paradigmatico più incredibile mai offerto al pubblico, dalla creazione del settore.
È per questo che il modello di business dell’Xbox Game Pass ha scosso, dalle fondamenta, l’industria dei videogiochi. Ancora oggi appare “troppo” per essere vero persino per i videogiocatori (u/00Dandy, 2021) e agli stessi addetti ai lavori (Tapsell, 2021; Pramath, 2020; Dring, 2021): che anzi ne sono intimoriti in prospettiva futura (Gilbert, 2020) o non comprendono di come possa essere finanziariamente realizzabile. «Semplicemente non lo consideriamo sostenibile», quale ipse dixit nientemeno che del Presidente e CEO di PlayStation – recte: Sony Interactive Entertainment (Dring, 2020) –. Eppure, Microsoft è in comfort (Dropped Frames, 2021) nel ritenerlo tale (Hryb, 2019) e nel perseverare su questa traiettoria protesa verso la leadership del settore (Piscatella, 2021).
Videogame e filosofia
Uno dei temi più noti della filosofia è l’interrogativo sulla natura materiale o immateriale delle cose, degli universali, degli eventi, della conoscenza. Platone incominciò la tradizione che attribuisce vera realtà alle entità ideali e Berkeley sconfinò nell’immaterialismo più totale, sostenendo l’idealità delle cose (Esse est percepi). Dal lato opposto troviamo gli stoici, gli epicurei e con loro Tertulliano e Hobbes. Siccome solo i corpi possono subire e fare un’azione, allora anche Dio e l’anima devono essere corpo. Nietzsche ribalterà Socrate, il Cristianesimo, Hegel, negando non solo il primato dell’intelligibile, ma anche la sua esistenza. Siamo solo membra da potenziare. La musica è arte per eccellenza ma non perché priva di corporeità, priva di riferimenti col mondo empirico, com’era per Schopenhauer. In questo senso Netflix, l’Xbox Game Pass, YouTube, Spotify sarebbero una specie di Iperuranio? Prive di supporto, hanno smaterializzato ogni forma di arte, guidandoci, come fossero l’Eros-filosofo del Simposio, alla sublimazione platonica del Bello? Cosa significa perdita di corpo per un corpo privo di vita?
In realtà alla base delle piattaforme di streaming attraverso cui consumiamo intrattenimento non c’è la reale perdita del supporto. C’è sempre bisogno di un server (enorme) in qualche “deserto” che renda possibile il nostro interfacciarci al catalogo; è necessario un dispositivo nelle mani del cliente (tablet, PC, console); il corpo umano e l’ambiente esterno restano conditio sine qua non per agire tra gli oggetti digitali: la cognizione non è fatta di soli processi nella mente, ma è un tutt’uno con la morfologia del soggetto, con la sua fisiologia, con la cultura di appartenenza, con gli altri oggetti e fatti sociali. Possiamo concludere che l’arte non è vero sia stata dematerializzata: vaglielo a dire, tu, a quelli che abitano vicino a qualche miniera di litio che per guardare una serie su Netflix non serve più alcuna “messa a terra”. Il giorno in cui il supporto verrà rimpicciolito fino a coincidere con la nostra mente, saremo noi il supporto fisico. La percezione, infatti, non può prescindere dalla sua relazione con il corpo: è sempre qualcosa di incarnato. Anche il Verbo e l’Idea si fanno necessariamente Corpo o Natura per poter tornare a sé, per avere auto-coscienza o Amore.
Con l’Xbox Game Pass c’è un passaggio in meno rispetto al disco: le case produttrici non hanno bisogno della stampa. È una ridondanza eliminabile o la sua funzione aveva un altro senso che un abbonamento in streaming non può assolvere? La differenza più palese è che l’arte era afferrabile con le mani. Il discrimine tra i supporti materiali richiesti per far funzionare Netflix e la videocassetta è l’afferrabilità. La catalettica era la rappresentazione vera per gli stoici, l’autentica comprensione delle cose e non è un caso che fosse paragonata all’atto di afferrare gli oggetti stringendoli in pugno. Oltretutto, l’essere umano è intelligente perché ha le mani oppure è intelligente e quindi ha le mani? Nel senso che sa usarle di conseguenza alla sua ragione? Se fosse vero il primo caso (quello sostenuto da Anassagora) il bisogno di impugnare sarebbe proprio un bisogno di sviluppare intelligenza.
L’esperienza di gioco, una volta inserito il codice dell’Xbox Game Pass, è assolutamente sovrapponibile a quella precedente, in presenza del disco. Manca tuttavia il bisogno umano di collezionismo, soddisfatto però dal «gotta catch em’ all!» nei videogame, dal merchandising eventuale e dal poter accedere a tutto il catalogo Xbox per un mese.
Attraverso il cloud abbiamo accesso, a un prezzo davvero contenuto, a una quantità di giochi, di musica e di film senza precedenti. In questo modo è possibile esplorare maggiormente i nostri gusti. Si può esercitare il libero arbitrio senza temere l’approccio “per prove ed errori”, senza dover rinunciare ad alcunché. Non si esperisce più il dolore di aver scelto male, di aver gettato il denaro per un videogame di nostro scarso gradimento. Si può scegliere e scartare con più leggerezza. La conseguenza è che il concetto di Sé si fa più plastico, modulabile (e forse meno responsabile).
In questa esplorazione estetica, tuttavia, in pochi si rendono conto di essere costantemente visti, tracciati, e in seguito analizzati. Netflix e Xbox Game Pass ci donano una sorta di bilocazione: siamo presenti due volte, sullo schermo di casa e sul cloud delle Big Tech, dove i dati delle nostre preferenze diventano una loro fonte di guadagno ulteriore.
Lorenza Saettone – Filosofa
Il vero punto di svolta
Se l’Xbox Game Pass esiste da cinque anni, il punto di svolta è però arrivato con l’avvento della nona generazione di console (Xbox Series X|S e PlayStation 5) nel 2020: quando Microsoft si è accodata all’onda lunga dell’attesa per il salto tecnologico, interpretandolo come volano per il servizio.
Da allora ha infatti intrapreso una comunicazione monotematica e interamente proiettata a diffondere awareness non già per i nuovi trovati tecnologici bensì espressamente e primariamente sulle bontà di Xbox Game Pass, specificatamente facendo emergere come ogni singola produzione degli Xbox Game Studios – per costi di produzione per un singolo videogioco ormai arrivati a mezzo miliardo di euro (Takahashi, 2018) –, sarebbe sempre stata assicurata fin dal lancio nel servizio e senza costi aggiuntivi. Evidenziando per differenzia l’altrimenti fisiologico aumento dei prezzi al consumatore dei singoli videogiochi ormai arrivati a €80,00 cadauno (Medvedenko, 2020; Serino, 2020).
I consecutivi lockdown derivanti dalla pandemia da COVID-19 (Barr e Copeland-Stewart, 2021) e la carenza di chip abbattentesi sulle disponibilità di console (Sparkes, 2021), ha contribuito al boost dell’Xbox Game Pass: dal giugno 2017, anno di lancio, avrebbe raggiunto non meglio specificati «milioni» di sottoscrittori nel 2018 (Levelup.com, 2018), per stimarsi a un massimo di 9,5 milioni nel 2019 (Jigsaah, 2019), ufficialmente sfondando il tetto dei 10 milioni ad aprile 2020 (Shaw, 2020), per poi giungere a 17 milioni a settembre (Nadella, 2021) dello stesso anno (+50% in soli cinque mesi) e segnare i 23 milioni nell’aprile 2021 (Corden, 2021), ovverosia più che raddoppiando gli iscritti in giustappunto dodici mesi. Arrivando a inizio 2022 con 25 milioni di subscriber effettivi (ovverosia più del doppio del totale di Xbox Series X|S stimate in sellout) quale nuova pietra miliare del servizio (Microsoft News Center, 2022) ancorché al di sotto delle auspicabili previsioni di 30 milioni di sottoscrittori per fine 2021 (Tassi, 2021).
I formati e le taglie dell’Xbox Game Pass si customizzano alle più disparate esigenze degli utenti: potendolo acquistare via app; via browser; via console e con carte prepagate, anche offline, in periodi da 1, 3 e 12 mesi cumulabili al massimo per consecutivi 3 anni. Inoltre, dando la possibilità di convertire in ogni momento i propri abbonamenti di Xbox Live Gold; Xbox Game Pass Console/PC ed EA Play nell’equivalente valore monetario di Xbox Game Pass Ultimate (exempla: 24 mesi di Gold in 8 mesi di Ultimate o 12 mesi di EA Play in 2 mesi di Ultimate).
L’Xbox Game Pass, scimmiottando la “sharing economy”, può essere condiviso tra più e differenti account (Garmetag) laddove si fosse abilitata una console Xbox Series X|S o Xbox One come Xbox home.
Con lo sbarco di Windows 11 alla fine del 2021, Xbox Game Pass è inoltre inserito di default e in evidenza all’interno del sistema operativo. Xbox Game Pass è così destinato a diventare un tassello fondante, fondamentale e armoniosamente incistato nell’ecosistema Microsoft ben al di là del recinto delle console e del marchio Xbox.
I nodi del business del Razors‐and‐Blades vengono al pettine
L’imperituro modello di business del Razors‐and‐Blades, che ha da sempre caratterizzato le console da gioco (Galehantomo, 2015; Pakhrani et al., 2020), col progredire della tecnologia, ha evidenziato e mostrerebbe sempre più i propri limiti (Dhebar, 2016), soprattutto nel business-to-consumer (B2C) a importante valenza prestazionale (come appunto gli hardware da videogioco). Un modello che differentemente dal mondo “reale” in virtù delle limitate varianti, forme e materiali analogici dei vari e dei veri rasoi da barba, ne conta esponenziali, di variabili: dipendendo dalle imprevedibili sfumature tecnico-tecnologiche dell’elettronica, ove singoli infinitesimi componenti, al loro combinarsi, possono infinitamente mutare le prestazioni e i corrispettivi costi. Come peraltro storicamente ricorda, negli hardware da gioco Sega che, pur presentando una console avvenirista, il Dreamcast (1998-2001), dovette ritirarsi definitivamente dal mercato degli hardware (Reeves, 2003). Esempio più recente accadde con PlayStation 3 (2006-2012), montante nientemeno che l’allora processore più potente al mondo qual era il Cell (Cork, 2019) e che portò la compagnia nel più profondo rosso della sua storia (Kaisha, 2008): pregiudicando la scalata a CEO del “papà” di PlayStation, Ken Kutaragi (D’Alessandro, 2014). Per comprendere ancora più approfonditamente come poche, singole componenti tecnologiche (tra cui, all’epoca, il Blu-ray Disc) potessero gravare sulla salute dei bilanci, si sappia che «il solo anno fiscale 2006-2007 (quello di lancio di PlayStation 3) ha quasi annullato tutti i profitti di Sony Game & Network Services della prima PlayStation (1996-2000) e, clamoroso, quel singolo anno rappresentò un buco maggiore di tutti i guadagni (Ahmad, 2021) dell’era PlayStation 2 (2001-2006), la console più venduta della storia (Sujay Vailshery, 2021)» (Federici, 2021).
Per fare un ulteriore raffronto e questa volta interno a Microsoft: la mera inclusione nel bundle di Xbox One di un singolo accessorio in più, il Kinect, rispetto la concorrente PlayStation 4, aggravò il prezzo della console di €100,00: fattore che contribuì all’insuccesso commerciale. Circostanza da cui è utile trarre un alert ulteriore per il marketing del prodotto: perché Kinect per Microsoft si tramutò da faro a scoglio, in quanto fu proprio il precedente track-record del primo dispositivo per Xbox 360 ‒ la periferica separatamente venduta più di successo della storia del gaming (Guinness World Record, 2011) e, più in generale, il dispositivo di elettronica di consumo più venduto di sempre (Microsoft, 2011) ‒, ad abbagliare la dirigenza Xbox: che lo considerò imprescindibile per la successiva generazione di hardware, includendolo di default fin dalla release nello starter pack. Dovendo poi, però, essere smantellamento manu militari dalla leadership di Phil Spencer (Hester, 2020).
Strategie e tattiche di marketing
Come ampia letteratura da tempo concorda (Cusumano e Gawer, 2002), essere leader e, ancor prima, essere un follower che vuole diventare leader, com’è esattamente ora Microsoft nella videoludica, ha comportato un’espansione repentina nel lato dell’offerta: diventando in pochi anni uno dei più grandi publisher mai esistiti; espandendo al contempo i «system effect» (Varian, 2003; Cournot, 1838), incrementando i partner attraverso il loro supporto a prescindere dalla dimensione, piccoli e indipendenti o strutturati e grandi, così assicurandosi un’assortita ludoteca di terze parti per l’acquisto tradizionale dei consumatori e pro futuro da inserire nell’Xbox Game Pass.
Microsoft, infatti, ha dimostrato, indirettamente e direttamente, che l’Xbox Game Pass incrementa il mercato, terze parti incluse: gli utenti spendono il 50% in più dei non abbonati per l’acquisto di titoli e downloadable content (DLC); il 90% dell’utenza ha provato almeno un videogame che non avrebbe mai altrimenti comprato; del 40% e del 30% è stato invece l’incremento di titoli e generi sperimentato. I publisher di terze parti presenti sul servizio hanno inoltre incrementato fino a otto volte le interazioni che i consumatori hanno avuto con le rispettive proprietà intellettuali fino a quadruplicare le ore complessivamente trascorse con i titoli EA inclusi nell’EA Play nel bundle dell’Xbox Game Pass Ultimate (Tuttle, 2021).
Xbox ha inoltre approntato specializzazioni interne al fine di instaurare e maturare rapporti strategico-commerciali con sviluppatori di piccole e di piccolissime dimensioni attraverso ID@Xbox: a prescindere dallo stadio di sviluppo e per un supporto che trasversalmente coinvolge programmazione, marketing, produzione, distribuzione e finanziamento. Garantendo infine il network effect (Uzzi, 1996; Reagans e McEvily, 2003) del Microsoft Store e, soprattutto, dell’Xbox Game Pass con anche l’inclusione di pagamenti anticipati agli sviluppatori, prescindenti l’immediato successo commerciale del videogioco (Tuttle, 2021).
I nuovi fronti delle “Console war”
La partita aperta da Microsoft con Xbox Game Pass è sintomo di un mercato che sembra voglia provare nuove strade, alternative alla classica “Console War”. Sebbene la concorrenza, soprattutto tra Sony e Microsoft, sia ancora reale (ovviamente e per fortuna), i territori dove si gioca questa partita tra le due parti sono diversi e le stesse sembrano più aperte a nuove idee. Sembra si voglia riconoscere la libertà di acquisto del consumatore, dove sì, scegliendo il proprio ecosistema si trovano maggiori vantaggi, ma dando comunque la possibilità di optare per alternative. Tra queste, il mondo computer.
Un giocatore munito di un buon computer ha accesso a tutto il catalogo Xbox e allo stesso servizio Xbox Game Pass, traendo perfino maggior vantaggio dal proprio abbonamento rispetto a un utente Xbox Series X|S: la differenza a livello di giochi presenti in lista tra le due piattaforme è infatti davvero ridotta e sempre più allineata (inoltre, le esclusive Microsoft saranno disponibili al day-one anche per gli utenti PC). Quel che però più sorprende è anche l’apertura da parte di Sony al mondo del computer: sempre più esclusive classiche di PlayStation stanno approdando sia su Steam che su Epic Games Store. Certo, la differenza in termini di tempistiche è importante (esempio: God of War arriverà su PC nel 2022, ma il gioco uscì nel 2018 su PlayStation 4), ma è altrettanto innegabile che i giochi supporteranno ora la maggiore potenza eventualmente offerta dai computer degli utenti appassionati. L’unico limite attualmente esistente per entrambe le aziende è il mercato in un mondo dove pandemia di COVID-19 e altri fattori hanno determinato l’incapacità fisica da parte delle aziende di soddisfare l’altissima domanda per l’hardware. Sony e Microsoft faticano a offrire PlayStation 5 e Xbox Series X, mentre gli utenti PC si trovano a fronteggiare la crisi delle schede video (e si prevede una situazione possibilmente negativa anche per le CPU). I prezzi delle GPU sono schizzati alle stelle, con valori completamente fuori scala rispetto al reale prezzo di mercato delle stesse, soprattutto per quanto riguarda la serie RTX 30 di Nvidia, originariamente acquistate in stock da coloro interessati al mercato delle criptovalute. Tale crisi si è abbattuta, a scala, anche su altri prodotti, sia di Nvidia stessa che della concorrenza, in quanto l’interesse dei consumatori si è man mano riversato su tutto ciò che era possibile trovare sugli scaffali dei negozi, sia fisici che digitali.
La fortuna di Xbox Game Pass è che può essere appetibile anche per chi ha un portafogli meno largo, soprattutto in questo periodo storico: numerosi giochi sono ancora disponibili anche per utenti della precedente generazione di Xbox, per Xbox Series S (molto più facilmente reperibile) e per PC non necessariamente aggiornati alle ultime novità di mercato (a patto soddisfino i requisiti minimi del prodotto desiderato). Questa libertà di offerta è anche però conseguenza del mercato di cui si parlava prima: cosa succederà quando si vorrà spingere ulteriormente sulle macchine più performanti e la tecnologia di Xbox One e schede video e processori più “stagionati” si rivelerà obsoleta? Cosa accadrà quando sarà possibile soddisfare completamente la domanda a livello di hardware che si è generata finora? E anche Sony, come si comporterà una volta che la situazione sarà rientrata sotto controllo? Personalmente ritengo sia ancora presto per tirare le somme, soprattutto in un mercato così atipico, caratterizzato, come visto, da una domanda non attualmente facile da soddisfare per mancanza di risorse e da un pubblico anche più “casalingo” rispetto a una situazione pre-pandemia. Anche i giochi finora usciti su PlayStation 5 e Xbox Series X|S non hanno sempre mostrato caratteristiche “esclusive” di nuova generazione se non in limitati casi (Returnal, Ratchet & Clank: Rift Apart, The Medium, ecc.), si pensa anche per via delle difficoltà nel soddisfare la domanda di mercato delle “nuove” piattaforme da gioco. Sono tutte questioni che è lecito porsi per il futuro del mercato. Se Microsoft continuerà a investire nel modo giusto su Xbox Game Pass, il suo valore potrebbe perfino crescere e rendere più appetibile l’offerta dell’azienda di Redmond. Ci attende un futuro affascinante e pieno di risposte a tante domande di vitale questione.
Jane Romero – Content creator ed editor freelance
I fattori del successo di Xbox Game Pass
A livello strettamente comunicativo, molto importante è sapere che fin dal lancio del servizio ma soprattutto con l’avvento dell’ultima generazione di console nel 2020, Microsoft pubblicizza monotematicamente l’Xbox Game Pass: spot pubblicitari (Gutierrez, 2019); fiere (Di Marco, 2021); cartellonistica (Emil, 2018); sponsorizzate sui social network e guerrilla marketing (Xbox IT, 2021) nonché risultando dallo stesso sito Internet del marchio con proscenio su Xbox Game Pass. Ciò a ennesima dimostrazione dello shift definitivo (ma non traumatico) che Xbox ha impresso dalle console al servizio.
Infine, «il marketing più potente [di sempre]: il passaparola», riferisce il General Manager Xbox Games Marketing, Aaron Greenberg: «Perché se vai a dire a uno dei tuoi amici più cari, «Devi farti Xbox Game Pass!» è molto più efficace di qualsiasi marketing che una compagnia possa fare. Per questo vogliamo continuare ad aggiungere sempre più valore [a Xbox Game Pass]: cosicché a te venga spontaneo e anzi tu ti senta bene nel consigliare questo servizio ai tuoi amici. Noi siamo convinti che a lungo termine questa sia la cosa migliore e che avrà molti benefici» (What’s Good Games, 2020).
Positiva è stata la market segmentation di Xbox Game Pass al suo interno; meno, rispetto i paralleli servizi di Xbox e parimenti positiva dinanzi la concorrenza.
Al suo interno in primis perché la product line pricing dell’Xbox Game Pass Console e PC non ha minimamente, mai, intaccato le prestazioni dei videogiochi (come fa invece Netflix per l’abbonamento da €7,99 in bassa risoluzione e a €12,99 in FULL HD, risoluzioni grafiche ormai obsolete nel gaming), secondariamente perché per €3,00 in più al mese, con l’Ultimate fissato a €12,99, l’utente ha garantito tutti i benefici dell’universo Xbox (qual è Xbox Live Gold) e addirittura un’intera offerta di terze parti qual è EA Play nonché la facoltà di giocare, anche in cloud, su ogni dispositivo – bundling effect (Bakos e Brynjolfsson, 2000) –.
Inoltre, in ossequio alla price discrimination (Landsberger e Meilijson, 1985), per tutti i nuovi utenti Xbox Game Pass Ultimate sono offerti tre mesi di abbonamento a €1,00.
Xbox ha invece sofferto nel voler discriminare ulteriormente i vantaggi tra Xbox Live Gold e Xbox Game Pass Ultimate.
Nel gennaio 2021 ha più che raddoppiato il costo dell’abbonamento mensile di Xbox Live Gold, da €4,99 a €10,99 mensili. Il feedback della clientela è stato tale per cui Microsoft ha cancellato ex tunc il rincaro. È verosimile che Microsoft, con ciò, abbia cambiato tattica ma non strategia, essendo in presumibile previsione di medio periodo la volizione di abolire Xbox Live Gold o comunque fortemente marginalizzarlo in favore del nuovo protagonista, Xbox Game Pass Ultimate. In tal senso, una possibile strategia sarebbe, una tantum, commutare 1:1 le tempistiche di Xbox Live Gold in Xbox Game Pass Ultimate imputandole a vero e proprio costo di marketing; nel frattanto, previamente ritirando le chiavi di Xbox Live Gold disponibili sul mercato e comunque garantendo, fino alla loro scadenza fisiologica, che tutti i codici ancora in circolazione vengano accettati e commutati nel corrispondente valore valutario di Xbox Game Pass Ultimate.
Il confronto tra Xbox Game Pass e PlayStation Now
Rispetto la concorrenza “tradizionale”: l’unico rivale di Xbox Game Pass sarebbe PlayStation Now. Ma il confronto quanti-qualitativo, allo stato, parrebbe incongruo per considerarlo in medias res un diretto competitor. Anzitutto perché PlayStation Now ha un’esperienza in streaming qualitativamente inferiore a Xbox Game Pass Ultimate; secondariamente perché il catalogo del primo conterrebbe solamente videogiochi “passati” (di PlayStation 1, 2, 3 e 4: quando è ormai in commercio PlayStation 5); poi perché per giocare online sarebbe richiesta la sottoscrizione di un altro abbonamento, PlayStation Plus. Portando così la spesa complessiva dai rispettivi €9,99 e €8,99 mensili a €18,98, contrariamente ai €12,99 di Xbox Game Pass Ultimate: €5,99 in più.
Sony dopo aver aperto il varco col cloud nel videogame con l’acquisto della stratup Gaikai (Pikover e Takahashi, 2012) avrebbe perso il vantaggio competitivo: pur rilasciato nel 2014, a tutto il 2020, PlayStation Now conta oggi soltanto 3,2 milioni di abbonati (Ryan, 2021). Sei volte meno dell’Xbox Game Pass.
La situazione, in prospettiva futura, è tanto delicata e dirimente che il presidente e CEO di Sony Interactive Entertainment, nell’arco di soli due mesi (settembre-novembre 2020), è passato dal definire non sostenibile e non replicabile il modello di business dell’Xbox Game Pass (Dring, 2020) a «ci saranno novità in arrivo» (Medvedenko, 2020). Novità puntualmente arrivate nel marzo di due anni dopo, quando lo stesso ha annunciato (Ryan, 2022) la fusione di PlayStation Now e di PlayStation Plus derivante il nuovo servizio “uno e trino” di: PlayStation Plus Essential (€8.99 mensili o €59,99 annuali), PlayStation Plus Extra (€13.99 mensili o €99,99 annuali) e PlayStation Plus Premium (€16.99 mensili o €119,99 annuali). Esso rappresenta la massima concessione con il minimo sforzo che Sony potesse permettersi di fare per coagulare la potenziale emorragia di utenza PlayStation perché convertitasi alla sinfonia Xbox Game Pass della “pifferaia” Microsoft. Benché a Tokyo non scommettano sul modello a sottoscrizione come prevalente in questo decennio (Dring, 2022), PlayStation Plus Extra e PlayStation Plus Premium abbreviano considerevolmente, senza però colmare, un altrimenti evidente deficit dinanzi la pantagruelica offerta di Xbox Game Pass (per quanto rimangano esclusi fin dal debutto i tradizionalmente eccellenti, e quindi proprio per questo, titoli first-party di Sony). Se prima Xbox Game Pass, de facto, poteva comunque dirsi privo di un tradizionale, concreto, diretto e corrente competitor, dal giugno 2022 (data in cui si praticherà l’annunciata fusione di Sony), per la prima volta, avrebbe dinanzi un’alternativa non così sideralmente distante, che potrà perlomeno intaccare la quota del 60% sull’intero mercato del servizio videoludico a sottoscrizione raggiunta oggi da Microsoft (Lee, 2022).
Dove Sony primeggia, è con il fatturato del network complessivo: nel 2018, con il solo servizio online PlayStation, la compagnia giapponese ha incassato più dell’intera Xbox e Nintendo messe assieme (Ahmad, 2019).
C’è un ulteriore dettaglio, questa volta tecnico, da evidenziare: PlayStation, in riferimento all’intero funzionamento del network online, si serve di una partnership strategica proprio con Microsoft Azure (Microsoft, 2019).
Nintendo è l’unica società di hardware videoludico a non avere fortemente puntato sull’online ancorché assicurando di sperimentarlo da anni, al fine di voler trovare l’interpretazione per supportarlo a proprio modo (Nintendo, 2021).
Con il lancio di Xbox Game Pass è come se Microsoft avesse spuntato ogni singola casella del “marketer provetto” degli ultimi decenni di letteratura scientifica sull’argomento.
Perché Xbox Game Pass è una vera rivoluzione
Chi segue con una certa assiduità il mercato videoludico non può che essere a conoscenza di quello che, ogni giorno che passa, assume sempre di più il ruolo di proverbiale terremoto per l’intero medium in questione: stiamo parlando di Xbox Game Pass!
Difatti sì, Microsoft ha deciso all’improvviso, quasi da un giorno all’altro, di cambiare per sempre le regole del mercato videoludico e con esso anche il comportamento del pubblico. Il servizio in abbonamento del colosso americano presenta infatti allo stato attuale dei fatti una line-up di videogiochi a dir poco imponente, che a fronte di una spesa mensile piuttosto esigua permette a tutti i suoi gamer di poter giocare senza soluzione di continuità a tantissimi titoli del momento, siano essi appartenenti alla scena di sviluppo indipendente che ai tripla A.
Ed è proprio l’assoluta eccellenza della folta schiera di titoli presenti nel servizio di Microsoft ad aver sparigliato per sempre le carte in tavola, con Sony Interactive Entertainment che con la sua PlayStation si sentiva adagiata comodamente sul trono da regina del mercato ma che ora, inevitabilmente, percepisce alcuni piccoli scricchiolii che potrebbero suggerire la necessità di sposare un netto cambiamento alla tipologia del proprio business.
A causa di Xbox Game Pass, infatti, è sempre più complicato per alcuni giocatori “cacciare fuori” ben €70,00 (che con la next-gen si trasformano addirittura in €80,00) ogni volta che sentono il desiderio di acquistare il titolo del momento, con il servizio in abbonamento dell’azienda di Redmond che ha reso molto più semplice, agile e se vogliamo alla portata di ognuno, scaricare il gioco del momento di cui tutti parlano così da gettarsi subito nell’azione in compagnia dei propri amici.
Sostanzialmente non vi è più quella fastidiosa barriera rappresentata dal prezzo di listino della nuova produzione tripla A, acclamata dalla stampa specializzata, ma che una nutrita fetta di pubblico è impossibilitata ad acquistarla non perché disinteressata al prodotto ma piuttosto perché semplicemente troppo, troppo cara per le proprie tasche.
Giocare ai videogiochi, e farlo mantenendosi sempre aggiornati non lasciandosi sfuggire le opere più importanti offerte del mercato, è una cosa piuttosto impegnativa per ben più di un giocatore. Ed è proprio in questa logica che si infila con incredibile prepotenza Xbox Game Pass, offrendo videogiochi per tutti, indipendentemente dalla propria capacità di spesa, con massimo circa €13,00 al mese che si rivelano più che sufficienti per provare con mano buona parte delle produzioni videoludiche offerte dal medium di riferimento.
Quindi mentre analisti di mercato (o presunti tali) si esibiscono in ricerche volte a capire l’eventuale sostenibilità dell’Xbox Game Pass a medio-lungo termine, Microsoft ha dato il via a quella che ogni giorno che passa assomiglia sempre di più a una rivoluzione. Solo il tempo saprà dirci chi avrà avuto ragione, ma nel frattempo possiamo affermare, con una certa sicurezza, che non è mai stato così bello essere videogiocatori!
Alberto Rossi – Senior editor di Game-eXperience.it
Analogie e differenze: con le Big Tech, Spotify e Netflix
Microsoft sta attuando con Xbox Game Pass quello che all’Occidente non riesce dal 1983, cioè a dire dopo il crollo di Atari cui mai più si riprese fino a sfociare nella bancarotta di nove anni or sono (McCoy, 2013), la leadership dell’industria videoludica: è da allora che manca il primato di una società statunitense. Il vertice del settore si è infatti alternato per ben quattro decenni solamente tra le giapponesi Nintendo e Sony ‒ ma, estendendo la visione dall’ambito console all’intero videogaming, in verità essendo ambedue a loro volta complessivamente ora superate dal protagonismo cinese di Tencent, «la più grande società di videogiochi al mondo in termini di fatturato» (Che, 2018) ‒.
Nondimeno la competizione è diventata trasversale con Meta (già Facebook); Amazon; Apple e Google che da anni stanno investendo nel settore senza però mai riuscire a imporsi, almeno frontalmente.
Meta sarebbe l’unica che, tra tutte, emergerebbe: almeno formalmente grazie la realtà virtuale e il suo acquisto di Oculus VR per €1,74 miliardi, nel 2014 (Facebook, 2014). Da allora, però, avendo avuto una evidenza nel solo hardware (producendo tra i migliori e più economici caschetti mai esistiti), ma ancora essendo lontano dall’apparire come player rilevante o, addirittura, realizzante l’universo virtuale (recte: Metaverso) immaginato dal suo CEO (Zuckerbeg, 2019; Newton, 2021).
Amazon, da ormai una decade investirebbe annualmente oltre €400 milioni, ma non è mai riuscita a produrre videogame d’impatto: per la critica, per il pubblico o anche soltanto per il ritorno finanziario (Schreier e Anand, 2021). Il nuovo cloud gaming service di Amazon Luna sarebbe stato accolto tiepidamente in virtù di un business model difficilmente spiegabile per i consumatori e un’offerta contenutistica ancora insufficiente (Shtrubel, 2020).
Apple, pur godendo sulla consideration tech più incredibile della storia del capitalismo (Fortune, 2021; MBLM, 2021; Montgomerie e Roscoe, 2012) e avendo avuto un genio che da subito credette nel medium (indimenticabile fu la presentazione di Halo: Combat Evolved al Macworld di New York condotta nel 1999 nientemeno che da Steve Jobs, titolo che sarebbe dovuto uscire anche su Mac ma che poi divenne il franchise più iconico e in esclusiva dell’acerrima “nemica” Microsoft) nonché contando su un inimitabile ecosistema chiuso e fortemente fidelizzante (Laugesen e Yuan, 2010; Abdulrahman Abba, Muhammad e Kyari Mohammed, 2020), non è comunque riuscita ad andare al di là del modesto Apple Arcade e, soprattutto, da quell’Eldorado dell’App Store (piattaforma su cui ci si soffermerà a fine trattazione). App Store che, in termini di fatturato, comunque, cuba più dei tre produttori di console esistenti messi assieme.
Peggio di tutti e di gran lunga, però, ha fatto Google: che dall’annuncio nel 2019 (Google, 2019) della rivoluzionaria «non-console» Stadia, sistema interamente cloud di streaming videoludico, alla “dismissione” della business unit (Harrison, 2021), ha visto passare neanche due anni.
Rinuncia pressoché totale nel settore (mantenendo una mera commodity) comportante lo smantellamento e l’azzeramento sine die di tutti gli interni studi di sviluppo videoludici contanti circa 150 professionisti. Dismissione traumaticamente plastificata con le contestuali dimissioni da Google della veterana della videogame industry Jade Raymond ‒ poi passata immediatamente con Sony (Raymond, 2021) ‒.
In solo qualche anno l’Xbox Game Pass ha fatto la sua prima vittima eccellente. Poco prima, infatti, Phil Spencer di Microsoft dichiarò come, ormai, i competitor nei videogiochi del mondo 4.0 non fossero più le “tradizionali” Sony e Nintendo bensì (Amazon e) Google: «quando si parla di Nintendo e Sony, li rispettiamo molto, ma noi vediamo Amazon e Google come i nostri principali concorrenti del futuro. Non è per mancare di rispetto a Nintendo e Sony, ma le tradizionali società di videogiochi sono un po’ fuori posizione. Certo, potrebbero provare a ricreare Azure, ma negli anni abbiamo investito decine di miliardi di dollari nel cloud. Non voglio litigare per guerre di formato con Nintendo e Sony mentre Amazon e Google si stanno concentrando su come portare i videogiochi a 7 miliardi di persone in tutto il mondo. Perché, alla fine, questo è l’obiettivo» (Schiesel, 2020).
Volendo concludere e riassumere l’analisi concernente le Big Tech, attualmente, la più temibile rimarrebbe Amazon con il suo “onnivoro” Amazon Prime: laddove dovesse ivi includere Amazon Luna, potendo contare su almeno 200 milioni di sottoscrittori, il servizio di videogame in streaming passerebbe da avere poche migliaia a decine di milioni di potenziali videogiocatori. Inoltre, la compagnia conta su Amazon Web Services, una delle poche infrastrutture cloud in grado di competere con Microsoft Azure. Infine, Amazon avrebbe il primato della piattaforma di live streaming più popolare al mondo, Twitch.tv, a cui proprio Microsoft ha già dovuto arrendersi con Mixer.
Eppure, lo sviluppo software dei videogiochi rimane uno dei più ostici business cui addentrarsi (Schreier, 2021) e che finora, Amazon inclusa, non è riuscita a insidiare (Epstein, 2021).
L’Xbox Game Pass è davvero la Netflix dei videogiochi?
Apparendo così simile: l’Xbox Game Pass è davvero la Netflix dei videogiochi? No.
La stessa similitudine è tollerata da Microsoft perché di facile comprensione per la platea dei consumatori – differentemente dal funzionamento di Google Stadia (Sun, 2019) –, ma risultando appunto tollerata, non avallata, anche considerando le pubbliche dichiarazioni della dirigenza: «quando le persone usano “il Netflix dei giochi” [per descrivere Xbox Game Pass], mi irrito» (Gamertag Radio, 2020).
Xbox trova nell’Xbox Game Pass soltanto una parte, forse ancora maggioritaria, ma soltanto una parte, delle proprie entrate. Potremo dire che l’Xbox Game Pass garantisce un ulteriore, e questo sì, “costante”, afflusso di contanti nelle casse di Microsoft ma, assolutamente, non essendone l’unica fonte.
Al netto della vendita, al più, in pareggio delle console e che mai ha garantito un singolo € di profitto alla compagnia – domanda: «Microsoft ha un profitto sulla vendita di una console Xbox?», Lori Wright, allora Vice President, Business Development | Gaming, Media & Entertainment: «No» (Warren, 2021) –, Xbox continua infatti sempre a vendere i videogiochi, digitalmente o pacchettizzati, nel proprio store e dai rivenditori di elettronica. Fattispecie questa che non caratterizza Netflix se non eccezionalmente nel suo primo quarto di secolo (Netflix, 2020).
Inoltre, come già anticipato, l’intrinseca interattività del medium videoludico permette di integrare tutti i generi e i sottogeneri di monetizzazione dei videogame (freemium; game as a service, free-to-play, etc.), oltre la vendita in sé: compreso il Metaverso stile Fortnite – che, proprio per questo, Epic Games non ha voluto includere all’interno della libreria (Warren, 2021) perché intende l’Xbox Game Pass come ecosistema alternativo al suo Metaverso (Ball, 2020; Epic Games, 2021) –. L’Xbox Game Pass non è un (singolo) videogioco e non si limita a essere un singolo modello di business, ma è un modello integrante più sistemi per arricchire l’ecosistema Microsoft: un ecosistema tendenzialmente adattantesi ai molteplici e tra i più disparati usi dei consumatori e publisher, ecosistema che comunque non nega ma anzi ingloba la pregressa tradizione di cinquanta anni di videoludica.
Per una monetizzazione, quindi, che non si “limita” a scimmiottare l’ultima tendenza nell’industry (modello free-to-play) e non si “limita”, come per Spotify o per Netflix, nel fornire l’all inclusive di un abbonamento: ma comunque le comprende entrambe.
È l’apparente solo marginale possibilità di vendere e acquistare videogiochi online e offline, comprese le edizioni per collezionisti, anche se offerti con l’Xbox Game Pass; i prequel e i sequel (che siano o non siano inclusi nell’Xbox Game Pass); gli spin-off; gli upgrade; i DLC e le skin facoltative dei titoli first e third party, a conferire il peso specifico impareggiabile rispetto le altre piattaforme streaming: componente rafforzata dall’interattività videoludica. E quest’ultima circostanza è fondamentale: perché soltanto il medium dei videogiochi permette di non concludere un’esperienza coi titoli di coda, mantenendosi all’interno del medesimo ecosistema.
Insomma, la “gloriosa rivoluzione” di Microsoft attraverso l’Xbox Game Pass, parimenti all’omonima inglese del XVII secolo, non farebbe scorrere il sangue dello status quo: non abbatte cioè traumaticamente, hic et nunc e sic et simpliciter la tradizione di un business eguale a sé stesso ma pone il cambiamento, vellutato, sul proprio migliore e più lucente piatto. Offrendolo al pubblico dei consumatori e lasciando che l’effetto network faccia il suo corso.
Dal punto di vista dell’infrastruttura, invece, la grande differenza è che Netflix si serve di Amazon Web Services (Allegretti et al., 2021); Microsoft ha ab origine e integralmente internalizzato l’Xbox Game Pass con Azure.
Inoltre, l’algoritmo, la connessione e l’architettura per lo streaming videoludico sono molto più complessi di quella dello streaming video: proprio perché solo il primo è interattivo (Ball e Navok, 2021). Prima di oggi il videogiocare in streaming era soltanto vaticinato ma mai realizzato semplicemente perché le infrastrutture non erano in grado di offrire un’esperienza appagante come l’Xbox Game Pass Ultimate. Quindi per Netflix essere la leader dello streaming video non automaticamente le comporta, tecnicamente, eguali prestazioni nello streaming dei videogiochi.
Segnatamente, il boost di Netflix è arrivato nel 2013, dopo House of Cards quale punta di diamante delle produzioni proprie, Microsoft conta già su vent’anni di titoli in esclusiva e più di due decine di studi di sviluppo: il vero problema sarebbe pro futuro perché con tre anni di lavoro si possono produrre ottimi film e serie tv ma con altrettanti anni non si possono sviluppare videogiochi memorabili. I tempi medi di sviluppo di videogiochi aumentano di generazione in generazione, parimenti ai costi, ormai caratterizzandosi come produzioni colossali senza paragoni negli altri media (Schreier, 2018).
Netflix partirebbe avvantaggiata sotto un parallelo punto prospettico, considerando che ha già oltre 200 milioni di sottoscrittori. Otto volte quelli di Xbox Game Pass. Inoltre, il servizio di gaming di Microsoft pur crescendo a ritmi serrati è lungi dal poter essere paragonato ai ritmi di Disney+ nello streaming video che, in un solo anno, ha superato i 100 milioni di sottoscrittori (cioè e adire compiendo in 365 giorni, quattro volte quello che Xbox Game Pass ha fatto in 1.825 dì (Schwartzel, 2021), ovverosia in mezzo decennio). Ecco allora che, in questa prospettiva, diverrebbe fondamentale per Microsoft convertire e capitalizzare quanto prima i suoi già 100 milioni di membri attivi a Xbox Live Gold (di cui la buona parte sono paganti): così passando immediatamente nella TOP 5 dei servizi di streaming ad abbonamento.
Chiaroscura è poi l’estensione territoriale tra i servizi: Netflix è già operativo in 190 Paesi al mondo, Xbox Game Pass è operativo in soli 41 Paesi. Quindi se Netflix ha raggiunto il suo limite fisiologico di estensione – esistono infatti 193 Paesi nel mondo (ONU, 2021) –, Xbox Game Pass ha vaste possibilità di espansione.
En passant si rifletta che con Xbox Game Pass, entro la fine del prossimo decennio, si potrebbe spostare il baricentro dell’industria videoludica, lato consumer che già aveva visto una staffetta dall’Oriente (1980-2005) all’Occidente (2006-), verso le “periferie” del mondo: Africa; America Latina e India (peculiarmente nelle megalopoli di siffatte regioni, ove si concentrerà la maggior parte della popolazione mondiale), ovverosia realtà con età media tra le più giovani in assoluto; con considerevoli tassi di crescita del PIL e con prospetticamente un tenore di vita medio nonché avanzamento tecnologico che finirebbe per corrispondere perfettamente con il pubblico target di Xbox Game Pass.
Teoricamente la Cina potrebbe essere il mercato più importante al mondo per Microsoft, e di più ordini di grandezza: ma le Autorità centrali contingentano, per non dire ostacolano apertamente, la fruizione del medium, particolarmente per le compagnie forestiere (Lichene, 2021).
Venendo all’offerta contenutistica, dopo l’esperimento proto-videoludico di Black Mirror: Bandersnatch del 2018 e di Stranger Things 3: The Game del 2019, non ci sarebbero validi motivi per dubitare che Netflix non insista con ulteriori produzioni ibrido-interattive o propriamente videoludiche, come tra l’altro ha da poc’anzi intrapreso (Shaw e Gurman, 2021): potendo creare partnership e/o acquisizioni con software house già esistenti oppure inaugurando un vero e proprio nuovo ramo societario. Quest’ultima sarebbe certamente la via più ardita e però Netflix avrebbe quel potenziale quid creativo che mancava a Google Stadia in virtù della propria esperienza pluriennale nel settore artistico-creativo-produttivo-intrattenente.
In tal senso, Microsoft dovrà perseverare nell’intessere proficui rapporti con evidenti vantaggi per tutti i creatori di videogiochi, piccoli e grandi, rifuggendo dall’insoddisfazione spartitoria dei ricavi di Spotify (Hesmondhalgh, 2020; Prey, 2020; Witt, 2019; Hodgson, 2021) ma, appunto, apparendo più come Netflix, garantente a fondo perduto la sperimentazione artistico-creativa delle opere rimpolpanti il catalogo nonché lauti emolumenti fissi a prescindere dal concreto successo del singolo titolo (Hadida et al., 2020; Pajkovic, 2021; Laporte 2019; Grothaus, 2019).
Per Microsoft la capacità di mantenere e attrarre talenti, anche sovversivi, sarà inoltre un fattore dirimente per insidiare l’eccellenza produttiva di PlayStation e Nintendo. In tal senso, la leadership “suprema” di Satya Nadella (Wadhwa; Amla e Salkever, 2021) e “settoriale” di Phil Spencer (Spencer, 2022), ne è garanzia granitica.
Puntando soprattutto sulla qualità e non solo sulla quantità dell’offerta. Già oggi Xbox Game Pass, conta 500 videogiochi dagli alti valori produttivi ‒ 208 videogame lì traghettati all’estate 2021 hanno almeno un punteggio Metacritic di 80 su 100; soltanto 11 hanno ottenuto l’insufficienza (Public spreadsheet, 2021) ‒. Inoltre, integrando l’Xbox Game Pass con le ultime console Microsoft, si può godere di una retrocompatibilità pressoché totale con tutte le pregresse generazioni di console (Xbox; Xbox 360; Xbox One): per un inedito traguardo nella storia del videogaming. Xbox Series X|S, a consuntivo, contano così sulla seconda ludoteca concretamente giocabile su una singola console più importante mai esistita, dietro solo a PlayStation 2 (retrocompatibile con PlayStation 1).
Dove Microsoft non ha quasi mai eccelso, è nella capacità di produrre videogame indiscutibilmente catalogabili come capolavori. Infatti, soltanto considerando le ultime acquisizioni finalizzate, tre titoli (The Elder Scrolls V: Skyrim del 2011 e Deathloop del 2021) appaiono nella lista di migliore videogioco dell’anno degli ultimi venti anni di GameSpot Game of the Year, e senza i titoli di ZeniMax Media ne avrebbe meramente uno, Gears of War del 2006. Traguardo che invece è riuscito ben cinque volte a Nintendo e almeno due a Sony. È allora qui che si contestualizzano le massive acquisizioni di rinomate software house videoludiche: per un impegno produttivo quanti-qualitativo nonché di diversificazione culturale e in procinto di ulteriore espansione ancora in divenire, anche nelle geografie (Stuart, 2021).
Obiettivo di peso specifico di Microsoft sarà pertanto quello di percepirsi altera rispetto al mero mainstream e produrre entro la fine del prossimo ventennio videogiochi che riescano almeno a duplicare il Game of the Year: diventando gli Xbox Games Studios, loro sì, sinonimia degli achievement di Netflix (Wikipedia, 2021).
(Si precisa, nel computo sopradetto: di avere empiricamente selezionato l’achievement del GameSpot Game of the Year perché, tra i tanti, risulta essere uno dei pochi eventi rilevanti a conoscere premiazioni di settore da oltre vent’anni; che formalmente non essendo ancora compiuta alla data di pubblicazione di quest’articolo l’acquisizione da parte di Microsoft di Activision Blizzard, di aver espunto i conseguimenti ottenuti da quest’ultima.)
Il prezzo
L’abbonamento premium è di €17,99 ma con la possibilità di condividere contemporaneamente 4 schermi, il che porta, stante l’inazione di Netflix di combattere il fenomeno sullo stile di Spotify, de facto, a €4,50 mensili a testa. È vero che anche Xbox Game Pass garantisce la possibilità di condividere l’abbonamento con più persone, ma in questo caso è necessario acquistare una console (Xbox Series X|S o Xbox One) per poi impostarla come Xbox home, quindi falsando il confronto. Netflix rimane pertanto più economico (lato utente).
La condivisione degli account è però un’arma di marketing a doppio taglio, considerando che nel lungo periodo intaccherebbe il business medesimo, come parimenti Netflix testimonia (S&P Global Market Intelligence, 2019). Ciò potrebbe pertanto avvantaggiare Microsoft perché i sottoscrittori di Xbox Game Pass sarebbero ab origine dissuasi dalla massiccia condivisione di default dell’account, se non già essendo possessori di una console o dopo averli “convinti” all’acquisto di una Xbox. Insomma, questa prospettiva rimane aperta e con molteplici per quanto interessanti variabili, da bilanciare, nell’arco delle prossime due decadi.
Volendo infine riassumere graficamente quanto fin qui scritto, si aggiornerà ed estenderà la tabella rinvenibile a pagina 4 di Lozić (Lozić, 2021): apportando di seguito delle modifiche, tra righe e colonne, evidenziate in grassetto. Specificatamente, la colonna Xbox Game Pass e le ultime due righe: «Reddito interno extra» (cioè la possibilità di avere entrate al di là del prezzo di abbonamento) e «Vendita dei prodotti» (ossia la vendita dei propri e/o altrui prodotti all’interno dell’ecosistema).
Tabella 1 Somiglianze e differenze tra “piattaforme” (fonte: Lozić con ulteriori illustrazioni del sottoscritto).
Spotify | Netflix | Xbox Game Pass | |
Forma organizzativa | Piattaforma streaming | Piattaforma streaming | Piattaforma ibrida |
Contenuti | Musica | Video | Videogiochi |
Monetizzazione | Sottoscrizione | Sottoscrizione | Sottoscrizione |
Business form | Platform economy | Platform economy | Platform economy |
Cost model | Zero marginal cost | Zero marginal cost | Zero marginal cost |
Proprietà dei contenuti | No | Principalmente propri | Cinquanta-cinquanta |
Audience (generazioni) | Soprattutto Z | Tutte | X, Y, Z e α |
Reddito interno extra | No | No | Sì |
Vendita dei prodotti | Impossibile | No | Sì |
Un ultimo inciso: Spotify non ha ancora chiuso un singolo anno fiscale con profitto (Spotify Investor, 2021); traguardo invece riuscito da tempo a Netflix ancorché a fronte di un debito di €10 miliardi (Netflix, 2021) e achievement ormai costante anche per Xbox (Nadella, 2021).
Xbox Game Pass incarna il concetto di fruizione accessibile e persistente del videogioco
I videogiochi hanno sempre avuto un’anima da bene di lusso. Produrre videogiochi è costoso e, di conseguenza, è costoso acquistarli. I nati negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta del 1900 ricorderanno i prezzi di listino intorno a 100mila lire (ma anche più alti) che trasformavano alcuni videogiochi da oggetto del desiderio a utopico miraggio.
La questione dei costi di listino è tutt’oggi molto dibattuta: sebbene gli studi abbiano dimostrato che il costo per MB, considerando le grandi dimensioni dei videogiochi odierni, sia andato a calare per il consumatore, nel 2020 ha fatto discutere il passaggio dei costi di listino delle edizioni standard da €69,99 sul mercato europeo agli attuali €79,99 — almeno per alcune produzioni maggiori.
In sintesi, giocare ai videogiochi richiede una spesa ingente, almeno per gli appassionati che non sono disposti ad aspettare un calo di prezzo e che intendono recuperare quanto prima tutte le più recenti produzioni, così da tenersi al passo con le ultime novità in termini di game design.
È in questo contesto che Xbox Game Pass si è inserito segnando una rottura, un prima e un dopo. Chi, prima, intendeva risparmiare sull’acquisto dei suoi videogiochi, doveva necessariamente aspettare che “invecchiassero”, che — non essendo più gli ultimi esponenti dell’evoluzione del medium — vedessero i loro prezzi calare. Oggi, invece, Xbox Game Pass include nel suo abbonamento mensile una libreria che si aggiorna anche con produzioni che vengono lanciate nel catalogo fin dal loro day-one.
Fuori dal mondo di Xbox Game Pass, insomma, esiste un mercato in cui una nuova uscita può costare un’ottantina di euro. All’interno di Xbox Game Pass, esiste una realtà in cui con una decina di euro mensili gli abbonati possono giocare le più recenti uscite di Bethesda Game Studios, di Ninja Theory, di Playground Games e di tutti gli altri team degli Xbox Game Studios.
A questi, si sommano third party che vengono inseriti nel servizio on demand sia tempo dopo l’uscita, sia a ridosso del lancio (pensiamo a Outriders e Back 4 Blood). È un fenomeno che segna un riallineamento delle forze in campo: l’equilibrio dato dal potere d’acquisto in mano al consumatore si sbilancia fortemente in favore della quantità, ma questo non significa che a rimetterci sia la qualità.
È anche con in mente questo che Phil Spencer ha puntato ad ampliare gli Xbox Game Studios: l’intenzione è quella di togliersi di dosso l’etichetta da “all-you-can-eat” videoludico, in cui si mangiano tante portate — ma più che altro abbondanti di riso, più che di succulento pesce.
Allargando gli orizzonti delle produzioni di casa Microsoft, sia con la manovra ZeniMax Media che con quelle precedentemente compiute – basti pensare a Ninja Theory, ma anche al team Obsidian – Xbox può così offrire una libreria ludica che si scrolli di dosso l’accusa di essere solo quantitativa e priva di grandi firme.
Il risultato, allora, è che abbiamo una parte dell’industria ancorata all’acquisto della licenza d’uso del singolo videogioco — e un’altra che, sulla scia di un mercato che già da tempo aveva virato ampiamente sul digitale rispetto alla classica copia retail, guarda invece all’accesso on demand sullo stile di Netflix.
La domanda che tutti gli studiosi del mercato videoludico hanno dovuto porsi è chiara: si tratta di un modello sostenibile? Quando è stata interpellata in merito, perfino PlayStation, con le dichiarazioni del CEO Jim Ryan, affermò che l’idea di lanciare giochi come The Last of Us o God of War come parte di un abbonamento mensile fosse insostenibile: «Questi giochi costano milioni di dollari, ben oltre i $100 milioni, nel loro sviluppo. Non pensiamo che sia un modello sostenibile».
Ryan aggiunse di ritenere che il modello potesse però essere sostenibile per «qualcun altro», alludendo ovviamente alle scelte di Microsoft.
Mentre gli appassionati, quindi, tutt’oggi immaginano un mercato delle produzioni più d’avanguardia diviso tra Sony e Microsoft, e quindi tra PlayStation e Xbox, la virata di Phil Spencer su Xbox Game Pass mette in realtà questi player in due prospettive differenti.
Non sorprende che Spencer per primo ritenesse suoi concorrenti non i progetti di PlayStation, ma più quelli di altri giganti dei media, come Netflix ed Amazon, molto più vicini alla visione di fruizione persistente che anche Xbox Game Pass ha fatto sua.
Il modello PlayStation, infatti, è basato sulle code brevi: Sony si aspetta un numero consistente di vendite a prezzo pieno concentrate nel periodo di lancio di una produzione, che vanno via via a scemare quando il videogioco invecchia. Sarà una nuova uscita a generare un nuovo picco — ed è il motivo per cui i grandi publisher calendarizzano con sapienza i loro lanci nel corso dell’anno.
Xbox Game Pass, invece, è un modello a coda lunga: da un singolo abbonamento, Microsoft non guadagna una cifra consistente come quella che Sony può incassare vendendo un prodotto AAA al massimo del prezzo, ma a sopperire a questo dislivello c’è la costanza delle entrate.
Un abbonato soddisfatto dalle possibilità di scelta continuerà a pagare, garantendo a Xbox un’entrata persistente. Oltretutto, quando si attivano servizi di questo genere, è facile “abituarsi” a fruirne ed è molto difficile convincersi a disdirli: se dobbiamo rinunciare a qualcosa o risparmiare un po’, ci negheremmo mai di giocare a tanti videogiochi per soli €12 (o poco meno di 10) al mese? Idealmente, è più plausibile che ci si tolga un piccolo sfizio in meno, senza rinunciare al comodo accesso a giochi che si considerano come propri — anche se lo sono solo fintanto che si tiene l’abbonamento attivo.
Se, da un lato, questo può anche aprire a problemi di paralisi da sovrabbondanza — perché sono molti i giocatori che passano la serata dedicata al gioco a sfogliare i titoli di Xbox Game Pass non sapendo quale scegliere — dall’altro il ragionamento sull’ambizione di Xbox non può non legarsi a un altro elemento chiave: Xbox Game Pass Ultimate.
All’interno di questo abbonamento è infatti inclusa anche la possibilità di giocare in cloud: per anni Microsoft ha lavorato sulla tecnologia xCloud e, a oggi, le sue blade permettono di avere performance assimilabili a quelle di una Xbox Series X, console al momento più potente sul mercato.
Questo significa che, mentre PlayStation propone dei videogiochi, delle “killer app”, che intendono spingere il giocatore verso l’acquisto delle sue console, Microsoft sposta l’intero focus sull’acquisto dell’abbonamento: i giocatori devono desiderare Xbox Game Pass, arricchito anche dalle esclusive degli Xbox Game Studios, e decidere liberamente su che piattaforma fruirne.
Se l’inclusione di Windows tra queste piattaforme è comprensibile, perché sempre parte dell’ecosistema Microsoft, in molti sono rimasti sorpresi dall’apertura a smartphone e tablet di ogni genere. Basta installare l’applicazione apposita, collegare un controller in Bluetooth e si può giocare senza il bisogno di acquistare nessuna console Xbox.
Esprimendo la sua visione, Phil Spencer spiegò di ritenere plausibile un futuro in cui si avvierà l’app per videogiocare semplicemente attraverso la propria smart TV, senza il bisogno di nessuna macchina specifica per eseguire i giochi. È la visione di Xbox Game Pass ed è il motivo per cui la divisione gaming di Microsoft è passata all’idea di focalizzarsi sul servizio immateriale, piuttosto che l’hardware di per sé.
Xbox Game Pass diviene allora espressione della visione di Microsoft per il futuro del gaming: una prospettiva che va di pari passo con quella vissuta con altri media. Senza nemmeno accorgercene, siamo passati dal collezionare VHS, DVD e Blu-ray al pagare un abbonamento a servizi come Disney+, Netflix, Amazon Prime Video e così via per vedere, quando vogliamo e sul dispositivo che vogliamo, i nostri film preferiti. Il motivo è presto detto: nel medium cinematografico (ma anche sulla serialità televisiva) il focus si è già spostato sull’oggetto dell’interesse — ossia l’opera mediale.
Nel mondo dei videogiochi, invece, per molti il focus è ancora posto sulla piattaforma da gioco. È come se per i film si discutesse del lettore DVD su cui si inseriva il disco per goderseli, anziché concentrarsi sull’opera in sé.
L’idea di Xbox Game Pass si origina dall’andare oltre a questa visione: si stacca dalla materialità del supporto fisico, cogliendo al balzo la palla già lanciata da una tendenza evidente sul mercato, per portare il videogioco a chiunque abbia uno smart device. Non avendo più necessità né di spendere cifre importanti per il singolo titolo, né di dotarsi di apparecchiature apposite, sono molte di più le persone che possono avvicinarsi al gaming e, potenzialmente, ogni utente con uno smartphone potrebbe diventare un videogiocatore, per una cifra così accessibile.
E se questo non è il futuro, considerando anche che la quarantena ha dimostrato che sono tantissime le persone che non videogiocavano solo perché non avevano ancora avuto modo di “scoprire” i videogiochi, non saprei davvero in che altro modo chiamarlo.
Stefania Sperandio – Editor-in-chief di SpazioGames.it
Xbox Game Pass è il futuro certo del business videoludico
Xbox Game Pass non è una rivoluzione. Xbox Game Pass non è il futuro. Xbox Game Pass non era imprevedibile.
Da tantissimi anni io e molti colleghi riflettiamo, scevri da pregiudizi, sugli sviluppi strutturali, in essere o in divenire, del mondo videoludico, non solo dal punto di vista culturale, piuttosto da quelli tecnologico ed economico.
Quando tempo addietro assistemmo alla progressiva digitalizzazione del sistema distributivo non fummo colti impreparati dall’esplosione del mobile gaming e dall’emergenza del digital delivery. Non ci stupimmo quando gli aggiornamenti dell’hardware da gioco, nello specifico le console, passarono da “generazionali”, nell’ordine del quinquennio, a cadenza biennale.
L’arrivo di un servizio quale l’Xbox Game Pass era nelle cose da tempo, ma, come spesso accade per tante innovazioni, richiedeva, per concretizzarsi, l’intervento e le risorse di un giovane outsider o, come in questo caso, di un competente runner-up alla disperata ricerca di colmare il gap accumulato dal leader di settore. Gap che sembrava, ad occhio poco attento, ineluttabile.
L’arrivo di un servizio quale l’Xbox Game Pass è solo uno dei tasselli del cambiamento nelle abitudini di accesso e consumo che affonda le sue radici nel processo di democratizzazione del prodotto videoludico, prepotentemente accelerato dal gaming mobile e dalla distribuzione digitale di cui si è accennato poco sopra.
Nuovi videogiocatori sono stati progressivamente alfabetizzati al medium tramite esperienze, cosiddette “casual”, a loro agile disposizione sul proprio cellulare e che si sono progressivamente strutturate in interazioni e dinamiche sempre più complesse, fino a identificarsi agli stessi prodotti che sono rintracciabili su sistemi di gioco più blasonati.
Contemporaneamente l’ubiquità, la velocità e la comodità di acquisto e il, quasi, immediato accesso al prodotto tramite download digitale hanno contribuito ad abbattere barriere e ad accrescere la base di utenza per un medium che, solo fino a poco di più di un decennio fa, sembrava il pascolo di una piccola nicchia di appassionati.
L’Xbox Game Pass pone strategicamente Microsoft in una posizione di vantaggio, non ancora attualizzato nei numeri, ma rilevabile nei fatti, nella sfida ad intercettare queste nuova massa di potenziali clienti acclimatatisi al videogioco per la situazione descritta, oltre che nella pratica certezza di poter soddisfare il giocatore di lunga data, sempre alla ricerca di nuove esperienze di ordine qualitativo e quantitativo.
Oggi l’Xbox Game Pass, come lo conosciamo e come racconta bene Luca Federici nella sua dissertazione, è non solo il futuro certo del business videoludico, ma persino quello più auspicabile.
L’abbattimento dei limiti di hardware necessari, con conseguente ipersemplificazione dell’accesso al prodotto, i vantaggi derivanti dal modello abbonamento, che diviene menu à la carte per l’utente smaliziato e all you can eat per quello più bulimico, integra tutti quei vantaggi dell’era digitale che, paradossalmente, in un mercato in cui il digitale è elemento fondante l’esperienza, non era ancora compiuta.
Incredibilmente abbiamo assistito, nel recente passato, ai colpi a salve di quelli che la stessa Microsoft riconosce oggi come i suoi competitor numero uno, Google e Amazon, che non sono stati in grado, per il momento e per ragioni diverse, ad interpretare il cambiamento nel modo più efficace.
Senza dilungarmi in questioni che sono ampiamente descritte nel testo di Luca Federici, l’Xbox Game Pass è risultato il progetto più concreto e di più probabile successo.
Probabile, non certo, perché le eccezioni di sostenibilità economica della formula sono più che legittime, senza il bisogno di scomodare un pubblico di potenziali miliardi di clienti che, data la complessità di fruizione e il necessario investimento di energie derivante dalla natura interattiva del videogioco, saranno sempre e comunque in numero enormemente inferiore a qualsiasi altra forma di intrattenimento che si offra ad un consumo più “passivo”.
E, dicevo, auspicabile, non solo in quanto la forma “abbonamento” abbatte altre obiezioni, mosse al mercato e agli acquisti digitali, quali quelle sui diritti di proprietà e/o di potenziale ereditarietà del prodotto acquistato, ma permetterà anche la preservazione dell’opera culturale che, residente su macchine virtuali, non sarà più soggetta al deperimento e all’obsolescenza delle piattaforme per cui era stato creato, ma resterà a imperitura consultazione da parte dei consumatori più interessati.
L’Xbox Game Pass è il frutto della riflessione e delle scelte di attori coraggiosi e visionari (sostenuti da un “gozziliardo” di milioni di dollari) che non vedevamo l’ora arrivasse nelle nostre case.
Ho parlato di processo e di tasselli.
I tempi saranno lunghi e le variabili in gioco numerose e di complessa gestione, ma noi non possiamo fare altro che tifare per il successo di questa formula.
Noi, che piratavamo un dischetto dell’Amiga 500 nelle nostre camerette. Noi, che tornavamo a casa con l’ultima cartuccia dorata di The Legend of Zelda: Ocarina of Time noleggiata con la paghetta del mese. Noi, dalla sete insaziabile che, da troppi anni ormai, chiediamo solo di poterci abbeverare ad una fonte inesauribile di evasione di grande qualità a costi accessibili.
Questo ci promette l’Xbox Game Pass. Noi incrociamo le dita. Nulla è scritto.
Alessio Pianesani – Direttore creativo di NetAddiction
Articolo tratto dalla tesi di Master of Laws (LL.M.) in Law of Internet Technology dell’Università Bocconi (Anno Accademico 2020/2021), nella materia delle Internet Technologies con supervisione della Chiarissima Professoressa Nicoletta Corrocher. Il contributo sarà sottoposto in inglese (con double-blind peer review) per MediaLaws nella collana di studi Law and Media Working Paper Series. L’elaborato, concepito come unica entità, per esigenze editoriali, è con la presente suddiviso in tre parti.