Il vero grande ostacolo alle ambizioni di Microsoft è stato l’osteggiamento del Google Play Store e dell’App Store di Apple allo sbarco del servizio di streaming nell’applicazione dell’Xbox Game Pass sugli ecosistemi di portabilità più usati al mondo, rispettivamente Android e iOS.
Non stupisce allora sapere che Microsoft parteggiò per Epic Games nella causa da quest’ultima intentata negli Stati Uniti d’America proprio contro Google ed Apple.
Da Xbox al Game Pass: come siamo arrivati all’intrattenimento del futuro
Epic Games vs. Apple: una battaglia legale per “procura”?
Dopo lunghe e riservate trattative tra le parti, nel 2020, non vistosi appagato, l’amministratore delegato di Epic Games, Tim Sweeney, diede mandato di deliberatamente bypassare i limiti e i controlli dei suddetti store, avallando la possibilità per gli utenti mobile di poter acquistare la valuta digitale del videogioco Fortnite direttamente dall’Epic Store corrispondendo una scontistica del 30% rispetto Play Store e App Store. Percentuale identica a quella delle royalty che Google e Apple chiedono a Epic Games e a tutti i publisher di videogame per essere lì presenti.
In quello stesso giorno, il 13 agosto 2020, Google e Apple interdicono sine die l’applicazione Fortnite dai propri negozi digitali.
Contestualmente Epic Games inaugura una massiccia campagna comunicazionale contro Apple (Fortnite, 2020), scimmiottandone uno dei suoi spot più famosi della storia, quello dell’allora “Big Brother” IBM (Cole, 2010). Contemporaneamente la stessa Epic Games intenta, presso la giurisdizione californiana, le rispettive cause contro Google ed Apple (Riehle, 2020). Con quest’ultima che farà seguire una controquerela (Gutierrez, 2020).
Le controversie di Epic Games contro Apple e Google risultano formalmente e sostanzialmente distinte, perché differente è la rigidità dei loro store (tanto è vero che, oggi, è possibile giocare all’Xbox Game Pass via cloud sul Play Store di Google ma giammai sull’App Store di Apple).
In questa trattazione si parlerà unicamente del più famoso processo, quello contro Apple: discusso in prima battuta tra il 3 e il 24 maggio 2021 presso il Tribunale federale di Oakland (California, USA).
La centralità dell’industria dei videogiochi risulta evidente: la stragrande parte degli incassi dell’App Store (da un minimo del 62% a un massimo dell’80%) è data proprio da questo medium (Law360, 2021).
La lite concerne gravi accuse per comportamento anticoncorrenziale e per violazione delle disposizioni antitrust (lo Sherman Act federale e il Cartwright Act californiano) che Epic Games muove contro Apple.
La strategia, anche extraprocessuale di Epic Games è stata quella di coalizzare i più importanti player dell’intrattenimento (non necessariamente ai fini di lucro), indirettamente o direttamente, sostanzialmente o formalmente, contro Apple: Microsoft; Meta; Spotify; Match Group e Digital Content Next. Riuscendoci.
Per fare questo, Epic Games ha imbastito un nuovo costrutto giuridico-concettuale: sostenendo il novum assoluto dell’App Store nel panorama mondiale, interpretandolo geneticamente diverso dagli store online delle console, Microsoft Store; PlayStation Store e Nintendo eShop.
Epic Games sostiene che ogni dispositivo Apple, e su tutti gli iPhone, siano sempre stati venduti con ampio margine di profitto fin dalla primissima unità hardware; mentre quasi tutte le console da gioco (Xbox e Sony), da sempre, sono vendute in perdita e al più in pareggio; solo Nintendo riuscendo a trarre profitto per singola console venduta. Questo a dimostrazione di uno storico e costante business del Razors‐and‐Blades: dov’è pertanto fondamentale la possibilità di guadagnare dalla vendita del software, per questo trovando legittimità l’imposizione del 30% di commissione che i platform holder delle console da videogioco richiedono per ogni transazione nei rispettivi store.
Per Epic Games è inoltre rilevante che in quei casi si parli espressamente di console da gioco. Ovverosia hardware unicamente usati per videogiocare (e che soltanto negli ultimi anni hanno visto aggiungersi al loro interno servizi ancillari come Disney+; Netflix e Prime Video). Insomma, sono device venduti in perdita e acquistati da consumatori che desiderano tendenzialmente, unicamente videogiocare, mentre gli iPhone avrebbero una connaturata generalità di utilizzi.
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Il profitto per singola unità hardware venduta e la generalità degli utilizzi che se ne possa fare nonché la non alternatività dello store proprietario, avrebbero pregiudicato lo streaming dei videogiochi da parte di Apple semplicemente perché la stessa lo riteneva per sé sconveniente in virtù della quasi totalità dei ricavi composta dai videogiochi su App Store. Sarebbe quindi per questo, continua Epic Games, che Apple ha originariamente e deliberatamente ostacolato l’approdo dello streaming videoludico (tra i quali Google Stadia e il già Project xCloud di Microsoft, poi integrato in Xbox Game Pass Ultimate) e il Metaverso. Ostilità che Apple avrebbe insormontabilmente apposto in virtù della posizione dominante creata con l’App Store. Infatti, conclude Epic Games, l’unica possibilità di integrare il videogame in streaming concessa da Apple sarebbe stata quella di equiparare ogni singolo videogioco a un’applicazione (con annessa, lunga e macchinosa procedura di controllo e comunque con sempre ultimo beneplacito di Apple), derivando così una pratica de facto commercialmente insostenibile.
È in questo quadro processuale che Microsoft (Gammill, 2020) ha appoggiato Epic Games, anche traendone finalità di marketing, facendo «la cosa giusta per gli sviluppatori e per i giocatori di videogiochi» (Spencer, 2020).
Durante il contraddittorio giurisdizionale alcuni manager di Microsoft sono stati chiamati a testimoniare da parte di Epic Games, a titolo personale, contro Apple. Tra questi si menzioni l’allora Vice President, Gaming, Media & Entertainment, Lori Wright, che durante la sessione testimoniale ha confermato come l’unica alternativa fornita da Apple a Microsoft per lo streaming dei videogiochi (al di là della procedura suddetta) fosse quella di fare girare i titoli unicamente via Web browser. Alternativa che Microsoft ha perseguito coadiuvata tecnicamente dalla medesima Apple ma che non avrebbe soddisfatto le aspettative commerciali di Microsoft perché l’App Store è creato by design per “bloccare” l’utenza al suo interno (walled garden).
Anche per questo, gli avvocati di Apple hanno fortemente contestato la presenza del management di Microsoft a testimonianza del processo indicando la loro presenza, piuttosto, come quella di una vera parte in causa del contenzioso: definendola una “guerra per procura” di Microsoft contro Apple che sarebbe combattuta interposta persona da Epic Games.
In tal senso, ora, si analizzi criticamente la sentenza (Case n. 4:20-cv-05640-YGR) esclusivamente per i punti qui invalsi perché di rilievo.
Si parta dalla fine, che poi vuole dire dall’inizio: il dispositivo della sentenza inequivocabilmente sancisce che, perlomeno nel primo grado di giudizio, Apple non è una monopolista ma si è macchiata, almeno in un’occasione violando la legislazione specifico-californiana, di concorrenza sleale: cosa che dovrà correggere ai sensi di questa decisione provvedendo a disporre una metodologia di pagamento esterna a quello dell’App Store, qualora i developer lo desiderassero, ancorché facendo permanere la quota del 30% di royalty che da sempre caratterizza le commissioni di Apple via App Store.
Anche in presenza di questa condanna, quindi, Apple ha grandi margini di manovra per continuare a fare valere le sue ragioni di preferenza diretta via App Store anziché traghettare fuori dalla piattaforma i suoi utenti (senza considerare che l’esecutività della prima statuizione è stata interinalmente sospesa nelle more del giudizio in fase di appello). Fattispecie che pertanto, per essere valutata in concreto, dovrà attendere lo scorrere temporale al fine di apprezzare come la strategia di walled garden di Apple, compatibilmente alla sentenza, si possa sostanziare in tattiche operative senza incorrere in una nuova sanzione.
Pertanto, si può dire che la statuizione non ha dato completamente ragione né alla parte attrice né a quella convenuta: seppur è vero che quest’ultima ha visto rigettate le accuse più dure e in termini quantitativi ha riconosciuta le sue ragioni per ben nove capi su dieci.
Mentre Epic Games invece è stata soccombente su tutta la linea fuorché per un capo ancorché di notevole rilevanza (repetita iuvant: sulla concorrenza sleale in materia del California’s Cartwright Act, permettendo così, di principio, la possibilità nell’App Store, da parte di qualsiasi sviluppatore, di poter implementare un differente ed esterno metodo di pagamento al di là di quello di default predisposto da Apple).
Di certo, la sentenza in questione è la prima e la più importante breccia (formale) in 45 anni d’esistenza di Apple e in 13 anni dalla creazione dell’App Store.
Non appare quindi strano del perché Epic Games si sia detta in buona parte delusa (Sweeney, 2021) e Apple invece rasserenata (Pezzali, 2021), per quanto è vero che la stampa internazionale e molti analisti abbiano fornito da subito pareri tra loro contrastanti sul giudizio in questione e su chi fosse, davvero, la reale “vincitrice”: dando nondimeno atto di un tendenziale favor per Epic Games.
L’intera questione giurisdizionale dimostra anche e al netto del caso di specie, quanto permanga arduo provare dinanzi a una Corte le proprie ragioni in termini di antitrust e concorrenza sleale (soprattutto se a essere parte del giudicato non sia un’autorità pubblica bensì un’altra corporate).
Immediatamente dopo la pubblicazione delle motivazioni sentenziali si è reso evidente che, per l’importanza di questo giudicato in tutto il settore dell’entertainment, Epic Games non rinuncerà a dibatterne in appello: quindi potenzialmente proseguendo il contenzioso per altri anni.
Si parta ora dalle conclusioni della giudice sulla tesi di un nuovo costrutto giuridico-fattuale sorto con l’App Store e differente da qualsiasi altro archetipo esistente (compresi Microsoft Store; PlayStation Store e Nintendo eShop), sostenuta da Epic Games: il Tribunale la rigetta, integralmente. L’App Store è teoricamente totalmente equiparabile, in potenza, a qualsiasi altro walled garden compreso quelli imperanti e invalsi nel mondo delle console da videogioco. Sennonché, sempre per la giudice, a livello strettamente processuale (normativa antitrust federale e concorrenza sleale californiana), l’App Store compete nel segmento delle transazioni di videogame digitali mobile (del complessivo mercato videoludico), e questo, de facto, la distingue dai rispettivi shop digitali di Microsoft, Sony e Nintendo.
Apple, in questo contesto complessivo, anche se ha, come ha, margini di profitto amplissimi fin dalla vendita dell’hardware (iPhone) e rappresentando ben oltre la metà del fatturato via App Store grazie ai videogiochi nonché costituendo una quota di mercato, nel segmento, di oltre il 55%: non permette di evincere, per ciò solo, che ci sia una condotta sanzionabile attraverso la normativa antitrust. Perché? In quanto Epic Games non è riuscita a dimostrare che questo risultato sia dipeso da comportamenti abusivi e non già dal merito intrinseco, percepito e sostanziale di Apple nel fare bene quel che tecnologicamente fa come produttrice di beni e di servizi. Scrivendo espressamente, la Corte, che: «Il successo non è illegale» (Case n. 4:20-cv-05640-YGR).
La cosa certamente clamorosa è che a distanza di 50 anni dall’esistenza commerciale del videogioco, si è giunti a una definizione di cosa sia il mercato dei videogiochi ma non a una definizione di videogioco in quanto tale: almeno da un punto di vista giuridico. Infatti, la Corte espressamente rinuncia dal definire se non del tutto genericissimamente cosa sia un videogioco – «La Corte lascia agli studiosi e ai commentatori le ulteriori questioni più spinose su cosa sia propriamente incluso ed escluso nella definizione di videogioco» (Ibid.) –. Non stupisce allora che, conseguentemente, ragionevolmente, si esenti dal definire giuridicamente anche e anzi soprattutto il Metaverso (un concetto talmente tanto recente da non avere una convenzione definitoria neanche tra gli esperti tech): «In questo momento, il mercato non sembra riconoscere il Metaverso e le sue corrispondenti modalità di gioco in Fortnite come qualcosa di scisso e separato dal mercato dei videogiochi» (Ibid.).
Venendo meno l’alterità di Fortnite dal videogioco cade anche qualsiasi paragone con differenti media, ambienti, realtà e fruizioni come per esempio lo streaming videoludico.
Giungendo invece alla presunta causa intentata da Epic Games come proxy di Microsoft e differentemente dalle intenzioni degli avvocati di Apple, la testimonianza della manager di Microsoft, Lori Wright, è stata ampiamente citata e avallata dalla Corte: e contrariamente a quanto potesse aspettarsi, per lo più proprio in favore di Apple.
In tal senso è opportuno precisare più elementi: la giudice sentenzia, in fatto, che il CEO Tim Sweeney avesse anticipato (anche se non dettagliatamente) quel che sarebbe successo contro Apple e Google, alla dirigenza di Microsoft (nientemeno che nella persona di Phil Spencer), tra l’altro con un’email che chiosava: «Ti godrai l’imminente spettacolo di fuochi d’artificio».
Quindi, anche se è vero che Sony è un’azionista di minoranza in Epic Games e che Sony effettivamente è l’attualmente più diretta rivale nel mercato dei videogiochi per console domestiche, ovviamente, ciò non influisce strategicamente (ma neanche personalmente) sui rapporti commerciali Epic Games-Microsoft, permanendo quest’ultima un importante partner della casa di Fortnite. Il che, a consuntivo non stranisce perché, come lungamente sostenuto da questo scritto, la causa Epic Games vs. Apple trascende le tattiche commerciali andando a coinvolgere letteralmente il più ricco segmento dell’entertainment, quello del medium videoludico, nelle sue componenti strategiche. Da qui però a dire che fosse una battaglia combattuta interposta persona, ce ne corre e gli elementi non solo non lo comprovano ma tenderebbero a smentirlo.
Ulteriormente approfondendo le concause che fecero sospettare un interesse più che mediato di Microsoft in questa causa, seppur dibattuta all’interno del processo, la questione del videogioco in streaming e il travagliato rapporto tra Microsoft e Apple per xCloud e consecutivamente Xbox Game Pass Ultimate non è stata una parte cui la Corte ha voluto (e forse finanche potuto) soffermarsi: dapprima perché non era in medias res quella la materia del contendere ma soltanto uno dei fattori probatori portati in propria testimonianza da Epic Games e che però, essendo il mercato dello streaming in nuce, va da se che non sarebbe de facto potuto provare abbastanza materiale per poter arguire alcunché in un simile processo. Infatti, la giudice riscontra di come esso possa essere un fattore potenzialmente chiave, in futuro, per il dibattitto antitrust e di concorrenza sleale ma che non potrà che essere eventualmente trattato se e quando i tempi saranno maturi in un giudizio separato e apposito. Il che però, non appare affatto scontato: non tanto perché sarebbe necessario che Microsoft (o chi per essa) faccia causa ad Apple, ma perché se Apple riuscisse a mantenere sostanzialmente fuori dall’App Store servizi come Xbox Game Pass Ultimate, semplicemente, quel mercato su App Store, non nascerebbe mai (al di fuori di un eventuale servizio Apple). La giudice, inoltre, sottolinea come Epic Games non stia effettivamente supportando Xbox Game Pass Ultimate (in particolare con Fortnite) perché, per stessa ammissione della società di Tim Sweeney, essa ritiene il servizio di streaming di casa Microsoft come diretto competitor rispetto le ambizioni di Fortnite nell’erezione del Metaverso.
Specificatamente la sentenza ritiene che l’alternativa offerta da Apple, con il supporto di propri ingegneri, di permettere l’Xbox Game Pass Ultimate via browser Web anziché via app, sia conforme alle linee guida dell’App Store e, in assenza di concrete, sostanziali, e precise prove portate dalle parti in contestazione ad Apple, sul punto, non possa eccepirsi una condotta inammissibile dal punto di vista legale.
Insomma: se nelle more del giudizio si poteva prospettare una soluzione o, perlomeno, intravedere il sentiero anche per il futuro del cloud gaming, appare evidente che se Microsoft (o chi per essa) fosse interessata nell’estensione del videogaming, ovunque e mediante lo streaming, laddove Apple non cambiasse strategia, sarà costretta a intentare un processo per ulteriormente aprire il walled garden (App Store) di Apple.
È possibile e anche non così improbabile persino uno scenario da cane che si morda la coda: perché se dovesse fallire il progetto dello streaming videoludico, non si avrebbe letteralmente il materiale fattuale da portare a processo; mentre se avesse successo nel browser Web, quello stesso conseguimento inficerebbe quasi ex ante le accuse e le ragioni della parte attrice contro Apple.
Ma tornando pragmaticamente con i piedi a terra e concludendo per citare le parole della Corte, il videogaming è un settore in incredibile crescita e mutamento: i cui confini oggi tracciati potrebbero già non valere domani. Il che è comprensibile e vero ma ciò non deve andare a detrimento di un campo, anche giuridico, in cui è possibile e necessario dover confrontarsi, dibattere e giudicare.
Il che, invero, chi scrive tiene a precisare non essersi sottratta la giudice Yvonne Gonzalez Rogers che anzi si è pronunciata brillantemente su una questione così grande per quanto importante e difficile. Ma, appunto, da studiosi della giurisprudenza in ambito tecnologico, non si può che ritenere questa sentenza come un primo pronunciamento di un “nuovo corso”, quello 4.0 e non già come ultimo e né tantomeno come unico verdetto di questa nuova epoca onlife.
E con il ricorso presentato in appello di quella sentenza del 10 settembre 2021, si capisce di come e di quanto Epic Games vs. Apple sia già uno dei processi più importanti degli anni Venti nel XXI secolo ove si potrebbero definire i lineamenti del futuro onlife dell’umanità. E, più modestamente, ove potrebbe (ancora) determinarsi, se non altro per eterogenesi dei fini, la variabile indipendente all’effettivo successo dell’Xbox Game Pass: la possibilità o meno di poter implementare Xbox Game Pass con tutto il proprio potenziale nientemeno che sui più diffusi dispositivi elettronici della storia, gli smartphone.
Power On: The Story of Xbox
Per celebrare Il XX anniversario del lancio di Xbox (e per ultimare con la ciliegina sulla torta la parentesi aperta in virtù del primissimo box), Microsoft ha realizzato una docu-serie liberalmente fruibile su YouTube (integralmente sottotitolata in italiano) e dal titolo Power On: The Story of Xbox. Nell’arco di sei puntate per complessivamente circa cinque ore di visione, infatti, viene sviscerata la genesi e l’evoluzione allo stato dell’arte del brand con tanto di top e di down nonché di luci e di ombre, persino le più intime e personali (esemplificata con la testimonianza del fu leader Don Mattrick), concernenti le prime due decadi del marchio. Gettando infine il là verso l’assaporato futuro, anche qui discusso.
Per una produzione docu-televisiva che rappresenta, ora come ora, una testimonianza rara e preziosa dell’industry, molto interessante: paradossalmente soprattutto per chi non è già gamer. Potendo in altri termini fruire di un riassunto impreziosito dal dietro le quinte e in prima linea di quel che è stato, passando in mezzo a vicende, ad avvicendamenti e a dinamiche che vanno ben oltre quelle meramente tecnico-grafico-videoludiche. Ma di vita.
Consigliatissima n’è pertanto la di sua visione: specie all’esito delle prossime deduzioni finali di studio, ora in imminente disvelamento.
Conclusioni
Xbox Game Pass non è l’invenzione del III millennio: esattamente come in esordio, infatti, è piuttosto quell’alchemico mix di innovazioni e tradizioni che, sapientemente miscelati tra loro, in: tecnologia, marketing, giurisprudenza e business, può derivare la «next big thing» commerciale.
Se ancora oggi la sostenibilità del modello a sottoscrizione di Spotify e persino di Netflix non appare necessariamente manifesta, altrettanti e persino più dubbi in virtù della peculiare connotazione dell’industria dei videogiochi si potrebbe nutrire nei confronti dell’Xbox Game Pass: con l’importante e unica differenza che, per quest’ultimo, l’intrinseca interattività intrattenente del medium fornisce, già da ora, rilevanti entrate extra rispetto il mero prezzo di abbonamento.
Sarebbe difficile ritenere che per il solo ed eventuale futuro clamoroso successo di siffatto business model si possa un giorno anche soltanto parlare di monopolio per un’industria storicamente centrifuga rispetto ogni accentramento: sarebbe invece più verosimile che la competizione trasmuterà dalla centralità degli hardware e dei sistemi (console), a quella dei servizi e degli ecosistemi (esperienze). Per esperienze non fine a sé stesse ma universali: Metaverso incluso. Così fosse, potendo passare lo scenario competitivo, da quello odierno tra Sony-Microsoft-Nintendo a quello tra Microsoft (via Xbox Game Pass e Minecraft)-Epic Games (Fortnite)-Roblox Corporation (Roblox)-Take Two Interactive (Grand Theft Auto). Ma se ciò oggi apparirebbe arduo anche solo nell’immaginarlo, si potrebbe con più certezza già dire che uno dei più importanti ostacoli derivanti da quest’affermazione discenderà dalla definitiva statuizione di una delle più rilevanti cause di questo decennio, Epic Games vs. Apple.
Per quanto concerne specificatamente Microsoft, infine, se è stata in dubbio l’esistenza dei primi venti anni di Xbox (da parte degli analisti, degli azionisti e della stessa dirigenza della compagnia), altrettanto non sembrerebbe prospettarsi per i prossimi. Anzi, con uno dei management più lungimiranti della storia dell’industria e con un’apparente killer application qual è l’Xbox Game Pass, sembrerebbe che Microsoft sia la sola compagnia in concreta volata verso la leadership della più grande e redditizia industria dell’intrattenimento mai esistita, quella del videogioco. Cioè a dire dell’asset più importante della post-contemporaneità infarcente il tempo libero: l’attenzione.
Il Commento di Nicola “Redez” Palmieri
In quanto videogiocatore e da persona che conosce professionalmente l’ambiente videoludico da decenni, posso tranquillamente dire, fin da subito, che l’Xbox Game Pass è quello che serviva: è davvero il cambio generazionale di cui si aveva bisogno e che giunge nel momento di maturazione adeguato sia a livello tecnologico, che infrastrutturale e persino culturale.
Perché non è la prima volta che si sia visto qualcosa di simile. Qualcosa sì di simile ma non di assimilabile sono per esempio stati gli humble bundle: dei “pacchi” di giochi digitali venduti in blocco e per titoli anche abbastanza recenti e in cui l’utente invece di acquistarne uno alla volta, singolarmente e a prezzo pieno, ne prendeva in “mischia” e per un numero corrispondentemente alla cifra spesa ricorrentemente ogni mese (per “gruppi” di titoli che potevano riguardare videogiochi dello stesso publisher o dello stesso genere).
Inoltre, socialmente perché almeno dalla generazione Millennial si è avvezzi alle sottoscrizioni. Si pensi infatti ai primi Duemila e al cambio di paradigma compiuto dalle compagnie telefoniche come TIM e Vodafone che anziché fare pagare il singolo messaggino costruirono un “paniere” di servizi telecomunicativi in abbonamento, tra: chiamate, SMS e traffico mobile.
Rimanendo in tema, questa, comunque, parrebbe l’epoca delle piattaforme in streaming e in abbonamento. Per un mutamento radicale ma scontato: in cui l’utente non compra quello che gli serve ma acquista la facoltà di poter scegliere, di mese in mese, il potere di scelta (no, non è una ripetizione). Scelta su chi opzionare e scelta su cosa rivolgersi e assimilare. E questa scelta ha reso quasi tutto possibile ma al contempo anche ovvio, perché, appunto, è divenuto un paradigma “inculcato” a livello generazionale.
Quindi l’Xbox Game Pass e tutti i “Game Pass” che arriveranno e l’hanno preceduto, risolvono un’esigenza, quella delle persone di esercitare la loro discrezionalità.
Da qui soprattutto il successo di Netflix, Spotify e Now. Oggi le persone vogliono avere una scelta, ma questa scelta non è più solo quantitativa ma anche “responsiva”: perché essa deve dare la libertà di poter fruire di quel contenuto optato nel momento in cui si fa il tap sullo smartphone, quindi, sostanzialmente in qualsiasi momento. Pertanto, riprendendo l’esordio, assolutamente sì: l’Xbox Game Pass è quello che serviva.
Se questo è il giudizio da videogiocatore, per chi produce e sviluppa videogiochi, la prospettiva non sarebbe automaticamente così rosea. E in tal senso comprendo l’interpretazione di non ritenere il top questo business model anche per le terze parti. Ma, in fondo, questa “sensazione” è assolutamente connaturata al cambiamento radicale delle “regole del gioco”. “Dietro” l’Xbox Game Pass c’è tanto scetticismo semplicemente perché pone scenari inediti e riscrive le risposte del “si è sempre fatto così” dell’industry; in parte, poi, il timore deriva anche della sua grande e trasversale varietà offerta, costantemente spaziante tra centinaia di titoli non “targhetizzabili” a propri, cioè videogame “piccoli” e “grandi”, indipendenti e di major, di terze parti e tutta la ludoteca degli Xbox Game Studios, questi ultimi disponibili fin dal day one.
Parlando di videogiochi, è proprio sulle grandi produzioni che vorrei soffermarmi: perché sono quelli gli esponenti videoludici che “fanno girare” il mercato (sono infatti essi che, prima di oggi – cioè prima dell’Xbox Game Pass –, venivano unanimemente definiti killer application) e sono proprio essi che conseguono la maggior parte del fatturato tra i videogiochi stand alone e il cui successo, pressoché sempre, si gioca entro il primo mese dal lancio. Ed è qui che emergono i dubbi, ed è qui che ce n’è tanto, di scetticismo: perché si scardina lo status quo e anche soltanto immaginare che il prossimo Fallout di Bethesda, cioè a dire uno dei titoli di punta di una delle case di sviluppo entrate nella pancia di Microsoft con l’acquisizione di ZeniMax Media, uscirà fin dal day one su Xbox Game Pass e quindi senza la necessità di vendere €80,00 per ciascuna copia, ma potendone fruire con una spesa mensile, al più, di €12,99 (che al contempo garantisce tutta l’altra sequela degli altri videogame inclusi), è evidente che fa saltare le metriche. È evidente che per valutare il successo e il ROI di un singolo kolossal, non si debbano più utilizzare i criteri usuali. E non parlo solo di numeri (sell-out; fatturato e voti della critica), ma pure tutto il resto: un “tutto il resto” che ancora non è ben definito (quanti nuovi abbonamenti vengono conseguiti? Quanto tempo un utente impiega su quel titolo?). E questo può spaventare: senza considerare, comunque, che il volume dell’incasso dei kolossal “contiene” già parte dell’investimento nello sviluppo del capitolo successivo e, semplicemente, anche quest’ultimo elemento verrà meno o sarà perlomeno da calcolarsi differentemente.
Ma, rimanendo sempre sull’aspetto prettamente finanziario, si nasconde un altro lato della medaglia, ben più lucente: perché quelle centinaia di milioni di euro concentrata in poche settimane dopo il rilascio sugli scaffali, sarebbe(ro) stata, a priori, un’eventualità poiché lo sviluppo e il successo dei videogiochi è molto più complicato di quanto si pensi (rimanendo in tema, si pensi a Fallout 76). Quindi, pur sapendo di poter apparire cerchiobottista, io sì capisco benissimo le aziende che preconizzano la “morte” dell’industria, con l’Xbox Game Pass, ma al contempo non posso non intravedere, dallo stesso punto prospettico, il boost che può dare all’azienda e all’intero settore. Perché acquistando, come ha fatto e farà Microsoft, famose e importanti case di sviluppo, consolida la sua posizione di grande player produttivo credendo in questo nuovo business model e quindi in una produzione varia (di generi, di budget, di esperienze) e ciclica: dove l’importante non diventa più la singola hit ma avere un flusso di produzioni (di diverso calibro) e di converso un flusso economico costante, derivante dal rinnovo degli abbonamenti.
Per un flusso costante in entrata che significa poter predire con un buon margine di certezza quanto confluirà nelle casse societarie di mese in mese in un mercato che altrimenti si gioca il “tutto per tutto” negli ultimi tre mesi dell’anno in coincidenza di quel periodo che va dal Black Friday al Natale. Ed è una particolarità fondamentale, soprattutto nella produzione di videogame, perché questa strategia non va a inficiare un’intera proprietà intellettuale con un singolo, esiziale fiasco di mercato. Non dimentichiamoci che questi ultimi 15 anni sono lastricati da software house che sono letteralmente fallite per non aver venduto un solo singolo videogame all’altezza delle aspettative, questo perché le aveva impegnate da un minimo di 3 a un massimo di 5-7 anni. L’Xbox Game Pass, invece, supera quest’incertezza riscrivendo un modello di business completamente diverso.
Inoltre, come si sottolinea nell’elaborato, il medium del videogioco è perfetto per l’up-sell che se ben architettato, è lungi dall’essere intenso dal gamer come ennesima metodologia per spillare soldi su soldi. Ritengo che, anche via Xbox Game Pass, soprattutto per le terze parti che vi vorranno accedere, ne vedremo sempre di più. Perché se tutto va come deve andare, è naturale che ci saranno delle case di sviluppo che non ce la faranno a reggere botta, quindi si dovranno inventare delle monetizzazioni conseguenti, tra cui presumo poter essere anche l’implementazione della pubblicità in game come quella che c’è oggi sui cellulari o come con il videogioco NBA 2K21. Anche qui, non è necessariamente un fenomeno negativo, ma relativamente nuovo in cui l’abilità sarà nell’integralo nel videogioco e non spammarlo.
Nuovamente in commento dell’elaborato, se condivido per più livelli il contenuto, vorrei soffermarmi su un distinguo. In particolare, riflettendo sulle tempistiche previsionali: personalmente, infatti, ridurrei la durata della “missione” di Microsoft per il successo o l’insuccesso di Xbox Game Pass non nell’arco di un ventennio ma a “soli” cinque anni da ora. Perché quello tecnologico è un mondo estremamente veloce. Faccio alcuni esempi: 10 anni fa nessuno conosceva Spotify; 10 anni fa nessuno sentiva podcast, se non degli “eletti”; 10 anni fa esisteva Netflix ma non ancora “quella Netflix” delle produzioni in-house e comunque, se retrodatiamo ancora un po’ e cioè a ben 14 anni fa, YouTube non era ancora stata acquistata da Google (con tutto quello che ha comportato). Insomma, era davvero un altro mondo rispetto ora: e sto parlando di uno dei miei settori come quello dell’influencing dove 5 anni fa era un “fenomeno”, ora è una realtà. Esemplificando: per fare 100.000 iscritti era plausibile che ci si impiegasse un anno ed eri già un “Messia” tra gli influencer, mentre oggi quei numeri li si possono fare in 30 secondi e su ogni piattaforma di social network. È quest’incredibile e velocissimo mutamento che mi farebbe propendere per questa riduzione della scala temporale a un quarto del totale: appunto a cinque anni (anche se mi rendo ben conto che nel testo si parli di leadership e non di “mero” successo commerciale del servizio in questione).
Quello su cui assolutamente scommetto è che dipenderà molto dalle uscite videoludiche di casa Microsoft e da quello che farà l’attuale concorrenza diretta di Xbox, Sony. Perché PlayStation detiene ancora il primato nel mondo gaming casalingo: un primato di consideration mai visto prima. PlayStation 5 vende più del pane e come mai nessuna console prima di essa, pure in presenza della cosiddetta crisi di approvvigionamento dei chip.
Certo, ci sarebbe anche Nintendo, però Nintendo è sempre stata un “pachiderma” nelle sue mosse: si muove sempre molto, molto lentamente per fare le sue scelte di campo (anche se quando le fa, sono nette e disruptive: come Wii e Switch testimoniarono). Ultima riprova n’è Switch OLED (rispetto l’attesa “Switch PRO”) e che a differenza dello schermo rinnovato, presenta esattamente le stesse specifiche hardware della Switch “normale”, cioè un prodotto del 2017. Il che fa molto riflettere sull’azienda di Kyoto.
Volendo dare pagelle, Xbox si sta comportando molto bene: abbiamo spesso premiato nella nostra critica come Quei Due Sul Server (QDSS) i passi che sta facendo Microsoft, perché comunque bisogna essere coraggiosi per muoversi in questa direzione, anche e forse soprattutto se sei annoverabile tra le Big Tech.
Attenzione, non è che a Microsoft non abbiano gli analisti per capire che questa ricetta funzioni, ma il sapere teoricamente una cosa è ben diverso dall’applicarsi nella pratica e ci vuole comunque coraggio e una convinzione incrollabile per andare avanti e oltre a qualsiasi ostacolo di breve-medio periodo (come per esempio rinunciare a diffondere i numeri delle console effettivamente vendute e invece parlando di engagement di Xbox Live prima e di Xbox Game Pass poi), nel frattempo intessendo anche rapporti professionali con i partner dell’industria come con EA Games in virtù dell’inclusione nell’Xbox Game Pass Ultimate dell’abbonamento a EA Play. Perché non è affatto scontato: Netflix non è mai riuscita in nulla di simile.
Questa è una dimostrazione che ci sia non soltanto una direzione (certa) ma proprio una strategia (armoniosa) che sta tracciando. Credo proprio che ne vedremo delle belle e se dovesse continuare così, Microsoft, sarà la leader dei servizi B2C intrattenenti. A meno che PlayStation entro lo stesso intervallo temporale quinquennale fissato come obiettivo, non tiri fuori il coniglio dal cilindro arrivando a offrire qualcosa di ancora più incredibile. Qualcosa bolle in pentola e certamente è già da tempo in cantiere ma che non potrà limitarsi nell’essere una brutta copia di Xbox Game Pass, essendo un imperativo differenziarsi. Insomma, qui pongo anche il mio bel punto interrogativo: che non riguarda più il se ma neanche il quando bensì il come Sony proporrà il suo modello “a prova di futuro”.
E dal futuro, torniamo un attimo al passato: perché “questa” Xbox (come ramo di Microsoft) non potrebbe esistere senza gli errori commessi. Parto dal presupposto che gli errori si fanno ed è proprio dagli errori che bisogna crescere attraverso il cambiamento. Perché spesso per cambiare, le persone così come le aziende, hanno bisogno di qualcuno che schiaffeggi forte, in faccia. Per fare capire l’errore commesso.
In questo caso il rinnovamento, la rinascita di Xbox che c’è stata dopo il 2013, mi fa capire che, forse per la prima volta in assoluto, dietro e al vertice, ci sia qualcuno che di videogame ne capisca. E quel qualcuno è Phil Spencer. Ecco, è proprio qui che cambia il paradigma: perché quando è entrato al vertice Phil Spencer, io mi ricordo che si rivolse a cuore aperto non ai consumatori di Xbox ma proprio alla comunità dei videogiocatori tutta. Phil Spencer disse che avrebbe lavorato servendo il gaming per i gamer, in quanto lui stesso è un gamer, perché Phil Spencer è un vorace videogiocatore. E quando un videogiocatore appassionato è anche un esperto di business, si riesce a intrecciare due campi perfetti che permettono di capire il “male” che Xbox aveva fatto in maniera profonda per poi riaggiustarlo, come solo una persona con quel retroterra potrebbe fare.
E lì che c’è stato il punto di svolta: quando il manager più alto in grado riesce a sentire, ascoltare, capire, prevedere, parlare e aiutare il suo team, gli ingegneri, i partner, i tecnici, le altre software house (comprese quelle più piccole), e i gamer, beh, è proprio lì che cambia tutto. È lì che si ha una rinascita vera e propria di un intero ramo aziendale, per una palingenesi che a parer mio è stata molto dolorosa, e molto difficile anche “semplicemente” da far capire.
Immaginate infatti che arrivi uno che faceva parte del management precedente ma che, di botto, chieda di ribaltare tutto. Tutto. Non solo quanto si faceva in Xbox ma tutto quello che s’era fatto nel gaming per cinquant’anni. Certo, avendo le risorse e la fiducia del nuovo amministratore delegato ma parlando di un all’epoca rivoluzionario concetto nel mondo del gaming privo di barriere e proprio per questo mai riuscito, qual è tra l’altro il videogiocare in streaming a prescindere dal possedere una console di un determinato brand.
Oh sì, bene, bello, come facciamo? Beh, semplicemente non creiamo e vendiamo i videogiochi nella maniera in cui si faceva prima, videogiochi da €80,00 l’uno, ma facciamo un pacchetto, in rinnovo mensile per pochi euro complessivi che ne contiene centinaia, di videogiochi. Più tutte le produzioni first party fin dal day one incluse… Già mi immagino qualcuno che dalla sala riunioni volava giù dalla finestra.
Perché la visione di una persona, se non condivisa, rimane tale. Un sogno, al peggio un vaneggio: almeno finché quella stessa persona non evangelizzi la sua idea al resto del gruppo, in questo caso al team di lavoro, fino a farla comprendere e trasformarla in una missione e infine in un’esigenza di mercato. Perché poi quelli di Xbox si sono messi pancia a terra e hanno lavorato sodo, per anni. Anni e anni. Quest’elemento mi fa capire che alla base, oltre al manager, oltre all’uomo, c’è un amore da appassionato per l’ambiente videoludico e che porta tutto “oltre” il business. Il focus è certamente vendere, vendere, vendere e ci deve ovviamente essere il guadagno, ma c’è anche un amore per i videogiochi e per i videogiocatori che si è apertamente manifestato.
Oggi si va sempre di più per l’immediata ubiquità del digitale. Purtroppo, ci sono ancora delle zone geograficamente ben delineate che non sono pronte per accedere ai servizi digitali, e questo è il vero problema di connettere effettivamente il mondo tramite l’Internet. Ed è per questo che, più modestamente, nessun produttore ha avuto il “coraggio” di fare uscire direttamente ed esclusivamente console in digital edition. Ma anche qui emerge l’eccezione, pure con Xbox: perché l’idea di fare uscire Xbox Series X (console dotata di lettore ottico) e Xbox Series S (console esclusivamente per il digital delivery) è quella di permettere a tutti di videogiocare su uno stesso piano e, differentemente da PlayStation 5 (Standard) e PlayStation 5 Digital Edition, anche su due fasce di prezzo (e a cascata prestazionali, pur rimanendo nell’ambito della nona generazione di console) nettamente differenziate (Xbox Series X trovandosi a partire da €499,99 e Xbox Series S, a partire da €299,99; senza considerare l’“abbonamento tutto compreso” dell’Xbox All Acess che, con una rata mensile di rispettivamente €32,99 e 24,99 mensili permette a quasi ogni tasca non solo di avere l’Xbox Game Pass Ultimate ma anche una console rateizzata… Nuovamente tornando con la mente agli abbonamenti delle compagnie telefoniche).
Microsoft sta facendo un tipo di paragone profondo ma integrato, differente ma sensato: da un lato parla del domani attraverso il digitale integrale e sul fatto di togliere un dispositivo che ti permette di leggere i discendenti dei CD, dall’altra parte si muove per far entrare a casa tua l’hardware con un prezzo allettante e con un servizio che ancora oggi si fa fatica a spiegare da quant’è sostanzioso e che permette con circa €10,00 mensili di giocare quasi tutto quello che si vuole, l’all you can eat del gaming.
Ebbene, ecco, il passaggio successivo, quello di lunghissimo termine: il «costruita intorno a te» che dalla console Xbox passa a essere l’ecosistema Microsoft Xbox: potendo l’utente, poi, accedere a tutti i servizi a basso costo e non farti pesare, dal livello domestico a quello da ufficio e anche a livello finanziario personale, un esborso relativamente modico avendo tutto a portata di “nuvola”. Anche perché la maggior parte di chi videogioca assiduamente è un ragazzo che non ha particolari autonomie finanziarie, quindi, l’Xbox Game Pass è un ottimo “compromesso” per saziare la voglia di intrattenimento interattivo attraverso la paghetta settimanale e conquistarsi la sua fiducia, come consumatore, per il futuro.
Perché io mi ricordo quando ero piccolo quant’era complicato acquistare il videogame del momento che costava fino a 120 mila lire: ed era già tanto quando ti compravi 2 giochi all’anno. Quindi è proprio questo il cambio di prospettiva: non la conquista della nona generazione videoludica ma la conquista di una generazione umana. “Io Microsoft” ti do la possibilità di scegliere e te lo permetto a un prezzo conveniente, soprattutto perché io ti voglio accompagnare nella crescita, perché voglio che tu viva l’esperienza Xbox e poi l’esperienza Microsoft a tutto tondo. Ed è questa un’altra grossa differenza che stanno facendo in Xbox rispetto Sony.
La strategia di Microsoft ha un’ottica anche familiare e, de facto, tesa a evitare il “bullismo videoludico”. La comunità dei videogiocatori, specie in Rete, sa essere molto tossica e tende a esasperare la FOMO (letteralmente fear of missing out, tradotta in «paura di essere tagliati fuori»), per cui se io, in questo caso, non mi posso permettere il videogioco perché non ho i soldi per acquistarlo, sono automaticamente escluso dal “dibattito del momento”. Mentre essendo incluse tutte le produzioni degli Xbox Game Studios posso giocarmi il “fenomeno” videoludico a partire da €9,99. Una cifra che possiamo tranquillamente dire essere accessibile e quindi, l’indomani, io posso parlarne sia a scuola con i miei amichetti sia in tempo reale nei forum e nei social network delle comunità di gamer, evitando di essere “videoludicamente bullizzato” perché non so di cosa si sta parlando (e non lo sapevo perché non avevo i soldi per permettermi videogiochi da €80,00 l’uno, in un mercato ricco di uscite, anche prestigiose, annuali). Non è che parlo di iperuranio: io stesso ricordo che 3 decenni fa non avevo magari i soldi per acquistare dei videogame e quindi ero “costretto” a farmi le scorpacciate di collezioni di videogiochi per il Commodore 64. Pagavi circa 20 mila lire e avevi giochi a profusione, anche se non erano i cosiddetti videogiochi tripla A. Erano “giochetti” che duravano mezz’ora e quando andava bene ti permettevano di videogiocare abbastanza per divertirti per settimane. Anche perché, di contro, ricordo anche di quando con il computer uscivano “gioconi” che però, a volte, non si rivelavano essere all’altezza delle aspettative e ti ritrovavi con in mano un titolo che ti era costato 120 mila lire ma che era semplicemente ingiocabile. E tu eri lì con la rabbia, per non dire altro, di dover attendere mesi e mesi per racimolare abbastanza per acquistarne un nuovo videogame. Magari quando poi quel titolo merdoso, per forze di cose, era passato di moda ed era arrivato un nuovo esponente del genere cui i miei amici potevano giocare e io dovevo andare a “subirmi” il fatto di recarmi a casa loro per giocare al “fenomeno” videoludico del (nuovo) momento. Sì, l’Xbox Game Pass ha anche quest’ottica “sociale”, su cui riflettere, di “saltare” il bullismo videoludico,
Pertanto, io, oggi, la vedo più come “mamma Microsoft” che ti vuole accompagnare nella crescita come videogiocatore e Sony come leader attualmente incoronata e incontrastata del settore che detta la linea dalla cima della classifica con anche la “spocchia” di chi può permetterselo: “io sono forte, io sono figa, io sono la guida dell’intero mercato videoludico” e continuando a fare le cose come sa farle. Fatte per bene, ma facendole da chi non vuole subire bensì dettare la linea, a suo modo e in questo caso ponendosi nella “tradizione” di vendere i singoli videogiochi a prezzo pieno (e poterlo fare perché, per lo più, sono effettivamente di livello). Ecco, questa è la grossa differenza.
Microsoft cerca e forse oggi ha trovato davvero il modo di farti crescere con lei. Il videogioco è il “mezzo” dove stanno le nuove generazioni e quindi è lì che si trova il pubblico, i consumatori del futuro e quindi Microsoft “parla” la loro lingua così da farli “affezionare” al brand attraverso il medium di quest’epoca, il videogioco, cosicché con lei cresci per poi averla come compagnia tecnologica di vita.
Quanto sta facendo Microsoft non è affatto una corsa: è una maratona che sta marciando con un ritmo sostenuto. Microsoft conosce i suoi clienti e sa che non deve più conquistarli al 100% e di volta in volta tramite l’acquisto del singolo prodotto, ma deve persuaderli abbastanza da fargli pagare il biglietto minimo d’ingresso per poi coltivarli e accarezzarli, attraverso piccole ma continue sottoscrizioni, al fine di farli crescere con lei.
Nicola “Redez” Palmieri – Content creator e imprenditore
Articolo tratto dalla tesi di Master of Laws (LL.M.) in Law of Internet Technology dell’Università Bocconi (Anno Accademico 2020/2021), nella materia delle Internet Technologies con supervisione della Chiarissima Professoressa Nicoletta Corrocher. Il contributo sarà sottoposto in inglese (con double-blind peer review) per MediaLaws nella collana di studi Law and Media Working Paper Series. L’elaborato, concepito come unica entità, per esigenze editoriali, è con la presente suddiviso in tre parti.
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