Nella scorsa puntata di questa serie su videogame e filosofia, ci eravamo lasciati con un interrogativo forse non decisivo per le sorti mondiali, ma ugualmente importante per l’umanità digitale che va delineandosi: si può fare ontologia tramite un videogame?
Non è una domanda da poco, perché l’ontologia è una delle branche più astratta e sofisticata della filosofia: verrebbe dunque da pensare che – se davvero siamo disposti ad accettare che i videogame possano essere un medium filosofico in senso doloso, cioè deliberatamente tale – l’ontologia sia comunque meglio lasciarla al medium scritturale tradizionale, più capace di mettere ordine, stilare liste, redigere tavole, organizzare il discorso e così via. Infatti, per ontologia oggi intendiamo prevalentemente il tentativo di circoscrivere che cosa esiste (cani? unicorni? avatar? …) e la tipologia degli enti esistenti (esseri viventi? esseri impossibili? esseri virtuali? …). Con un esempio ormai più intuitivo, in ontologia si discute su quali file vadano in quale cartella desktop e perché, dunque sulla quantità e qualità effettiva delle cartelle – lasciando da parte i vari possibili orientamenti o sotto-indirizzi della disciplina, che renderebbero ora inutilmente complicato darne una caratterizzazione sufficientemente univoca. In un certo senso, il problema di fondo dell’ontologia è proprio questo: che cosa significa, posto che sia possibile, individuare i confini degli enti che popolano il mondo in maniera il più possibile chiara e condivisa? Fino a che punto i nostri tentativi di catalogare ciò che c’è e di stabilire che cosa è ciò che c’è sanno cogliere nel segno e soddisfare le nostre aspettative?
Something Something Soup Something: un’esperienza videoludica ontologica
E qui veniamo alla domanda di partenza: non solo si può fare ontologia attraverso un videogame, ma si può anche mettere in atto una sorta di meta-ontologia, cioè una riflessione sui problemi che ogni ontologia inesorabilmente incontra. È il caso di Something Something Soup Something del 2017, opera anche stavolta di Stefano Gualeni, filosofo e game designer dell’Università di Malta: come nelle precedenti puntate della serie, il mio invito è a provare il gioco prima di leggerne la descrizione e il commento che stanno per arrivare, approfittando del fatto che esso è gratuitamente giocabile online. D’altronde, si sa, non è che ci si dedichi alla filosofia sperando di diventarci ricchi: vale per i filosofi-scrittori tradizionali come per i filosofi-programmatori contemporanei! Che tipo di esperienza intende dunque offrire Soup?
L’esperienza di gioco di Something Something Soup Something
Come il termine rivela, si parla di zuppe, in un’ambientazione futuristica collocata nel 2078 e in cui noi umani abbiamo finalmente messo a punto il tanto agognato teletrasporto, addirittura con gittata interplanetaria: poiché errare e umano e perseverare lo è ancor più, questa tecnologia viene utilizzata non per cercare di superare la scarsità o limitare le oppressioni, bensì per alimentare nuove forme di sfruttamento economico. In particolare, succede che gli alieni vengono assunti – si può ben immaginare a quali condizioni – per produrre beni sui propri pianeti, che vengono poi teletrasportati direttamente sulla Terra – risparmiando così anche sui costi di spedizione e consegna. Sembra il classico piano perfetto, eppure c’è il classico bug nel sistema: gli alieni sono veramente alieni; quindi, parlano una lingua tutta loro e usano delle categorie tutte loro per pensare, così che finiscono per distorcere le “comande” fatte dagli umani, prendendo i canonici fischi per fiaschi. In questo caso, potremmo dire che prendono zuppe per muffe – o chissà che cosa.
Infatti, entrando nel vivo del gameplay, il giocatore vive la prospettiva in prima persona di un addetto alla cucina di un ristorante terrestre, posta in una sorta di semi-scantinato sporco e mal illuminato, il cui clou è rappresentato da quanto segue: una grande macchina color verde spenta e inattiva; un dispositivo che ricorda una radio novecentesca collegato alla macchina; un lavandino arrugginito con sopra uno schermo tremolante che segnala un ordine in sospeso di 20 zuppe.
La teletrasmissione cosmica e la sfida dell’interpretazione ontologica nel gioco
Le cose cominciano a smuoversi quando si attiva il dispositivo, che si presenta come un decodificatore manuale di segnali, capace di cancellare il rumore delle trasmissioni cosmiche: una sorta di correttore automatico delle traduzioni umano-alieno e alieno-umano. Il giocatore deve quindi interagire cercando di migliorare la ricezione del segnale, riducendo al minimo possibile la percentuale di dati corrotti nella trasmissione: se non riesce – quantomeno – a tenerla sotto al 100%, il dispositivo di spegne e resetta e occorre ricominciare da capo; se invece le cose vanno meglio, la macchina verdastra finalmente si attiva, rivelando di essere un teletrasporto dedicato alle zuppe, ma anche facendo scoprire che le cose non vanno sempre come sperato – per essere eufemistici.
Difatti, il teletrasporto comincia a fare il proprio mestiere e compaiono una serie di piatti, più precisamente di 20 zuppe o pseudo-zuppe che si distinguono sulla base degli ingredienti, della commestibilità, della temperatura, della tipologia di contenitore o posata, e così via: ci si imbatte in cipolle come in sassi, in scodelle come in cappelli, in cubetti congelati come in liquidi, in cucchiai come in bacchette, e a proseguire. Ne seguono combinazioni ai limiti dell’umano – trattandosi appunto di alieni.
A chi gioca è richiesta ogni volta una mossa tanto semplice quanto complicata: scegliere se quella che compare è davvero o no una zuppa. Non ci sono vie di mezzo possibili: o premi soup e il piatto partirà verso l’alto per raggiungere il ristorante, o premi non soup e il piatto partirà verso il basso per finire nella camera di riciclaggio della macchina. Zuppa o non zuppa, questo è il problema… Una volta terminati i piatti e finiti i dubbi amletici, il display posto sopra il lavandino si aggiorna mostrando un riepilogo riassuntivo che spiega quali sono le caratteristiche generali di una zuppa sulla base delle varie decisioni prese: in poche parole, quello schermo fa vedere i principi che hanno guidato la categorizzazione dei diversi piatti, rivelando l’ontologia (più o meno) implicita in determinate scelte. È una sorta di macchina filosofica che scansiona la mente di chi ha giocato, capace di rendere manifesto il significato associato al concetto di “zuppa” o di “zupposità” più o meno inconsapevolmente: “sulla base delle tue mosse, sappi che per te zuppa significa X piuttosto che Y”.
La natura ambigua delle zuppe nel contesto del gioco
Una dinamica di gioco tanto minimale raggruma dunque intensi risvolti concettuali: quali sono le “somiglianze di famiglia” tra quei piatti anche molto diversi tra di loro? È possibile tracciare distinzioni oggettive, tali da chiarire inequivocabilmente che cosa sia una banale zuppa? Quali sono i preconcetti che ho in testa senza che ci avessi mai fatto caso e da dove provengono? Quanto peso tendo a dare al contenitore in cui una presunta zuppa si presenta e perché? Se la percentuale di rumore cosmico fosse stata minore, le pietanze da selezionare sarebbero apparse meno strambe e più convenzionali? L’errore nasce nella ricezione finale del messaggio o nel suo invio iniziale? O proprio in quel che succede nel mezzo, cioè nel rapporto asimmetrico tra inizio e fine delle trasmissioni? Esiste un modo per eliminare effettivamente ogni possibile distorsione e pervenire a una comunicazione perfetta, dunque a una definizione condivisa di zuppa? Il problema riguarda soltanto le “relazioni internazionali” tra alieni e umani, o è prima ancora anche una faccenda di “politica interna” tra diversi umani? E se non è zuppa, sarà… pan bagnato?!
Il videogioco come medium ontologico
A queste e altre domande il gioco in prima istanza non dà una risposta e non intende darla, perché il suo scopo – com’è tipico degli esperimenti mentali – è piuttosto porre questioni e lasciarle deliberatamente in sospeso, senza offrire nessun tipo di sponda esterna per scovare un’effettiva soluzione: infatti, non ci sono istruzioni o richieste esplicite provenienti da chi possiede il ristorante, da chi è seduto in attesa di mangiare e nemmeno da chi sta preparando piatti dall’altro mondo e forse anche dell’altro mondo, che potrebbero aiutare nel giudizio.
Si viene così invitati a riconsiderare e riformulare in maniera pratica – cioè attraverso l’interazione videoludica – il proprio modo di intendere la zuppa, confrontandosi con quanto le nostre categorie mentali e il nostro linguaggio presentino confini incerti e flessibili, variamente influenzabili da fattori personali come socio-culturali – persino quando si tratta di avere a che fare con le entità più ordinarie e irrilevanti: se già il concetto di “zuppa” è vago e sfuggente, figurarsi altri come “essere”, “persona”, “vivente”, “essere umano” e chi più ne ha più ne metta. Il tratto caratteristico di Soup è che questo invito si presenta non sotto forma di una chiamata alla riflessione classica, fatta di distacco contemplativo, di immobilità corporea, di rappresentazione disinteressata e via discorrendo (come avviene invece con l’ontologia convenzionale, legata alla parola scritta), bensì di una sollecitazione a costruire attivamente la propria ontologia e a riflettere sul proprio stesso operato.
La sfida di “Something Something Soup Something”: oltre le categorie predefinite
In definitiva, siamo alle prese con un esperimento mentale giocabile, ovvero materializzato e reso partecipabile, che innesca una riflessione critica di stampo pratico, coinvolto e “ingaggiato”, in cui appunto la rivalutazione della propria e altrui ontologia avviene in medias res, nell’atto stesso di “ontologizzare”, rendendo tematico ed esplicito un gesto che avviene già normalmente e persino continuamente, ma in maniera tendenzialmente atematica e implicita.
Infatti, redigere cataloghi del mondo è una delle operazioni più consuete in cui tutti ci impegniamo e in generale definisce il funzionamento della nostra mente nel bene e nel male: lo vediamo a partire dalla valutazione se Tizio va considerato o meno un amico fino ad arrivare ai divisori da cassetto che ci esortano a distinguere tanto tra calzini e mutande quanto tra diverse tipologie di calzini. Eppure, comunemente nessuno o quasi si ferma a chiedersi come funziona la catalogazione degli enti del mondo mentre la sta svolgendo, interrogandosi sui suoi presupposti come sulle sue implicazioni, perché la cosa diventerebbe appunto di intralcio nello svolgimento del compito.
Invece, con Soup non solo questo gesto riflessivo viene praticato e persino senza che l’attività di catalogazione debba venir interrotta, ma esso si sviluppa proprio cimentandosi con tale operazione di messa in ordine della realtà, ancorché in un ambiente più libero e flessibile di quello quotidiano, che trasfigura simile pratica in un’azione ludica – insomma, la rende un gioco: ciò equivale a dire che si riflette video-ontologizzando.
Qui si delinea ancora una volta la differenza tra una filosofia alfabetico-tipografica (espressa in libri, paper e annessi) e una filosofia video-ludica: l’esperimento mentale canonico diventa sperimentale in accezione più marcatamente laboratoriale, in quanto è consentito anzi richiesto di mettere le mani in pasta, rendendo la riflessione che ne segue veramente la propria, qualcosa che si sviluppa in prima persona, alla luce delle proprie azioni. In questa maniera, oltretutto, viene posta in risalto la radice pratica di ogni forma di elaborazione concettuale, che invece il medium della pagina stampata finisce troppo spesso per mascherare, spacciando tutto per una faccenda di parole che commentano, definiscono, interrogano, ecc. altre parole.
Per tutte queste ragioni, la sfida di stabilire che cosa sia zuppa e che cosa no può essere affrontata con un atteggiamento più rigoroso e analitico come con uno più intraprendente e creativo, provando a dare risposte casuali o controintuitive anche rispetto alla propria stessa percezione, per andare a vedere quale tipo di bizzarra ontologia potrebbe venirne fuori.
Al contempo, per quanto l’ambiente virtuale videoludico si offra come più plastico rispetto a quello biologico di tutti i giorni, esso è pur sempre il frutto di determinate scelte di design, che ne circoscrivono il setting: chi gioca, sta pur sempre facendo l’esperienza di muoversi nella mente di qualcun altro – in fondo, la portata e la bellezza dell’impresa stanno proprio in questo.
A furia di giocare e rigiocare, prendendo sul serio la sfida di cancellare o almeno assottigliare il rumore cosmico, ci si potrebbe allora ritrovare sotto scacco accorgendosi che… le cose non cambiano affatto! Non solo non c’è verso di ottenere una trasmissione con lo 0% di errore, ma anche migliorare la propria performance ottenendo percentuali di corruzione dati minori di quelle precedenti non dischiude la possibilità di scegliere tra pietanze meno bizzarre, dunque più “zuppose”: questo, evidentemente, veicola lo specifico punto di vista del designer, il quale intende suggerire che – per quanto si possa tentare di riformare il linguaggio e affinare i processi di comunicazione – i significati attribuiti alle parole sono intrinsecamente indefiniti e in continuo mutamento. Va da sé che non ci si deve necessariamente allineare al suggerimento del designer, anzi esso viene messo letteralmente in gioco, ritrovandosi nelle mani di chi si cimenta con la scelta tra piatti – ancor prima che nella mente.
La riflessione ontologica nel gameplay
Tuttavia, precisamente sotto questo riguardo, si tratta di allenarsi a riconoscere che, come un testo può avere un punto nel senso di vertere su un’idea, sostenere una tesi e così via, così anche un videogioco può comportarsi allo stesso modo, avanzando una prospettiva, comunicando un convincimento ecc., e lo fa sfruttando i mezzi che gli sono più propri – esattamente come avviene con la scrittura tradizionalmente intesa. In poche parole, Soup offre un ulteriore esempio di come un videogioco possa fare filosofia e – nel caso specifico – ontologia, mettendo come se non bastasse un’ulteriore pulce nell’orecchio: che cosa ha messo nelle nostre mani, anche stavolta, questo diabolico filosofo-designer? Dopo aver terminato l’avventura, siamo davvero sicuri di esserci confrontati con un videogioco? Ovvero: fino a che punto Soup è a tutti gli effetti un videogame? Infatti, come nel caso di Here e Necessary Evil, vengono messi in discussione pressoché tutti i significati generalmente attribuiti al gaming – giusto per mandare ulteriormente in crisi le nostre ipotetiche certezze ontologiche: ci si trova a spendere tempo intrattenendosi in una serie di scelte fini a se stesse che non sembrano rendere possibile una qualche forma di vittoria e conseguimento di obiettivo, quasi a passare dall’aristotelica mente immersa nel contemplare se stessa senza scopi esteriori alla mente immersa nel videogiocare se stessa senza scopi esteriori. Effettivamente si gioca eccome, ma non è il tipo di gioco a cui siamo normalmente preparati.
Conclusioni
In conclusione, la dimensione filosofica di Soup sembra essere a ben vedere duplice: essa riguarda non soltanto la riflessività dei contenuti (che cos’è un’ontologia? come funziona? è possibile costruirne una oggettiva? ecc.), ma anche la riflessività o meta-riflessività del medium medesimo, nella misura in cui viene chiamata in causa la natura stessa del videogioco. Un esempio radicale di consapevolezza aumentata. Spingerci a guardare altrimenti, con rinnovato spirito critico e maggiore riflessività, ciò che fino a un momento prima consideravamo con occhi diversi, spesso avendolo sotto il naso senza proprio farci caso: non è questa l’anima motrice delle opere genuinamente filosofiche? Nel dubbio, vado a cucinarmi una zuppa…