L'analisi

A far shopping con gli NFT nel mondo del gaming: quali sono le tendenze

L’utilizzo di NFT per vendere sta prendendo piede in diversi settori, come quello immobiliare o della moda: nell’ambito dei videogiochi, il terreno per implementare una modalità di acquisto basata sui non fungible token è fertilissimo

Pubblicato il 11 Mar 2022

Marco Verrocchi

Software developer

meta privacy noyb

La crescita del mercato degli NFT si sta sviluppando a pari passo con quella del metaverso per ovvi motivi, in quanto questi forniscono una modalità di acquisto in cui, in un certo senso, la valuta e il prodotto sono la medesima entità.

Grandi brand hanno apertamente dimostrato il proprio interesse per gli NFT e non ci vorrà molto prima che passino dal vendere memorabilia a veri e propri prodotti, l’unica variabile è il tempo che ci vorrà prima che NFT e metaverso diventino un argomento conosciuto dai consumatori. Un processo che richiederà del tempo per la maggior parte dei mercati ma che ha terreno fertilissimo in un altro ambito: quello dei videogiochi.

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NFT e metaverso, esempi pratici sul mercato

Si pensi al mercato real estate, che sta rapidamente abbracciando questa nuova tecnologia per vendere proprietà immobiliari. In seno al metaverso, non è difficile prospettarne l’utilizzo: l’acquisto di una villa tramite NFT può fungere sia come “semplice” contratto di acquisto, ma allo stesso tempo sancire l’ownership di una villa digitale. Comprare una casa significherebbe non solo quindi acquistarne le mura, ma anche visitarla in un ambiente digitale, invitare l’avatar di un collega al suo interno per un meeting e, a fine giornata, decidere di far uscire il proprio personaggio per andare a partecipare a qualche evento di gioco.

È qui che entra in gioco quella che sarà probabilmente una delle funzionalità chiave degli NFT, cioè l’interoperabilità degli stessi: si immagini di entrare in uno store virtuale Nike, acquistare il token legato ad un paio di scarpe e poterle ricevere a casa ma anche usarle per personalizzare il proprio avatar digitale; o ancora, acquistare i biglietti per un concerto e ottenere anche una t-shirt da indossare online per mostrare il proprio supporto ad una band.

NFT e metaverso, quando l’economia è videogioco

L’anno è il 2006 e Bethesda, una delle più celebri videogame software house americane, propone in vendita una armatura digitale con cui i videogiocatori possono adornare il proprio cavallo nel bestseller The Elder Scrolls IV: Oblivion. Il prezzo? 2.50$. La community dei videogiocatori reagisce con disdegno di fronte a quello che appare come il più becero tentativo di “estorcere” denaro in seno ad un prodotto che viene già venduto a 70 euro. Tornando ai giorni nostri, questa pratica è ormai diventata non solo accettata ma uno standard de facto in quasi ogni videogioco ad alto budget, specialmente se esso prevede una modalità di gioco online. E i prezzi possono superare drasticamente il tetto dei 2,50 euro.

In gergo sono dette microtransazioni (o MTX) e rappresentano lo strumento su cui pressoché ogni singolo gioco gratuito si poggia. Si pensi al popolarissimo Fortnite, completamente gratuito eppure in grado di generare miliardi di dollari solo tramite la vendita di vestiti (skins) e altre amenità digitali con cui personalizzare il proprio avatar. Queste sono ormai meccaniche ben conosciute da chiunque sia avvezzo all’industria del videogioco, ma si tratta di una introduzione necessaria per comprendere in che contesto gli NFT si stiano inserendo.

Ubisoft Quartz

Nel corso del Dicembre 2021, la compagnia di videogiochi francese Ubisoft annuncia Quartz, una piattaforma di scambio di NFT; già disponibile in versione beta nel Nord America, Quartz consente di ottenere NFT associati ad armi e skin utilizzabili – per ora esclusivamente – nel gioco open world a sfondo bellico Ghost Recon: Breakpoint. A questo viene associata una meccanica “play-to-earn” che permetterebbe ai giocatori di ottenere nuovi NFT progredendo nell’esperienza di gioco, investendo ore completando obiettivi di vario tipo.

Ubisoft Quartz rappresenta quindi la prima vera incursione degli NFT nel mondo dei giochi AAA (alto budget), ma la reazione dell’utenza è stata a dir poco negativa, specie alla luce del fatto che poco dopo anche un altro big del settore, Square Enix, ha espresso il proprio interesse nell’approcciare soluzioni basate sui token per i propri giochi. A prima vista, però, potrebbe sembrare che le note negative con cui Quartz viene apostrafata siano ingiustificate, un’ondata di bastian contrario fondata sul nulla dal momento che, in superficie, gli NFT e le MTX agiscono nelle stesse modalità per raggiungere lo stesso scopo: vendere accessori estetici digitali. I giochi basati sugli NFT non sono nemmeno una vera novità.

Axie Infinity, rilasciato nella prima metà del 2018, si poggia su questa tecnologia e vanta 2 milioni e mezzo di giocatori mensili. Ubisoft Quartz, invece, sta venendo criticata anche dagli stessi sviluppatori della casa francese e al contempo il numero di transazioni sulla piattaforma sembrano già un indicatore che si tratti di un fallimento completo. Ma allora cosa distingue un prodotto come Axie Infinity dal Ghost Recon di Ubisoft? E cosa possiamo aspettarci nel futuro del gaming?

I rischi per i gamer

Per prima cosa, bisogna tenere a mente che Ghost Recon non è un prodotto gratuito: a differenza di altri giochi come Fortnite o Apex Legends, accedere a Ubisoft Quartz significa innanzitutto acquistare un videogioco rilasciato a prezzo pieno: laddove i giochi free to play hanno bisogno di microtransazioni per sostenersi, è ben più difficile da digerire l’idea di acquistare un gioco a 70 euro e poi spendere ulteriormente per ottenere delle opzioni di personalizzazione per il nostro avatar. Si tenga a mente che questa non è una novità, specialmente per Ubisoft stessa: la serie di Assassin’s Creed, pur trattandosi di esperienze di gioco single player, sono letteralmente infarcite di microtransazioni che permettono, ad esempio, di velocizzare il processo di potenziamento del proprio personaggio. L’introduzione degli NFT fa presagire però che le compagnie di videogiochi non solo vogliano continuare a sfruttare gli MTX il più possibile, ma anzi cerchino nuovi strumenti per incentivare l’utenza a metter mano al portafogli dopo l’acquisto di un nuovo videogioco.

Questo rappresenta però solo la superficie del problema, in quanto gli NFT non sono da vedersi solo come un nuovo strumento per tentare di spremere l’utenza, ma piuttosto un vero è proprio attacco al valore artistico del videogioco. Si riveda quanto detto ad inizio articolo in tema di metaverso, cioè che l’interoperabilità di un prodotto acquistato tramite NFT sarà probabilmente uno dei temi portanti che verrà perseguito; questo è piuttosto ovvio: in ambito di metaverso, che senso avrebbe possedere una skin di un giocatore dell’NBA se posso usarla solo ed esclusivamente all’interno di un campo da basket virtuale? Un acquirente desidera poter utilizzare quella skin anche in altri contesti digitali.

Coi videogiochi la situazione però si complica, poiché questa operazione andrebbe ad inficiare sulla qualità come senso di immersione e cura nel world design; come si reagirebbe se fosse possibile importare il proprio fucile d’assalto acquistato in Ghost Recon nelle ambientazioni storiche di Assassin’s Creed? Ed è qui che notiamo la prima contraddizione degli NFT: se non sono condivisibili tra giochi diversi, si perde l’interoperabilità, ma se la condivisione è permessa, la qualità dell’esperienza di gioco ne viene intaccata. Beninteso, certi giochi si prestano a queste operazioni (Fortnite ha sviluppato partnership negli anni con innumerevoli franchise, dai supereroi Marvel a Star Wars), ma qualora l’industria decida di perseguire la strada dei token non fungibili in maniera più massiccia, è immaginabile come saranno sempre meno le esperienze ludiche fortemente incentrate su una narrativa di rilievo in favore di altre più adatte ad accogliere un calderone di influenze culturali diverse e randomiche.

Il valore degli NFT nel mondo del gaming

Osserviamo però l’altra opzione, cioè che la condivisione di NFT tra giochi diversi non sia possibile o sia quantomeno limitata – come ad esempio permetterla solo tra videogiochi che condividono tema e/o ambientazione -: quanto a lungo può allora l’NFT mantenere il suo valore? I videogiochi online sono estremamente volatili: per ogni Fortnite in grado di avere successo per anni ed anni, ci sono decine di titoli che non riescono a mantenere un player count consistente per più di qualche mese, a prescindere dall’ammontare di fondi investiti sul progetto (Electronic Arts ben lo sa dopo il disastroso rilascio di Anthem nel 2019); altri titoli, invece, non puntano affatto su un supporto duraturo: la serie di Call of Duty, da anni uno dei best seller mondiali dell’industria, si basa ancora sul rilascio annuale di nuovi titoli, al pari di giochi sportivi come FIFA.

In questo scenario allora come possiamo aspettarci che un NFT possa mantenere il suo valore una volta che il videogioco ad esso associato raggiunga la fine del suo ciclo vitale? Se il mio NFT non può essere utilizzato in giochi diversi ecco allora che ogni acquisto diventa fondamentalmente un azzardo: se il videogioco in questione avrà successo possiamo immaginare che i nostri NFT mantengano il proprio valore a lungo, ma se dovesse rivelarsi un flop ecco che nel giro di anche solo un mese quello che abbiamo acquistato non abbia più alcun valore, in quanto mancherebbero giocatori, cioè potenziali acquirenti; è una replica di quanto già visto con le meccaniche delle loot box, considerate al pari del gioco d’azzardo e persino completamente bannate dal Belgio nel 2020.

Possiamo quindi immaginare che per sopperire a questa problematica, il numero di videogiochi incentrati su un supporto permanente aumenti sensibilmente, con un detrimento nella varietà di esperienze ludiche offerte al pubblico.

Lo scenario

La strada intrapresa da Ubisoft (e a breve anche dagli altri big dell’industria) appare in sintesi tortuosa ma soprattutto ricca di contraddizioni. Non si ignorino completamente anche le potenzialità che potrebbero manifestarsi in futuro, come permettere ai giocatori di acquistare un videogioco, guadagnare NFT giocando e poi scambiarli per avere un altro gioco, in una meccanica che assicurerebbe all’Ubisoft di turno di mantenere alto lo user engagement e la fedeltà del consumatore verso il marchio, ma allo stesso tempo dando al giocatore la possibilità di vedere questa fedeltà compensata nel tempo.

Si tratta però, secondo chi vi scrive, di piccolezze comparate al possibile danno all’industria. Giusto però dare il beneficio del dubbio: gli NFT sono ancora una novità, una tecnologia che porta con sé rischi e possibilità e nulla impedisce che le varie compagnie trovino la strada giusta da percorrere che permetta ai token di avere senso di esistere nell’ecosistema videoludico senza inferocirne l’utenza.

E d’altronde, se c’è una cosa che tutti abbiamo imparato dai Bitcoin è che sancire prematuramente il fallimento di una idea sia fallace: gli NFT sono qui per restare, a noi resta solo da sperare che vengano implementati adeguatamente.

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