L’accertamento fiscale dell’Agenzia delle Entrate verso Meta e altre big tech per il versamento dell’Iva sui propri servizi ha suscitato molto clamore e, verosimilmente, sarà oggetto di grande attenzione, nel prossimo futuro, anche a livello internazionale.
La questione – che per contingenze politiche e temporali è stata interpretata come una risposta europea ai dazi statunitensi di recente introduzione – non si limita, infatti, al contesto delle piattaforme social Meta, X di Elon Musk e Linkedin, attinte dall’accertamento, ma potrà investire tutti i soggetti economici che, a vario titolo, effettuano operazioni di raccolta gratuita di dati personali e di profilazione dei propri utenti.
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Iva e big tech, cosa contesta l’Agenzia delle Entrate
Nello specifico, infatti, l’Agenzia delle Entrate, a quanto si apprende dalle notizie circolate, avrebbe contestato una clamorosa evasione dell’IVA, fondata sull’interpretazione giuridica del rapporto sinallagmatico esistente tra gli utenti che si registrano sulle piattaforme social e la cessione, più o meno inconsapevole, dei propri dati personali, circostanza che rappresenterebbe a tutti gli effetti il perfezionamento di un contratto di natura commerciale.
In buona sostanza, la cessione gratuita di dati personali (indispensabili a profilare i consumatori, a ricostruirne abitudini e preferenze e finalizzata, tra le altre, ad indirizzare azioni di marketing ed advertising e a consentire attività di sentiment analysis e monitoraggio della brand reputation e, in definitiva, all’assunzione di decisioni strategiche), nell’impostazione del fisco italiano, costituirebbe una contropartita economicamente apprezzabile – e come tale imponibile – dei servizi “social” erogati all’utente.
Come funziona l’Iva in Europa
Per comprendere più compiutamente le origini della contestazione, si rende necessario fare un passo indietro ed esaminare il fondamento giuridico dell’IVA ed il relativo funzionamento.
Come noto, l’IVA è l’unica imposta armonizzata a livello dell’Unione europea, pertanto, le “regole” dettate dalla Direttiva Comunitaria vigente sono recepite in maniera uniforme in tutti gli Stati Membri, il che rappresenta, potenzialmente, un’azione detonante destinata ad avere ripercussioni in tutti i Paesi europei che, sulla scorta delle contestazioni mosse dal fisco italiano, potrebbero agire nello stesso modo. Si ricordino a tal proposito anche gli impatti della riforma Vida – Vat in the digital age.
L’imposta sul valore aggiunto, è un’imposta sul consumo, sulla distribuzione dei beni e sulla prestazione di servizi, ma affinché una di queste operazioni possa essere assoggettata ad IVA è necessaria la compresenza di tre presupposti fondamentali: un presupposto oggettivo, dovendo trattarsi di una cessione di beni o di una prestazione di servizi; un presupposto soggettivo, dovendo l’operazione essere effettuata nell’esercizio abituale di impresa, arte o professione; un presupposto territoriale, dovendo l’operazione avere un collegamento con il territorio dello Stato membro. Al verificarsi dei suddetti tre presupposti, sorge la soggettività passiva ai fini dell’IVA di una determinata operazione.
Il rapporto sinallagmatico
Altro elemento fondamentale perché una determinata operazione possa essere assoggettata all’IVA è l’esistenza del così detto rapporto sinallagmatico, in difetto del quale l’operazione da assoggettare ad IVA non potrebbe dirsi onerosa: deve sussistere, quindi, tra l’autore della prestazione ed il suo destinatario “un rapporto giuridico di scambio di adempimenti sinallagmatici, per cui il compenso ricevuto dal primo costituisce il controvalore effettivo del servizio prestato al secondo (…)” (Ex multis: Cass. n. 14406 del 09/06/2017).
L’esistenza di un rapporto sinallagmatico può essere ravveduta, quindi, anche in assenza di corrispettivo monetario, laddove l’operazione possa essere qualificata come permutativa. In altre parole, anche quando a fronte di una prestazione il “pagamento” avvenga non per mezzo di denaro, ma di altra prestazione (o bene) del medesimo valore, sorge l’obbligo di assoggettamento ad IVA, prendendo come base imponibile il valore delle prestazioni o dei beni scambiati, se esistente, ovvero il così detto valore normale.
Iva e concetto di valore normale
Il concetto di valore normale, disciplinato dall’articolo 14 del D.P.R. n. 633 del 1972 (Decreto IVA) prevede che, qualora per una determinata cessione di beni o prestazione di servizi permutati non venga determinato un prezzo, questo debba essere individuato, ai fini IVA, nell’importo monetario che il cessionario o il committente dovrebbe pagare, per la medesima operazione ed in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione.
Qualora non siano accertabili cessioni di beni o prestazioni di servizi comparabili, per valore normale deve intendersi il prezzo di acquisto dei beni o di beni simili o, in mancanza, il prezzo di costo ovvero, per le prestazioni di servizi, le spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi medesimi.
Ebbene, dalla lettura del dettato normativo, appare di immediata comprensione la difficoltà nella concreta applicazione del “valore normale” ad una moltitudine di transazioni che potrebbero non avere dei comparables immediatamente individuabili, come nel caso della contestata “vendita” dei dati personali alle piattaforme “X”, “Linkedin” e “Meta”.
Nel caso specie, quindi, trattandosi fino a questo momento di un unicum e non essendo facilmente determinabile un prezzo di cessione dei dati personali sul “libero mercato”, probabilmente l’individuazione del valore delle contestate controprestazioni potrebbe rilevarsi particolarmente ostico e, certamente, una delle leve che saranno utilizzate dalle Big Tech nel contenzioso, a quanto pare, di prossima instaurazione.
Iva e big tech, gli impatti sul mercato
In ogni caso, da un punto di vista prettamente fiscale e del fondamento giuridico dell’imposta sul valore aggiunto, a parere di chi scrive, la contestazione mossa nei confronti delle Big Tech potrebbe portare ad un colossale punto di svolta nella tassazione non solo dei giganti della tecnologia, ma di tutti gli operatori che trattano per finalità commerciali i dati raccolti gratuitamente dai propri utenti (si pensi alle compagnie energetiche, agli operatori di telefonia, ai supermercati): ed infatti, a prescindere dalla questione relativa alla quantificazione dell’IVA da versare sui servizi di social network, non sembrerebbe dubitabile il valore economico dei dati personali ceduti, i quali assicurano un lucro considerevole al titolare del trattamento in sede di rivendita a tutte quelle società che intendono pubblicizzare i propri prodotti verso un target specifico o misurare la percezione della propria realtà aziendale nel pubblico di consumatori.
I possibili scenari
Per apprezzare i risvolti della vicenda e valutare l’effettiva fondatezza della pretesa avanzata dal fisco italiano si tratterà di attendere gli sviluppi interpretativi che emergeranno all’esito del contenzioso che, verosimilmente, sarà avviato nel prossimo futuro e ciò non solo nei confini nazionali, ma anche a livello unionale: difatti, ove la magistratura italiana dovesse validare l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate, dato il carattere di imposta armonizzata dell’IVA, lo stesso percorso potrà essere seguito da tutte le autorità fiscali degli Stati membri, confidando in un allineamento interpretativo da parte dei singoli giudici nazionali che, verosimilmente, rimetteranno la questione alla Corte di Giustizia UE.
Sempre che, ovviamente, il Governo, alle cui decisioni soggiace l’Autorità fiscale, non si risolva per rinunciare alla pretesa erariale in favore del perseguimento di interessi “supremi”, di carattere tecnico-tecnologico e/o legati al contesto dei rapporti geo-economici: come anticipato, infatti, la notizia dell’addebito avanzato dall’Agenzia delle Entrate ha suscitato la forte reazione dell’amministrazione americana che vede nell’attività del fisco italiano (indirizzata contro i colossi Big Tech statunitensi) e nella possibile attivazione delle agenzie fiscali degli altri paesi europei, una risposta all’imposizione dei dazi all’importazione da parte degli Stati Uniti, in vigore dal 2 aprile 2025.
Raffronto che, tuttavia, appare infondato sia in punto di diritto che degli effetti economici delle due imposizioni (IVA e dazi), dal momento che l’IVA, a differenza dei dazi, essendo applicata a tutti i soggetti economici operanti nel contesto unionale, non è idonea a generare situazioni di vantaggio/svantaggio competitivo tra diversi operatori attivi nel mercato europeo.