Fioccano Premi, Digital Champions, mirabolanti Team nel nostro Sistema Paese. Sembra che tutto proceda al meglio verso una strepitosa strategia di digitalizzazione! E ormai somiglia sempre più a un campionato di calcio questa Italia digitale dove (però) le regole arbitrali sono soggette a mutevoli interpretazioni (e questa non è una novità, effettivamente), e i campioni promettono miracoli e qualche volta incassano assegni. Per i risultati invece si può aspettare.
In realtà, secondo gli ultimi rilievi Desi, il nostro Paese resta fermo agli ultimi posti in Europa e lo storytelling governativo è sempre meno convincente in un racconto che si ripete sempre uguale davvero da troppi anni. Se si dovesse avere la sventura di leggere oggi il “Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato”, che nel novembre del 1979 l’allora Ministro della Funzione pubblica nel governo Cossiga, Massimo Severo Giannini, inviò alle Camere, vi troveremmo le stesse parole d’ordine di oggi, poi ripetute poco dopo dal Ministro Bassanini e da tutti gli altri sino ad oggi: semplificazione, decertificazione “sburocratizzazione”, anche attraverso l’uso sapiente dell’informatica nella PA. Da allora qualcosa è cambiato? Ci sembra di no, anzi, ci sono forse nuove e preoccupanti tendenze che si fanno avanti, delle pericolose scorciatoie scelte per il desiderio di raccontare, nello scoramento generale, un rivoluzionario cambiamento, anche se non c’è. Infatti, se ci chiedessero di trovare una parola per indicare icasticamente e brevemente quali siano a nostro parere le ultime tendenze nell’evoluzione dell’Agenda digitale italiana, ne troveremmo poche più calzanti di “statalizzazione”. Il termine, che fa subito tornare alla memoria pianificazioni economiche di stampo stalinista, ben si adatta a descrivere anche la tendenza attuale di imporre un modello digitale “governativo”, centralizzato su grandi piattaforme e deciso nelle alte sfere, a un organismo vario, enorme e polimorfico come quello della pubblica amministrazione italiana, senza curarsi di intervenire sui meccanismi locali e interni e il più delle volte mortificando il vivace mercato delle software house per favorire (i soliti) grossi partner tecnologici.
La funzione di una digitalizzazione così “imposta” non può essere che quella – molto limitata – di effettuare un’operazione di maquillage ai vecchi processi burocratici, senza semplificarli e lasciando intatto al di sotto della superficie quell’ormai celebre caos in cui versa buona parte della nostra PA, malattia per la quale l’innovazione digitale potrebbe rappresentare una valida e definitiva cura. Che questo modus operandi non stia conducendo a risultati apprezzabili lo dice dopotutto l’esperienza stessa, un’esperienza della quale raramente però si fa tesoro.
A quanto pare non ha fatto scuola l’avventura fallimentare della CEC-PAC, il servizio di posta certificata per la comunicazione cittadino-PA affidato ad alcune grandi aziende del settore e mantenuto in vita a costi esorbitanti per quattro anni di agonia prima di essere progressivamente dismesso senza aver mai preso piede (le percentuali di utilizzo da parte dei cittadini sono rimaste bassissime). Anche il progetto SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) purtroppo sembra infatti seguire, per certi aspetti, la medesima parabola. Lanciato lo scorso anno con gran clamore dal governo allo scopo, almeno in teoria, di permettere ai cittadini di accedere e fruire di tutti i servizi on line della Pubblica Amministrazione attraverso l’utilizzo di un pin unico, SPID ha finito per sovrapporsi (almeno teoricamente) alla CIE (Carta di identità elettronica) e alla CNS (Carta nazionale dei servizi), progetti pregressi per i quali erano state già stanziate (inutilmente?) ingenti risorse economiche pubbliche (sicché viene spontaneo chiedersi se non avrebbe avuto più senso potenziare gli strumenti già esistenti piuttosto che crearne uno nuovo aumentando la confusione). Oltre a un errore concettuale grossolano commesso in partenza nella scelta di terminologie fuorvianti (per cui lo SPID è stato presentato come un sistema di identità digitali anziché – più correttamente – di identificazioni informatiche, cose molto diverse tra loro), si è capito fin dalle prime battute che l’ottimismo iniziale era destinato a sgonfiarsi presto e che le previsioni sul reale utilizzo di questo ennesimo, nuovo strumento erano state troppo rosee. Secondo gli annunci ufficiali, entro il 2016 sarebbero dovuti essere 6 milioni i cittadini dotati di accesso a SPID, mentre a tre mesi dall’inizio del 2017 sappiamo non solo che gli utenti che utilizzano SPID sono poco più di un milione, ma che i servizi resi fruibili online dalle pubbliche amministrazioni sono davvero pochissimi: inizia a paventarsi la possibilità concreta che anche questo sia stato l’ennesimo progetto fallimentare che non porterà nessun reale cambiamento positivo nel quotidiano rapporto cittadino-PA. Inoltre, non si può non ricordarlo, in Italia si è scelto di far gestire SPID ad aziende private ma stabilendo uno sbarramento economico molto elevato – un capitale sociale minimo di circa 5 milioni di euro – che impedisce di fatto alle piccole e medie imprese del digitale di partecipare alla gestione delle identificazioni informatiche, lasciando così un’altra volta il campo libero ai soliti due o tre colossi del settore.
Altro esempio a suo modo emblematico è quello dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR), uno dei punti cardine dell’Agenda digitale italiana, un’infrastruttura statale alla quale si sarebbero dovuti collegare, entro la fine del 2016, tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, allo scopo di dare vita a un unico grande database: allo stato attuale risulta che i comuni “agganciati” al progetto siano poco più di venti, (e gli unici che hanno davvero “adottato” la piattaforma a disposizione siano due, Bagnacavallo e Lavagna!) un numero davvero troppo esiguo; una defezione provocata, molto probabilmente, dal fatto che si sia puntato molto sulla pubblicizzazione dell’applicazione web ufficiale e molto poco sulla risoluzione di problemi concreti e importanti come quello dell’interoperabilità tra le banche dati dei vari comuni, col risultato di mettere a rischio anche le informazioni detenute dalle singole anagrafi. Eppure, per rendere interoperabili database e archivi basterebbe estendere con rigorosa gradualità standard condivisi da rispettare nei sistemi informativi e documentali della PA, presupposto indispensabile, inoltre, per poter mettere davvero in pratica il riuso dei software.
D’altra parte lo stesso processo telematico, che doveva centralizzare la gestione dei procedimenti civili, tributari e amministrativi, è stato realizzato traslando in maniera meccanica le procedure normative sul “programma informatico”, ma senza omogeneizzare le regole, che sono rimaste slegate tra loro e diverse da procedimento a procedimento, se non anche da rito a rito (e derogando oltretutto al rispetto delle regole tecniche sul documento informatico). Salvo poi richiedere sempre una copia cartacea “di cortesia” per sicurezza e comodità di lettura! Un processo di centralizzazione simile (e non sappiamo quanto salutare) sta interessando anche gli obblighi di trasparenza: in base all’art. 9-bis dell’attuale versione del D. Lgs 33/2013 (così come recentemente modificata), infatti, per adempiere gli obblighi di trasparenza gli enti non devono più pubblicare direttamente i dati interessati, ma un link a banche dati pubbliche e centrali nelle quali tali dati verranno fatti confluire. I dettagli di questo processo sono però ancora avvolti da incertezza: non si sa in maniera precisa in che modo avverranno i collegamenti locale-centrale, la pubblicazione dei dati e come il cittadino potrà accedervi. Anche in questo campo, quindi, si naviga a vista (e avvolti da una fittissima nebbia, tutt’altro che trasparente).
Una forma di centralizzazione con piattaforme uniche e statali è riscontrabile anche nei pagamenti elettronici (anche qui una piattaforma unica, PagoPA, ma che ancora registra risultati incerti) come negli appalti e nei bandi di gara, che dovrebbero svolgersi con più facilità e trasparenza attraverso il MEPA e sappiamo che fatti di cronaca recente non sempre tranquillizzano del tutto sul punto. E soprattutto demoralizza il constatare che iniziative di accentramento così manichee non siano però seguite o accompagnate da controlli altrettanto attenti: la Coalizione interassociativa ANORC-AIFAG dei conservatori accreditati ha recentemente fatto emergere come molti dei conservatori iscritti al MEPA, candidati quindi a offrire servizi di conservazione documentale alla PA, dichiarino di essere ciò che non sono, ovvero non abbiano in realtà conseguito l’accreditamento presso l’AgID, così come la normativa, invece, espressamente sembrerebbe richiedere per chi intenda conservare dati e documenti della PA (su questo punto piuttosto rilevante la chiarezza della normativa lascia infatti a desiderare).
Progetti di digitalizzazione stabiliti a priori che non tengono conto della multiforme realtà e delle esigenze del mercato da un lato e scarso controllo dall’altro contribuiscono a far sì che l’adesione ai nuovi modelli digitali di gestione documentale non siano ancora sufficientemente diffusi e utilizzati e se, per citare un caso esemplificativo, la fatturazione elettronica verso la PA si è ormai imposta con metodi piuttosto coercitivi, quella B2B è ancora ferma ai blocchi di partenza e sembra far fatica ad affermarsi come pratica consueta tra imprenditori, professionisti e artigiani.
Fin qui si sono elencati i punti principali del cahier de doléances dell’Agenda digitale italiana, ma cosa si può fare in concreto per salvare una situazione che rischia di trascinare (e tenere a lungo) il Paese agli ultimi posti dell’innovazione in Europa? Sicuramente è necessaria l’azione corretta e congiunta dei principali attori della vicenda: governo centrale, pubbliche amministrazioni, cittadini, mercato.
Innanzitutto c’è un gran bisogno di principi normativi generali, chiari e stabili nel tempo, che regolamentino il settore e regole tecniche che definiscano standard condivisi a cui tutte le PA e tutti i fornitori IT debbano uniformarsi nell’offerta e nella gestione di servizi digitali. Occorre sostenere e non mortificare il mercato digitale, che può diventare un settore strategico nell’economia del Paese, orientandone lo sviluppo, promuovendone una crescita sana, pretendendo il rispetto degli standard e vigilando sulla loro reale applicazione. È necessario semplificare i procedimenti amministrativi e rendere obbligatoriamente interoperabili i sistemi documentali delle PA. È indispensabile, inoltre, far sì che i siti istituzionali siano realmente usabili per il cittadino e attivare i servizi telematici che gli sono stati promessi. In ultimo, ma non per minore importanza, va potenziata la “cultura” digitale, negli operatori come nei fruitori dei servizi online della PA, promuovendo da un lato l’ampia diffusione di nuove competenze e professionalità digitali nella pubblica amministrazione, e dall’altro l’alfabetizzazione di tutti cittadini (a partire dai decisori politici e dalle sfere dirigenziali) affinché tutti abbiano piena coscienza di quali siano e di come far valere i loro diritti digitali. Questa a nostro avviso è una strada più lunga, ma più coerente e logica, per garantire una reale digitalizzazione al nostro Paese. Ovvio che sia più facile innamorarsi delle scorciatoie e magari arrivare a pensare che la stessa normativa sia un fastidioso fardello tutto italiano di cui sarebbe meglio non interessarsi, risolvendo tutto a livello informatico[1]. Ma le strade brevi e facili portano spesso, lo sappiamo, a finte conquiste di altrettanto breve durata.
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Questi e altri temi verranno discussi al Dig.eat – evento nazionale Anorc sul digitale che si terrà a Roma il 23 marzo 2017. Ingresso gratuito. Info: www.digeat.it