La gestione degli archivi digitali è un ambito che continua a essere penalizzato in Italia. Da un lato dalla mancata adozione di misure organizzative approvate da due decenni, ribadite alcuni anni fa e applicate poco e male in molte amministrazioni, dall’altro dalla inefficienza dell’attuale modello di conservazione digitale a norma.
A pesare sulla realizzazione degli obiettivi di trasformazione digitale di cui si discute da anni, oltre a una sempre più limitata capacità di applicare le norme in vigore, anche quando si tratta di disposizioni ragionevoli e sostenibili, anche l’affievolirsi delle attività di controllo e monitoraggio da parte delle attività competenti.
Scarsa applicazione delle leggi e controlli
Oltre alla difficoltà legata, come dicevamo, alla sempre più limitata la capacità di applicare le norme in vigore, è indispensabile ricordare come sono del tutto insufficienti e privi di continuità i controlli da parte delle istituzioni competenti. È mancata, ad esempio, la capacità di far rispettare le norme sulla gestione informatica dei documenti approvate nel 1998, nonostante fossero state accolte con favore da tutti gli interessati. Furono finanziati importanti progetti di supporto per gli enti locali con l’obiettivo di sviluppare soluzioni tecnologiche di qualità e non mancarono iniziative formative realizzate a livello nazionale con il supporto dell’Aipa, dell’amministrazione archivistica e della Scuola superiore della pubblica amministrazione. Per alcuni anni fu condotta una significativa attività di monitoraggio che consentì di valutare lo stato di avanzamento dei processi avviati e pianificare iniziative congiunte Stato-Regioni. Si monitorarono ad esempio gli adempimenti in materia di policy (l’approvazione e la pubblicazione del manuale di gestione), ma anche la presenza dei profili di responsabilità tecnica (archivistica e informatica) nei servizi dedicati alla informatizzazione dei sistemi documentari pubblici.
Del resto sia il testo unico del 2000 che successivamente il Codice dell’amministrazione digitale stabiliscono con chiarezza precisi obblighi sulla presenza di un responsabile per la gestione documentale dotato di competenze e conoscenze in materia di archivi e di strutture specifiche per la trasformazione digitale. A un certo punto, tuttavia, questo lavoro prezioso di analisi dello stato dell’arte si è ridotto, non perché gli obiettivi fossero raggiunti ma in ragione dell’indebolimento delle istituzioni preposte alla funzione di controllo e della progressiva incapacità dei governi di lavorare per la qualità del back office.
Anche sul piano strettamente tecnologico, la valutazione è venuta meno. Per vent’anni, nonostante gli investimenti del biennio 1999-2000, nessuno si è preoccupato della qualità delle piattaforme digitali utilizzate per gli archivi digitali della PA, né si sono definite griglie di riferimento dei requisiti essenziali da rispettare: quando questo è avvenuto (con il provvedimento di Agid del 2014) si è preferito allargare l’ambito dei requisiti all’intero sistema dei procedimenti amministrativi con un documento di notevole complessità, che, includendo migliaia di requisiti privi di metrica, non era certo in grado di fornire concreto supporto agli operatori.
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Sostenibilità del sistema di archiviazione digitale
Sul fronte della continuità e persistenza del digitale, il quadro di riferimento è ancora più critico, anche in considerazione di una legislazione tutt’altro che consolidata e condivisa. Non si è soprattutto riflettuto abbastanza sulla sostenibilità del sistema di archiviazione digitale previsto per il settore pubblico. La costosa attività di custodia precoce adottata sulla base delle regole tecniche del 2013 non fornisce basi adeguate a un efficace processo di conservazione in grado di garantire servizi di accesso e fruizione agli enti versanti, dato che il nucleo di elementi descrittivi che accompagnano i documenti nei depositi digitali si limita ad assicurare – nella migliore delle ipotesi – il controllo di integrità di alcuni frammenti d’archivio.
Si pensi all’obbligo di inviare giornalmente in conservazione il registro di protocollo nella forma di file pdf senza tener conto del fatto che in molti casi le registrazioni sono oggetto (nella fase corrente e, quindi, nei giorni successivi all’invio al conservatore) di modifiche o di annullamento che non potranno essere tracciate in modo adeguato nei sistemi di custodia: le piattaforme attuali in uso nella stragrande maggioranza dei conservatori accreditati non sono, infatti, progettate per acquisire dagli enti produttori le segnalazioni di tali modifiche né per sostenere un faticoso e impegnativo sistema di allineamento dei sistemi informativi che dovrebbe a sua volta fornire strumenti di verifica delle modifiche medesime nella fase di accesso.
Competenza e pianificazione sostenibile degli interventi
Del resto, come abbiamo più volte ricordato, il sistema attuale non offre altro che un servizio di conservazione tombale, la cui precocità si scontra con l’assenza generalizzata di buoni strumenti di fruizione e con la rigidità di applicativi finalizzati a mantenere e documentare l’integrità dei bitstream anche quando, nel sistema attivo, quegli stessi flussi possono e sono oggetto di legittime trasformazioni anche successive al trasferimento nell’ambiente di conservazione. Di conseguenza tutti i produttori sono costretti a mantenere nel proprio archivio corrente tutto ciò che viene inviato (spesso a pagamento) nel sistema di conservazione e considerano, quindi, l’intero processo come una costosa attività di riproduzione di sicurezza, per fortuna limitata finora a un numero circoscritto di documenti.
E’ quindi legittimo chiedersi se sia questo l’unico modo per gestire i rischi di perdita del digitale senza evitare la ridondanza e la duplicazione dei contenuti e senza assicurare la qualità del processo in termini di elementi descrittivi delle risorse digitali conservate. E’ altrettanto legittimo domandarsi perché, dopo tanti anni di esperienza e di scarsità di risorse, ancora oggi non si sia in grado di progettare l’innovazione di cui il Paese ha bisogno investendo sui profili di competenza e sulla pianificazione sostenibile degli interventi.
Riflessioni e proposte di natura generale
In questa lunga fase di incertezza che il nostro Paese attraversa in materia di trasformazione digitale non sono mancate riflessioni e proposte di natura generale per affrontare in modo sistematico una situazione di stallo che rischia di avere conseguenze negative sui processi faticosamente avviati in questi decenni. In alcuni casi – mi riferisco ad esempio all’analisi di Luca Gastaldi e Nello Iacono, Per una nuova governance del digitale: alcune proposte – il quadro presentato e i percorsi suggeriti per uscire in modo organico da una situazione bloccata sono senz’altro condivisibili, anche se le considerazioni e le iniziative proposte restano necessariamente a un livello ancora astratto.
Concretezza e interventi per uscire dall’impasse
Cosa serve, allora per portare, finalmente, a conclusione il processo di digitalizzazione del Paese? Sicuramente molta concretezza e, quindi, un piano di interventi prioritari che facilitino sul piano organizzativo e operativo il lavoro dei singoli produttori, soprattutto se appartengono al settore pubblico.
Certo, serve anche una visione strategica e degli strumenti di coordinamento istituzionale, così come serve interrogarci sulle strategie che consentano all’Italia di uscire dall’impasse, ma quello che è più urgente e necessario è intervenire sui nodi operativi che in questi anni sono stati trascurati o, addirittura, ignorati.
Nodi che sono molti e rilevanti, nonostante il nostro Paese sia stato tra i primi al mondo (non solo in Europa) a riconoscere l’importanza di infrastrutture adeguate e di un sistema di regole e policy normalizzato nella struttura, ma flessibile nei contenuti, soprattutto in materia di gestione e tenuta di archivi digitali.