La governance della sanità digitale sta attraversando una profonda fase di riorganizzazione. Fallite le precedenti impostazioni centralistiche, le Regioni stanno vivendo un effetto big bang in cui l’innovazione progredisce a macchia di leopardo, complici attribuzioni di potere e scelte politiche che hanno accentuato ulteriormente il gap Nord-Sud. Per raggiungere una cultura digitale al servizio della salute serve un ribaltamento a 180 gradi accelerando su soluzioni in grado di rispondere a una logica user-centric. Utilizzo del dato dematerializzato e introduzione di nuove tecnologie di interfaccia utente i cardini centrali.
Il dibattito sulla Sanità digitale 2019, partito a fine 2018 e proseguito in gennaio, sembra spegnersi dopo un mese in un clima di sostanziale sfiducia. La governance nazionale dell’innovazione digitale è in fase di profonda riorganizzazione (AgID, Team). Una riorganizzazione per altro indispensabile visti i risultati e l’impostazione centralistica di quella precedente, mentre le Regioni operano sull’eHealth a velocità sempre più differenziate.
Il Big Bang delle sanità regionali
C’è un ‘effetto universo’, dove le diverse galassie regionali si allontanano a velocità crescente. In Lombardia si parla ormai con concretezza di impiego dei Big Data in sanità, come del resto in Piemonte. La sanità lombarda sta avviando un gigantesco programma di presa in carico di tre milioni di pazienti cronici. Le difficoltà iniziali non mancano, anche sul versante del ‘corredo digitale’ dei dati necessari, ma il programma è rivoluzionario per l’intera sanità italiana. Il 27 febbraio, al Grattacielo Pirelli di Milano, verrà presentato al mondo scientifico il primo progetto di uno Smart Hospital pubblico (Istituto Tumori di Milano) già a metà percorso. Però, in molte altre regioni italiane (Sicilia, Calabria, Campania, Basilicata, Molise, Abruzzo a cui si aggiungono Alto Adige, in parte, le Marche, per un totale di almeno 16 milioni di italiani) non si riesce a far decollare un programma di FSE, obbligatorio per legge da tre anni.
Dopo innumerevoli discussioni, in queste regioni gli impegni programmatici sono ancora sulla carta. Spesso le azioni di procurement pubblico hanno dovuto essere completamente riformulate dopo che per anni non hanno dati validi risultati – come nelle Marche, in Basilicata e in Abruzzo – e soprattutto non hanno avuto un sostegno efficace nella centrale di acquisti nazionale Consip. Tutto questo è accaduto in barba al rispetto delle leggi in vigore le quali prevedono che tutti i cittadini italiani hanno il diritto, sancito dal Parlamento italiano, di accedere online al proprio Fascicolo Elettronico per conoscere i referti di esami strumentali e di visite specialistiche dal 31.12. 2015.
La decisione del governo centrale – contenuta in un comma della Legge di Stabilità del 2016 – di mettere queste regioni ‘ritardatarie’ in ‘stato di sussidiarietà’ nella realizzazione del FSE, ha avuto come unico obiettivo quello di fermare i progetti di collaborazione Nord-Sud. La cosiddetta sussidiarietà, che affida un specie di commissariamento al MEF via Sogei (e relativi fondi), non ha funzionato.
La “malattia” della sussidiarietà
Il mercato ICT si è sentito espropriato e la collaborazione Interregionale – ad esempio quella progettata con la ‘Carta di Salerno’ nel 2017 – è stata scoraggiata. Voglio ricordare che nel marzo 2017, a Salerno, le in House di Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia, con il beneplacito di AgID, stavano avviando una collaborazione sperimentale con la regione Campania per una Road Map realizzativa del Fascicolo, promossa da Assinter e sotto la supervisione scientifica del Politecnico di Milano. La legge di sussidiarietà ha interrotto questa sperimentazione.
Per la verità, in queste regioni ‘ritardatarie’, alla sanità on line manca ancora, troppo spesso anche se non ovunque, un insieme di infrastrutture di base effettivamente funzionanti. Come i sistemi Cup regionali che prevedono la dematerializzazione standardizzata di tutte le agende di prenotazione dei medici. A Bologna questo processo fu esteso a tutti medici dell’area metropolitana a partire dalla metà dei lontani anni ’80 e nel 1989 funzionavano già 60 punti di prenotazione elettronica delle visite e degli esami sul territorio, collocati perfino nei supermercati, che potevano utilizzare le agende mediche digitali.
Nel Nord, con poche eccezioni, l’innovazione digitale procede con esperienze significative. In Veneto si sta sperimentando una cultura del dato dematerializzato basata sul coinvolgimento attivo del cittadino, che costituisce anch’essa un terreno di grande cambiamento della vecchia politica sanitaria. Il Trentino è ormai un laboratorio di innovazione digitale per la salute. La Valle d’Aosta ha avuto risultati eccezionali rendendo attivo l’FSE in poco tempo per metà della popolazione. L’Emilia-Romagna – dove è stato inventato il Fascicolo Sanitario del Cittadino nella versione attuale fin dal 2002 grazie agli studi della scuola sociologica bolognese – continua a inserire elementi di novità nella dotazione del FSE.
Innovazione a macchia di leopardo
Nel centro Italia, il Lazio, pur risentendo delle complessive difficoltà della sanità capitolina, ha ultimamente avviato un coraggioso programma di dematerializzazione associato alla presa in carico dei pazienti cronici. Come del resto, ancor prima, hanno fatto la Toscana, l’Umbria, investendo in eHealth territoriale e il Friuli nella digitalizzazione dei processi organizzativi. Poi c’è una zona intermedia sia a nord che a sud dove si muovono importanti sperimentazioni: in Piemonte, in Liguria, ma anche in Puglia, in Sardegna stanno decollando sperimentazioni di FSE e di infrastrutture per servizi on line. Anche qui sono attivi gruppi di progetto e intelligenze ideative in campo eHealth.
Un quadro estremamente variegato, che mette in luce una sostanziale difficoltà delle strutture centrali di programmazione dell’Agenda Digitale sanitaria nel governo di questi processi. Non da oggi, ma da almeno quindici anni, cioè da quando internet ha cambiato radicalmente la cultura del sistema informativo della sanità nazionale.
In assenza di programmazione centrale, la dematerializzazione della sanità italiana rischia di frantumare ancora di più il sistema sanitario nazionale, anziché unificarlo come si sperava. Questo perché i principali attori non sono stati messi nelle condizioni finanziarie (la dotazione di risorse dedicate è stata ridicola e va dai 10 milioni – ripeto milioni – per FSE, ai 100 per rifare i sistemi Cup in funzione del governo dei tempi di attesa delle visite specialistiche) e operative per fare sinergia.
Il ruolo delle in house
Quali sono questi attori? La rete delle società ICT in House delle regioni (sono 17) e le in House nazionali del digitale (Sogei, Cineca), coordinate da Assinter Italia; le maggiori imprese del mercato ICT (sono 6 o 7 quelle Made in Italy a cui si aggiungono le multinazionali presenti in Italia), i centri di aggregazione della domanda pubblica di ICT nazionali (Consip) e regionali, responsabili del procurement per il settore pubblico; i ministeri e le strutture governative dedicate (Sanità, MEF, PA, Funzione Pubblica, AgID e Team Digitale); la Conferenza Stato-Regioni; i centri scientifici nazionali (come Politecnici e Università).
Ognuno di questi attori o gruppi di attori (penso al network delle società in House) ha agito, proposto innovazioni, ‘Patti digitali’, programmi, osservatori in autonomia, senza la presenza di punti forti di indirizzo e coordinamento nazionale. Forse con la sola eccezione del breve periodo tra il 2010 e il 2012, dove in sintonia tra centro e regioni più attive (e relative in House) è stato possibile varare la legge definitivamente approvata dal governo Letta nell’agosto 2013 e poi le specifiche tecniche attuative sul FSE. Ma, e ciò è significativo, al di fuori dei provvedimenti di riorganizzazione della sanità, del cosiddetto Decreto Balducci, perché il Ministero della Sanità stentava a riconosce l’FSE tra i suoi ‘LEA’.
In questa situazione, procurement pubblico e mercato hanno agito ognuno per loro conto, proponendo a regioni e Asl non ‘sistemi di dematerializzazione’ in funzione del cittadino-assistito, ma ‘prodotti informatici’. Ogni azienda sanitaria ha potuto poi decidere ‘come’ e ‘se’ usare.
Il tesoro dei dati
Un esempio è rappresentato dal ‘dato’ o meglio, dall’eData’, il dato di informazione sanitaria dematerializzato. Perché digitalizziamo le informazioni in sanità con FSE, CCE, Dossier Sanitari? Tre anni fa è stata posta questa domanda ai discenti di un master eHealth dell’Università di Urbino, peraltro quasi tutti operatori sanitari. Ecco le risposte in ordine di prevalenza. ‘Per superare le distanze’; ‘Per fare diagnosi da casa’; ‘Per eliminare la carta’; ‘Per ridurre le spese’; ‘Per ridurre i tempi di attesa in sanità’. Nessuna di queste risposte è in realtà pertinente.
Negli anni Settanta hanno chiesto a Foucault perché i malati venivano chiusi in una stanza d’ospedale e tenuti fermi su un letto, anche solo se si sospettava che avessero una malattia. Lui ha risposto: ‘Per osservarli meglio’. L’eHealth serve per questo, “per osservarli meglio”.
La digitalizzazione contribuisce a migliorare tante cose, ma il suo scopo principale, la ragione per cui si dematerializza, è ottenere dati in formato digitale per potenziare enormemente, nell’ordine di 10 alla n., la dotazione di informazioni personalizzate sul paziente. Per realizzare un corredo informativo, anche genetico, per una medicina sempre più di precisione e quindi personalizzata. E per disporre di eData e Big Data in funzione di una programmazione real time dell’assistenza sanitaria nella filiera locale, regionale, nazionale ( e si spera europea). Per tracciare percorsi (PDTA che diventano ePDTA) di continuità assistenziale e presa in carico del paziente.
Sistemi Cup fuori controllo
Quindi si dematerializza per trasformare i dati in oro, mentre oggi sono paglia che si getta in grande quantità. Tutti i dati dei sistemi Cup che tracciano il comportamento dell’80% degli italiani nell’accesso ai servizi ambulatoriali vengono oggi buttati, anche quelli dei Cup di ultima generazione. Gli eData raccolti dai FSE e dalle CCE, hanno formati non sempre strutturati e codificati e quindi sono, almeno al 70% inutilizzabili per processi come quelli sopra descritti.
Occorre pertanto prevedere regole di strutturazione, standardizzazione e codificazioni dei dati nella eHealth che va verso gli anni Venti del 2000. La domanda che ogni decisore della sanità pubblica deve seriamente porsi è questa: alla fine del secondo decennio del 2000 si dematerializza in funzione della burocrazia o del cittadino-assistito? E ancora, siamo sicuri, come ci raccontiamo, che progettiamo reti effettivamente citizen centered?
Non basta una nuova cultura del dato, che va comunque potenziata creando centri di vera competenza in collaborazione tra aziende e università che stentano a nascere. Occorre mettere il cittadino nella condizione di essere esso stesso produttore di dati dematerializzati per la sua salute e quella della comunità. Taccuini e Cartelle Cliniche elettroniche devono raccogliere i PROMs e dati comportamentali del paziente. Queste informazioni devono entrare nel sistema informativo ufficiale della sanità pubblica e poter essere utilizzate dai medici.
Su queste pagine elettroniche i responsabili dell’Osservatorio ICT del Politecnico di Milano hanno scritto “che cittadini e medici dovranno essere maggiormente coinvolti nei progetti di innovazione digitale affinché possano contribuire allo sviluppo di soluzioni che rispondano alle loro reali esigenze, in un’ottica “user-centric”. È un obiettivo di importanza strategica per il futuro dell’eHealth. Perché sia perseguita e realizzata la cultura digitale per la salute degli italiani, a partire dal 2019, dovrà essere ribaltata di 180 gradi. I capisaldi di questo ribaltamento sono l’utilizzo del dato dematerializzato (eData, Big Data) e l’introduzione di nuove tecnologie di interfaccia utente (cittadino, medico) culturalmente compatibili con la rivoluzione e l’evoluzione consumer.
I decisori nazionali e i manager della sanità dovranno considerare questi due obiettivi delle co-mete dei loro progetti di dematerializzazione e occuparsi in via esclusiva del valore dei dati e dell’accesso ai sistemi da parte di cittadini e medici. E non più, come ancora accade, di software, cloud e infrastrutture.