La Corte di Cassazione interviene in sede penale sulla compravendita di bitcoin con due sentenze del 17 settembre 2020.
Le sentenze sono state definite da alcuni commentatori “storiche”, ma è proprio così?
Non sembra, e vediamone il perché.
Innanzitutto vanno chiariti alcuni punti.
Il caso bitcoingo
La Cassazione interviene in via cautelare (e non al termine dell’ordinario iter dibattimentale di merito) in quanto vi erano state delle compravendite di bitcoin, attraverso il network localbitcoin.com e poi attraverso il sito bitcoingo, che avrebbero determinato nel complesso, la commissione di diversi reati, dall’art 166 del Testo Unico sulla Finanza, che prevede il cd abusivismo finanziario, al riciclaggio.
La Suprema Corte era stata chiamata a decidere sul sequestro delle somme, circa duecentomila euro, che erano risultate essere collegate alla complessa operazione.
Per inciso la Corte ha poi annullato il sequestro per difetto di idonea motivazione del sequestro da parte del Tribunale del riesame, che aveva avallato la misura cautelare, sul requisito di sproporzione tra reddito dichiarato dal ricorrente e somme rinvenute.
Il che non ha ovviamente nulla a che vedere con la natura giuridica dei bitcoin.
Il punto chiave
Il punto che qui interessa è quello relativo alla qualificazione dei portali di cambiavalute ai fini dell’inserimento di questi ultimi siti tra i soggetti vigilati dall’Autorità di controllo della borsa ed alla possibile commissione di reati finanziari per chi cambia criptovalute.
La Cassazione sembrerebbe infatti aver ricompreso tra gli strumenti finanziari anche lo scambio di criptovalute.
La valutazione giuridica in sé operata dalla Cassazione sulla natura di strumento o servizio finanziario delle criptovalute, se scissa dal caso concreto, sarebbe stata errata.
Come giustamente richiamato dall’avvocato del ricorrente in cassazione “l’attività di cambiavalute virtuale era stata definita dal D.Lgs. 90/17, delineando per i cambiavalute uno stato proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento (l’art. 1 comma 2 TUE prevede che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”); tale scelta era perfettamente coerente con l’ordinamento comunitario e, in particolare, con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin contro valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento; a fronte di tali dati era un fuor d’opera quanto affermato dal Tribunale, secondo cui i bitcoin costituiscono uno strumento finanziario, anche se lo stesso Tribunale sembrava perfettamente consapevole della assoluta incongruità della valutazione giuridica offerta, laddove compiva un generico ed impreciso riferimento ad “atti comunitari e provvedimenti Consob” e sovvertiva la gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, ritenendo una decisione della Corte di Giustizia UE ed un decreto legislativo minusvalenti rispetto ad un parere della Banca Centrale Europea o ad un parere della Consob o ancora ad una direttiva comunitaria priva di effetto per i cittadini perché non ancora recepita dall’ordinamento interno.”
Il richiamo all’art. 166 comma 1 lett. C) D. Igs. 58/98 (TUF), sarebbe stato in questa prospettiva errato, perché avrebbe applicato la disciplina degli strumenti finanziari portata dal Testo Unico sulla finanza ad una attività diversamente regolata.
In altre parole, una cosa è avere un portale di scambio di token di natura finanziaria, oggetto ad esempio di scambio di titoli basati sulla blockchain e provenienti da ICO ( initial coin offering) o di STO ( security token offering) e altro è avere un portale che consente lo scambio di criptovalute con funzione di valuta virtuale, a cui si applicano invece le norme valutarie relative alla quarta e quinta direttiva antiriciclaggio ed ai conseguenti atti di esecuzione in sede nazionale.
Ma, nel caso di specie il portale bitcoingo, riconducibile al ricorrente, presentava a detta della Cassazione delle caratteristiche evidenti di un portale classico di trading ( o, comunque in grado di fornire informazioni utili al trading), proponendo la compravendita di bitcoin alla stregua di un investimento, menzionando per esempio i cd contract for difference ovvero strumenti derivati mediante i quali si scambiano altri prodotti finanziari.
I CFD o Contratti per Differenza, sono strumenti finanziari il cui valore replica l’andamento di un asset finanziario.
Con il trading di CFD si può negoziare al rialzo e al ribasso su diversi tipi di asset: azioni, coppie valutarie, criptovalute, materie prime, indici di borsa e altri ancora.
In questa prospettiva dunque il portale “incriminato” non si sarebbe posto secondo la Cassazione come semplice intermediario per la vendita di criptovalute, ma avrebbe svolto un ruolo attivo nell’informare e proporre investimenti, tra l’altro estremamente rischiosi, associati alle criptovalute.
Secondo il Supremo Collegio “ la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166 comma 1 lett. c) TUF.”
In conclusione
Dunque non sembra affatto di trovarsi di fronte ad una sentenza “storica” quanto ad una presa d’atto da parte della Cassazione di un requisito “sostanzialistico” di attività finanziaria ( oltretutto svolto in sede cautelare) piuttosto che ad un requisito formale legato alla natura di cambiavalute virtuale, che avrebbe portato ad esiti diversi.