La Cina ha causato un nuovo scossone al valore dei Bitcoin e di altre criptovalute, come già aveva fatto in passato e ancora una volta evidenziando che il vero problema è che le criptovalute – proprio per la loro gestione decentralizzata e per l’assenza di regolamentatori – non possono non accogliere fenomeni di speculazione e questo, forse, comprometterà ancora per lungo tempo la possibilità che una moneta come Bitcoin possa diventare davvero mainstream, affidabile anche per il soggetto comune e, quindi, regolarmente accettata.
e-yuan, cosa c’è dietro? Così la Cina rafforza il controllo finanziario sui cittadini
Ripercorriamo cosa è successo negli ultimi giorni e le ragioni del contrastato rapporto di Pechino con le criptovalute.
Il periodo nero delle criptovalute
Negli ultimi mesi le criptovalute hanno conquistato le prime pagine dei giornali con la loro straordinaria crescita, che pareva inarrestabile, costellata di notizie positive sia con riguardo all’espansione del loro mercato, sia con riguardo alla crescita esponenziale di fenomeni a loro ancillari, come gli NFT.
Sono però bastate alcune dichiarazioni del CEO di Tesla a far perdere oltre 10 punti percentuali a Bitcoin (con molte altre criptovalute a imitarne lo sviluppo). Com’è noto Elon Musk ha annunciato lo stop all’accettazione di pagamenti in bitcoin finché il mining non sarà reso più sostenibile a livello ambientale.
Elon Musk in effetti non ha fatto altro che “portarsi via” il balzo in avanti nei valori che aveva garantito alle criptovalute accettando pagamenti in bitcoin per acquistare le sue auto (passaggio che molti avevano interpretato come evoluzione dei cripto-asset in un qualcosa di più mainstream e regolarmente accettato).
A far da seguito alle dichiarazioni di Musk, in un periodo nero per il settore delle criptovalute (curioso come questi strumenti tecnologici accelerino anche i fenomeni economici, con fasi di sviluppo e di involuzione che si susseguono in termini di settimane o mesi e non di anni come eravamo abituati) è arrivata la mossa della Cina.
Tre importanti istituti finanziari del paese, la National Internet Finance Association of China, la China Banking Association e la Payment and Clearing Association of China, hanno infatti diffuso un comunicato congiunto in cui hanno ricordato ai cittadini cinesi che le criptovalute non sono sicure e che non esistono meccanismi di tutela per le persone che investono in questi asset. Le criptovalute in particolare, si legge nel comunicato, minacciano la stabilità del sistema finanziario ed economico.
Oltre a questo, gli istituti hanno raccomandato ai propri membri (istituti finanziari e di credito) di non negoziare in criptovalute, estendendo la raccomandazione a qualsiasi prodotto finanziario connesso con delle criptovalute o con le loro evoluzioni di valore.
Le possibili ragioni della stretta cinese
Probabilmente le ragioni della stretta cinese sono da collegare ai recenti repentini mutamenti di valore nel settore delle criptovalute, che hanno spinto le istituzioni cinesi a ricordare ai cittadini la pericolosità di questi investimenti e a “proteggerli” precisando ed estendendo i divieti di negoziazione di queste monete digitali in Cina. C’è però da dire che, solitamente, simili prese di posizione, in Cina, sono rivelatrici di un preciso disegno politico (forse legato alla necessità di eliminare la concorrenza del neonato e-yuan).
In effetti, se proviamo a trasferire in una nazione il comportamento erratico di Musk in tema di criptovalute, la Cina si presta a un parallelo davvero calzante.
Pechino in questi anni è passata da generosi endorsement in favore delle criptovalute a repentine chiusure, sempre causando grandi ripercussioni sui mercati, specie considerando che la Cina è diventata col tempo la nazione in cui si concentra la maggior parte della potenza di calcolo che muove Bitcoin (secondo alcune stime stiamo parlando del 70% della potenza di elaborazione della rete Bitcoin) nonché molte altre criptovalute.
Per questo motivo le ripercussioni delle scelte governative cinesi influiscono sul valore delle criptovalute in maniera più incisiva rispetto alle decisioni adottate in altri paesi.
Lo strano rapporto tra Pechino e le criptovalute
E Pechino ha davvero un rapporto strano con il settore delle criptovalute.
Un rapporto che inizia nel 2013 quando in Cina i bitcoin venivano associati alle “monete virtuali” che tanti cinesi scambiavano nei videogiochi online. In quell’ottica i primi pareri istituzionali nel decretavano la libera trasferibilità.
Peccato che poco dopo i vertici delle istituzioni finanziarie cinesi, resisi conto di cosa fossero davvero queste criptovalute e del “potenziale anarchico” che rappresentavano, ne bloccarono ogni ulteriore diffusione, stabilendo di fatto un veto sulle attività finanziarie in criptovaluta.
Mentre il veto costringeva molti exchange e trader a trasferirsi all’esterno della Cina, la potenza di calcolo necessaria a muovere le varie blockchain delle criptovalute si concentrava nella Repubblica Popolare.
La Cina a quel punto iniziava a guardare con interesse al business delle mining farm, ma rimaneva rigida sulle attività di trading (per il dichiarato timore che i cittadini cinesi venissero truffati o comunque perdessero i loro risparmi su un mercato volatile come quello delle criptovalute).
Nel 2017 poi la Cina ha effettivamente messo al bando le Initial Coin Offerings (ICO) ed ha pianificato la progressiva chiusura dei canali per acquistare e vendere Bitcoin nel paese (pianificazione fino a oggi non portata a termine, in quanto i cinesi possono ancora acquistare e vendere, sfruttando spesso exchange cinesi con sede al di fuori del paese, criptovalute).
La lotta intestina fra l’interesse per questa nuova finanza digitale (che potrebbe disfarsi dei vecchi equilibri ancorati alla finanza occidentale) e il desiderio di eliminarla per evitare di perdere controllo sulla popolazione ha avuto anche risvolti giudiziari.
Ad esempio, nel gennaio 2018 in una sentenza della Corte distrettuale di Haidan il giudice ha composto la contesa fra un investitore in criptovalute che voleva la restituzione dei soldi investiti e l’exchange che li aveva convertiti in bitcoin su sua indicazione.
Le criptovalute e la teoria marxiana del valore
L’interessante teoria del ricorrente era quella per cui le criptovalute sarebbero illegittime in Cina perché contrarie alla teoria marxiana del valore.
Secondo Marx infatti la merce può avere due “valori”: da un lato il valore d’uso della merce, che consiste nella sua utilità, nell’attitudine a soddisfare bisogni umani, dall’altro il valore di scambio della merce, che consiste nella sua attitudine a essere scambiata.
Secondo il ricorrente, le criptovalute non esprimono alcuno dei valori della teoria marxiana, con la conseguenza che i bitcoin non sarebbero suscettibili di essere oggetto di compravendita in Cina.
La Corte, nel caso, ha disatteso le aspettative del ricorrente paragonando (come già avevano fatto le istituzioni finanziarie nel 2013) le criptovalute a monete o “merci” digitali (come, ad esempio, videogiochi o “upgrade” disponibili a pagamento in mondi virtuali).
Sempre nel gennaio 2018 i vertici di Pechino indirizzavano le autorità locali verso una progressiva dismissione delle attività di farming, cambiando radicalmente approccio rispetto all’atteggiamento benevolo accordato ai miners fino a quel punto e rischiando così di sottrarre alle criptovalute la potenza di calcolo necessaria per garantire il loro regolare funzionamento.
Sebbene in Cina non si sia dato seguito in maniera organica a questa direttiva, in alcune province cinesi molte mining farm sono state costrette a chiudere i battenti o a trasferirsi altrove da parte delle autorità locali e una simile attività di controllo e intervento prosegue anche oggi.
Conclusioni
Nonostante queste restrizioni Pechino continua a guardare con elevato interesse al mercato delle criptovalute, tanto da creare una propria valuta digitale su blockchain (anche se stiamo parlando di una blockchain snaturata e privata della sua caratteristica fondamentale di decentralizzazione), lo e-yuan, i cui primi esemplari sono stati consegnati (tramite un’estrazione a sorte) a 750.000 cittadini cinesi lo scorso aprile.
La criptovaluta cinese era allo studio sin dal 2014, ovvero poco dopo che in Cina i vertici finanziari si erano accorti del potenziale delle criptovalute e della possibilità di eliminare un loro fastidioso elemento caratterizzante, la libertà.
La Cina quindi ha già causato numerosi “scossoni” per il valore di Bitcoin e delle altre criptovalute, e continuerà a farlo, finché il mercato reagirà così drasticamente a ogni notizia di stampa che riguarda questo mondo (forse a oggi troppo affollato di speculatori).