L’avvento della tecnologia blockchain sta lentamente ma profondamente cambiando gli scenari anche per ciò che riguarda il Diritto d’autore. Stanno infatti fiorendo piattaforme che mirano a sfruttare l’affidabilità di questa tecnologia ai fini della tutela della proprietà intellettuale o che si propongono di rivoluzionare i modelli classici del suo sfruttamento patrimoniale.
Come funziona il principio della blockchain
La definizione blockchain viene attribuita a Satoshi Nakamoto, pseudonimo dell’inventore della criptovaluta più famosa collegata a questo sistema, il Bitcoin. Il principio è quello di un registro digitale le cui voci sono riunite in blocchi ordinati in sequenza cronologica e protetti da una marca temporale. Ogni blocco include un algoritmo matematico, detto hash, che trasforma dati di lunghezza arbitraria in una stringa di lunghezza predefinita e che appartiene al blocco che lo precede. I blocchi così collegati formano una catena dove ogni blocco successivamente aggiunto rafforza i precedenti.
La validazione tramite marca temporale avviene a opera di un nodo scelto a caso da un modello matematico, comunicato e scritto nel registro di tutti gli altri nodi della rete e reso irreversibile. I dati così concatenati vengono salvati su più macchine collegate tra loro, chiamate nodi, a ulteriore garanzia di protezione da eventuali manomissioni. La descrizione del processo fa già intravvedere le potenzialità di siffatta tecnologia sotto il profilo della prova di autenticità relativa a un qualsiasi atto di trasmissione di un determinato diritto.
La protezione della proprietà intellettuale
Per questo stanno sorgendo, ultimamente, piattaforme quali ad esempio Tutelio e Creativitysafe, che costituiscono un’alternativa ai tradizionali depositi delle opere dell’ingegno presso la SIAE, a un prezzo molto più contenuto e con procedure molto più rapide. Opportuno ricordare qui, perché è un equivoco in cui cadono molti autori, che il deposito di un’opera non è necessario per tutelare la stessa ai fini della Legge sul Diritto d’Autore, poiché quest’ultima, all’art. 6, tutela l’opera sin dalla sua creazione. Il deposito serve solo per costituirne una inoppugnabile prova di paternità, per scongiurare il pericolo che possa essere messa in dubbio da terzi.
Va anche ricordato che depositi di questo tipo non sono affatto obbligatori, bensì mere facoltà. La blockchain, inoltre, si presta anche, in un futuro prossimo, a fornire un comodo strumento per la tracciabilità delle licenze e/o delle cessioni dei diritti di cui sopra a case editrici, testate giornalistiche, etichette musicali, in particolare quando nei relativi contratti sono contemplate sublicenze o cessioni successive. Ciò potrebbe facilitare enormemente la ricerca dei titolari in tutti quei caso ove un’opera non sia più in commercio da lungo tempo e qualcuno voglia ripubblicarla. Una circostanza che attualmente può presentare cammini assai nebulosi e impervi, perché purtroppo non esiste un database generale dove il passaggio dei diritti editoriali sia tracciato.
Nuovi modelli di sfruttamento social
Un’altra rivoluzione è quella rappresentata dai nuovi modelli di sfruttamento dei diritti di opere condivise sulle reti sociali. Attualmente è già possibile guadagnare qualcosa pubblicando contenuti sul proprio canale Youtube, tuttavia per arrivare ad accantonare cifre considerevoli è necessario un impegno non indifferente in termini di produzione continua di contenuti. Ciò non solo perché la concorrenza è numerosa e non solo perché i video che comunque non soddisfano le policy del colosso californiano vengono sottoposti a rimozione anche per motivi talvolta assai discutibili e arbitrari, vanificando quindi il tempo investito, ma anche e soprattutto poiché le percentuali che la piattaforma riconosce agli autori sono ormai praticamente poco più che simboliche.
Per questi motivi stanno emergendo alternative di videosharing basate però sulla blockchain e su criptovaluta come i due esempi esaminati qui di seguito.
DTube
Questa piattaforma usa come criptomoneta lo STEEM dollar. Proprio perché fondata sul sistema blockchain ed essendo quindi un sistema decentralizzato, lo staff non può intervenire direttamente per censurare i contenuti, operazione demandata invece ai fruitori attraverso un sistema di voto. Se, da un lato, ciò apre la porta a fondamentali domande su come agire efficacemente in caso di contenuti in violazione di legge, dall’altro un sistema siffatto tutela completamente il diritto morale autoriale rappresentato dall’integrità dell’opera, che dunque non potrà essere mutilata o espunta in alcun modo.
Inoltre, a differenza di quanto avviene su Youtube, dove per monetizzare i contenuti è necessario aderire al Programma Partner (che ha dei requisiti di ingresso e una lunga lista di attesa), Dtube prevede la monetizzazione di default per chiunque si iscriva. Infine, Dtube non prevede imperscrutabili algoritmi in base ai quali suggerire all’utente determinati video piuttosto che altri e non prevede inserimenti pubblicitari nei propri video.
Dtube non è però l’Eldorado, in quanto mostra anche dei risvolti negativi. A parte la peculiarità della remunerazione in criptovaluta, fattore con cui ben pochi hanno attualmente dimestichezza, gli utenti lamentano il fatto che i contenuti siano poco più che dei clickbait per fare incetta di visualizzazioni che facciano salire la monetizzazione delle visite. Inoltre, almeno al momento, la varietà dei contenuti è davvero limitata, con una predilezione per i video che discettano di criptovalute, blockchain, monetizzazione e di come funziona la stessa Dtube, mentre la definizione dei filmati è molto bassa rispetto a quella di cui si può godere sul fratello maggiore Youtube.
Infine, la conversione da Bitcoin a una qualsiasi valuta corrente implica un processo farraginoso, quantomeno le prime volte che si procede (poi come in tutte le cose, l’abitualità rende facile qualsiasi operazione) e richiede quindi uno sforzo di comprensione iniziale che per moltissimi, specialmente in questi tempi dove la gente ha una soglia di attenzione davvero minima e volatile, può diventare una seria barriera alla diffusione del sistema. Nel decennio passato si è già visto, con l’esempio di Second Life, come la complessità della soglia d’entrata, che richiede davvero una forte motivazione per essere superata, possa decretare il successo o l’insuccesso di una promessa tecnologica.
Snapparazzi
Complice l’estrema notorietà del film felliniano La Dolce Vita, anche la lingua angloamericana ha adottato il termine paparazzo per indicare quel tipo di fotografi che rincorrono ossessivamente i VIP onde poter rubare quel particolare scatto che frutterà loro molto denaro. Snapparazzi è dunque una piattaforma il cui nome è una crasi fra il termine di cui sopra e la parola snapshot, che in Inglese designa una foto istantanea. Pertanto, il significato desumibile è ‘istantanea da paparazzo’. Non sono sicura che questa denominazione, essendo in parte fondata su un vocabolo che è pur sempre dispregiativo, sia una felice scelta di marketing, ma è indubbio che si tratti comunque di un nome suggestivo che rimane impresso.
A differenza della più anarchica e kolchoziana Dtube, Snapparazzi fa capo a una società a responsabilità limitata con sede a Malta e possiede precisi termini d’uso del servizio, dove è prevista la possibilità di sospendere il medesimo in caso di violazione dei suddetti, fra cui è naturalmente prevista l’impossibilità di caricare contenuti illegali che rientrino, a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, “nel riciclaggio di denaro sporco, nel traffico di droga, nella tratta di esseri umani, nel traffico di armi, nel terrorismo, nelle frodi e nell’evasione fiscale”. La piattaforma prevede comunque una manleva per la società e inoltre la esenta da ogni responsabilità non solo in caso di classici malfunzionamenti intrinseci della piattaforma, ma anche per gli eventuali danni causati dalle vulnerabilità di Internet.
Dal punto di vista del copyright, individua con precisione i limiti entro cui il materiale rientrante nella sua Proprietà Intellettuale viene messo a disposizione degli utenti per l’utilizzo del servizio, mentre per quanto riguarda il rapporto inverso, le cose stanno ben altrimenti: infatti, come si legge nei Termini,“qualunque materiale, informazione, comunicazione trasmessi fra l’utente e Snapparazzi, in qualunque forma e con qualsiasi mezzo diventerà unica ed esclusiva proprietà di Snapparazzi”, che pertanto“possiederà la proprietà intellettuale di tali comunicazioni e materiali e può usarli e distribuirli completamente senza restrizioni per qualunque fine legale, commerciale o altro”, senza darne avviso all’utente e senza, tantomeno, remunerarlo. Infine, le controversie sono demandate alla Camera Arbitrale secondo il codice di procedura civile maltese.
Snapparazzi si differenza da Dtube anche per il fatto che non vengono remunerati solamente i creatori di contenuti sotto forma di video, ma anche di immagini statiche Inoltre, sono remunerati anche coloro che vogliono adoperarsi da moderatori, analizzando e catalogando tali contenuti, e addirittura coloro si limitano semplicemente a guardarli. La criptovaluta di Snapparazzi si chiama SnapCoin e il guadagno per i creatori di contenuti è rappresentato dal 60% degli introiti pubblicitari generati dagli stessi, mentre la percentuale destinata ai fruitori è del 20% se essi accetteranno di guardare le immagini con gli inserti pubblicitari. Infine, l’attività dei moderatori viene premiata in base a un sistema di ‘democrazia diretta’ basata sulla valutazione degli utenti.
È previsto infine un meccanismo d’asta per quei contenuti che, caricati sull’app di Snapparazzi, rappresentino delle Breaking News, come spesso capita quando – complice ormai la capillare diffusione di telefonini – un testimone casuale si trovi a riprendere un particolare evento e qualche testata desideri poi mostrare quel materiale attraverso le proprie colonne online o i proprio canali televisivi. In questo caso, la percentuale per il reporter è l’80% del ricavato. Non è dato capire, almeno a una disamina esterna del sito, se tali immagini verrebbero solamente licenziate oppure cedute.
Conclusioni
Da questa pur sommaria panoramica è possibile cogliere il grande fermento in atto, che prelude a scenari senz’altro innovativi ma dal duplice aspetto: da un lato, la difficoltà di disciplinare gli eventuali contenuti illegali, dall’altra la grande libertà per la creatività dei singoli accompagnata non solo dalla garanzia del rispetto dei loro diritti morali, ma anche da una remunerazione più congrua.
Colpisce in particolare l’asta di Snapparazzi: visto che spesso e volentieri, almeno nel nostro Paese, i giornali si appropriano indebitamente di immagini o filmati scaricandoli semplicemente dal profili social dei singoli, non solo senza neppure sognarsi di chiedere l’autorizzazione e di remunerarli ma, talvolta, neppure citandoli come fonte – in spregio a qualsiasi deontologia e a qualsiasi rispetto per le nostre norme sul diritto d’autore – questo è senz’altro un notevole passo avanti anche nei confronti dell’educazione globale alla legalità. Una legalità che attualmente è manchevole ovunque ma, purtroppo, in Italia in particolare.
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