In attesa che si concretizzino le iniziative avanzate dalle istituzioni dell’Unione europea, volte a introdurre una futura armonizzazione regolamentare in materia di applicazioni della tecnologia blockchain ai mercati finanziari, alcuni Stati membri hanno approvato (o sono in procinto di farlo) normative interne in materia. Allo stesso tempo, anche altri Paesi europei non appartenenti all’Unione si stanno muovendo nella stessa direzione.
Tali interventi normativi possono denotare differenti approcci. Esaminiamo i tratti principali delle normative implementate a Malta e nella Repubblica di Albania, con particolare riferimento alla regolamentazione di tali Paesi sugli aspetti definitori e classificatori dei crypto-asset, senza tralasciare alcune considerazioni sulla proposta avanzata da Consob per una possibile regolamentazione italiana in materia.
Il modello nazionale di Malta
A luglio 2018 Malta è divenuta la prima giurisdizione europea a creare una normativa ad hoc volta a regolamentare le transazioni aventi ad oggetto asset digitali. Il Virtual Financial Asset Act maltese rappresenta infatti il primo vero corpus normativo, a livello internazionale, volto a creare un ecosistema regolamentare dedicato ai c.d. Virtual Financial Asset (o crypto-asset). Accanto al Virtual Financial Asset Act sono state introdotte altre due leggi in tema di applicazioni della tecnologia blockchain nei mercati finanziari: l’Innovative Technologic Arrangement and Services Act, volto in particolare ad introdurre un sistema di certificazione e registrazione dei c.d. smart contracts (denominati nella legge maltese “innovative technologic arrangements”); ed il Malta Digital Innovation Authority Act, attraverso il quale è stata prevista la costituzione di una autorità preposta, tra le altre funzioni, alla certificazione dei predetti smart contract (o “innovative technologic arrangement”). Nel presente paragrafo ci si soffermerà sulla prima delle tre iniziative legislative di cui sopra, ovvero sul Virtual Financial Assets Act, il quale poggia, sostanzialmente, su tre cardini:
- la certezza giuridica nella tassonomia e classificazione dei crypto-assets,
- l’istituzione di un sistema di autorizzazione ad hoc per emittenti ed intermediari di tali crypto-assets, ove questi ultimi vengano qualificati quali Virtual Financial Assets sulla base delle risultanze del “VFA test”, di cui infra,
- l’introduzione di un gatekeeper di natura privatistica necessario per guidare gli emittenti e gli intermediari nel procedimento autorizzativo dinanzi alla Malta Financial Services Authority (“MFSA”, l’autorità di vigilanza maltese dei mercati finanziari), ossia il “VFA Agent” registrato presso la stessa MFSA a seguito del superamento di un apposito esame.
In termini di tassonomia, una prima definizione introdotta dal Virtual Financial Assets Act attiene al concetto di “Asset”, definito come qualsivoglia tipologia di bene mobile e/o immobile. Tale nozione è utile per inquadrare poi la definizione di “DLT Asset”, la quale poggia sulla combinazione tra la sopra citata definizione di “Asset” e quella di “DLT” (“database system in which information is recorded, consensually shared, and synchronised across a network of multiple nodes”). Nella categoria dei “DLT Assets” rientrano pertanto i “Virtual Tokens”, i “Virtual Financial Assets”, la moneta elettronica e gli strumenti finanziari, che siano intrinsecamente dipendenti e/o utilizzino la “Distributed Ledger Technology” (di cui, come noto, la blockchain rappresenta un sottoinsieme). Quanto, nello specifico, alla moneta elettronica e agli strumenti finanziari, il legislatore maltese fa rinvio alle relative nozioni di cui alla disciplina esistente a livello europeo, ovvero, rispettivamente, alla Electronic Money Directive e alla MiFID II.
Per quanto concerne, invece, la nozione di “Virtual Token”, essa è stata introdotta per la prima volta nel Virtual Financial Asset Act e corrisponde sostanzialmente a quanto normalmente conosciuto con l’espressione “utility token”, ovvero una rappresentazione digitale priva di utilità, valore o apprezzamento al di fuori della piattaforma dell’emittente e che può essere rimborsata unicamente dall’emittente stesso. A fini esemplificativi, si immagini un token che permetta ai suoi detentori di accedere ai servizi offerti dall’emittente a prezzi ridotti, come ad esempio una versione digitale di un voucher di spesa. A livello definitorio, però, ciò che ha maggiore rilevanza è l’introduzione del concetto di Virtual Financial Asset (“VFA”), che viene definito in via residuale all’interno dei “DLT Assets” quale asset digitale usato come mezzo di scambio, unità di contabilità o conservazione di valore, e che non rientri nella definizione di (moneta elettronica, strumento finanziario o Virtual Token.
Ad avviso di chi scrive, uno degli aspetti più innovativi dell’approccio regolamentare maltese attiene proprio al principio sottostante a tale classificazione dei crypto-asset, nonché allo strumento/meccanismo preposto a tale classificazione. Tale approccio si sostanzia nell’aver creato un contesto normativo ad-hoc solo con riguardo ai crypto-assets che, per le loro caratteristiche, non rientrino nelle maglie regolamentari esistenti a livello europeo relative, come visto, alla moneta elettronica e agli strumenti finanziari, rispetto ai quali trovano applicazione, rispettivamente, la Electronic Money Directive e MiFID II. Tali normative non vengono né derogate né disapplicate dalla normativa maltese (cosa che non sarebbe stato, tra l’altro, possibile fare), ma piuttosto “affiancate” da una normativa specifica. In tal senso, la scelta del legislatore maltese ha il duplice obiettivo:
- di confermare, indirettamente, la natura deregolamentata dei Virtual Tokens (i.e. degli utility tokens) e pertanto dei servizi ad essi relativi; e
- di introdurre una normativa ad hoc applicabile a tutti quei crypto-asset (o DLT Asset) che, per le loro caratteristiche sostanziali, non rientrano nella definizione, oltre che dei sopra citati Virtual Tokens, di moneta elettronica o di strumento finanziario.
Il meccanismo introdotto per determinare tale classificazione è il risultato di una innovativa intuizione del legislatore maltese, ovvero il c.d. “financial instrument test”, che si sviluppa sulla base di criteri oggettivi e di definizioni normative in linea con la regolamentazione europea esistente in tema di servizi finanziari e di investimento. Con riferimento agli emittenti di un Virtual Financial Asset, tale test deve svolgersi necessariamente dinanzi al sopra citato VFA Agent, che deve essere accreditato presso l’MFSA e che si trova in una posizione a cavallo tra quella di una società di consulenza e quella di un professionista legale. Per svolgere la sua attività il VFA Agent deve ottenere un’apposita licenza ed è soggetto ad obblighi prudenziali e di condotta. Nel concreto, il financial instrument test consente, attraverso una procedura sequenziale, di classificare qualsivoglia DLT Asset, stabilendo, di conseguenza, quale sia la normativa applicabile nel caso concreto. Partendo da una prima serie di domande sulle caratteristiche sostanziali del token, una prima analisi poggia sulla classificazione o meno dello stesso quale Virtual Token (categoria, come visto sopra, non regolamentata), ovvero quale moneta elettronica o strumento finanziario, passando poi ad analizzare, qualora il token abbia le caratteristiche di uno strumento finanziario (soggetto pertanto a MiFID II e alla Prospectus Regulation), se si tratta di un derivato, di un valore mobiliare, di un “money market instrument”, di una unità di un OICR, di un una “emission allowance”, o di un’altra tipologia di derivato. Qualora il crypto-asset in questione non rientri, per le sue caratteristiche, in nessuna delle predette categorie, sarà qualificato in via residuale come Virtual Financial Asset. L’approccio del regolatore maltese sul punto consente pertanto di avere un certo grado di flessibilità, permettendo alla normativa di adattarsi agli sviluppi tecnologici ed applicativi in tema di crypto-assets, oltre ad assicurare l’assenza di conflitti normativi o interpretativi rispetto a norme gerarchicamente superiori, quali quelle di derivazione europea.
La regolamentazione in Albania
Un altro Paese che ha introdotto una normativa interna ad-hoc in materia di crypto-asset e, in generale, di applicazioni delle DLT ai mercati finanziari, è la Repubblica di Albania. La legge albanese, denominata “Fintoken Act”, è stata recentissimamente approvato in via definitiva dal Parlamento, dopo essere stata posta in pubblica consultazione a seguito della sua presentazione da parte del Primo Ministro albanese Edi Rama il 24 ottobre 2019. Il Fintoken Act ha quale obiettivo principale quello di creare un framework normativo in grado di rispondere alle esigenze di certezza e chiarezza regolamentare, al fine della tutela degli investitori; ed è stato redatto conformemente alla regolamentazione europea in tema di mercati finanziari, protezione dei dati personali e antiriciclaggio, anche in considerazione della candidatura dell’Albania quale futuro Stato membro dell’Unione europea. Con particolare riguardo alla classificazione dei crypto-asset ed ai relativi aspetti definitori, la legge albanese persegue l’obiettivo di ottenere il massimo grado di certezza in merito alle varie tipologie di tokens, con un approccio però diverso rispetto a quello maltese.
La legge albanese, infatti, introduce delle definizioni chiare e precise dei quattro tipi di “digital token” in essa categoricamente previsti, ossia: i “digital utility tokens”, i “digital payment token”, i “digital asset token” e i “digital security token”. Con specifico riferimento ai digital security token, essi vengono definiti come quei “digital tokens” che rientrano nella relativa definizione di security contenuta nella normativa albanese sui capital market (anch’essa di recente approvazione). In tal modo diventa pertanto possibile disciplinare in maniera organica nella nuova normativa anche le “security token offering” (STOs), ossia le offerte iniziali di crypto-asset qualificabili come security ai sensi della normativa applicabile, e le loro successive negoziazioni e scambi tramite gli exchange. Inoltre, al fine di risolvere i problemi classificatori derivanti dalla natura “ibrida” che spesso si riscontra nella struttura e funzione dei tokens, la normativa albanese prevede che, nel caso in cui un digital token abbia le caratteristiche sia di un digital security token, che di uno o più altri tipi di digital token, esso dovrà essere considerato un digital security token.
In tal modo, la normativa albanese tende a favorire il lancio di security token offering, che possono invece incontrare degli ostacoli di natura regolamentare nei Paesi dell’Unione europea, dovuti in particolare, come si è visto nel caso maltese, all’impossibilità di derogare a quanto previsto dalla MiFID II relativamente a quei crypto-assets che rientrano nella definizione di “strumenti finanziari”.
L’idea di Consob per la regolamentazione in Italia
Tramite una pubblica consultazione aperta a marzo 2019 e conclusasi con la pubblicazione di un “Rapporto finale” il 2 gennaio 2020, Consob ha raccolto le osservazioni di numerosi operatori del mercato in merito ad una sua proposta di possibile regolamentazione italiana in materia di crypto-asset. Lo scopo dichiarato di tale iniziativa è quello di presentare al Governo una proposta di legge che abbia quale obiettivo primario la tutela degli investitori. Tuttavia, complici (forse) anche le sopra citate recenti iniziative in materia avanzate dalle istituzioni dell’Unione europea, ad oggi non si ha notizia di una effettiva ripresa della discussione in merito all’approvazione di tale normativa. Venendo ora alle proposte avanzate da Consob, giova sottolineare come, dal punto di vista definitorio, l’approccio della nostra Autorità di Vigilanza non sia volto a ricomprendere i crypto-assets in categorie già esistenti, bensì a creare una categoria giuridica a sé stante, alla quale applicare la nuova regolamentazione; e fermo comunque restando che (per gli stessi sopra citati limiti derivanti dalla normativa europea) anche i crypto-assets oggetto della proposta di Consob non possono rientrare nella definizione di strumento finanziario (né in quella né di prodotti di investimento quali PRIIP, PRIP e IBIP), ma possono eventualmente rientrare nella definizione di prodotto finanziario (che, invece, rappresenta una peculiarità italiana non prevista da MiFID II).
La definizione di crypto-asset (o cripto-attività) proposta da Consob li qualifica come “registrazioni digitali rappresentative di diritti connessi a investimenti in progetti imprenditoriali”, che devono essere “create, conservate e trasferite” (unicamente) mediante “tecnologie basate su registri distribuiti”, le quali DLT permetteranno di registrare e mantenere l’evidenza della titolarità dei diritti connessi ai crypto-asset in circolazione e dovranno necessariamente consentire “l’identificazione del titolare dei diritti relativi agli investimenti sottostanti e incorporati nella cripto-attività”. In tale definizione dovrebbero inoltre rientrare esclusivamente quei crypto-asset che sono “destinati a essere negoziati o sono negoziati all’interno di uno o più sistemi di scambi” (i c.d. exchange). L’approccio di Consob nel proporre una definizione normativa ad-hoc dei crypto-assets – con riferimento ai quali viene previsto l’esonero per i promotori delle relative offerte iniziali dal rispetto della disciplina in materia di prospetto informativo e promozione e collocamento a distanza di prodotti finanziari – è, ad avviso di chi scrive, condivisibile, avendo quale obiettivo quello di “affrontare la materia tenendo conto delle sue peculiarità”.
Condivisibile, inoltre, è il richiamo di Consob, in particolare nel suo “Rapporto finale”, all’opportunità di considerare in sede di regolamentazione di secondo livello determinati specifici aspetti, quali ad esempio, “i rischi connessi all’impiego di particolari modelli operativi”. Si ritiene infatti che – soprattutto in un mondo soggetto a rapidi cambiamenti come quello legato alla tecnologia blockchain – una strutturazione “a più livelli”, nella quale il legislatore primario codifichi alcuni principi fondamentali, delegando poi al regolatore secondario la definizione degli aspetti più di dettaglio, consenta di assicurare un sufficiente grado di flessibilità del nuovo regime normativo (similmente a quanto fatto, ad esempio, con l’introduzione della “Regulatory Sandbox” italiana sul FinTech).